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sabato 25 novembre 2023

Aether - S/t

#PER CHI AMA: Jazz/Post Rock
Non è stato certo cosi facile recensire l'album dei milanesi Aether. Nati solo sul finire del 2021, i quattro esperti musicisti sono riusciti ad attirare l'attenzione dell'Overdub Recordings che subito gli ha concesso l'opportunità, con questo album autointitolato, di mettersi in mostra attraverso una non scontata proposta musicale. Forti di pregresse esperienze in ambito jazz - la tesi di laurea del bassista su questo genere ne è la prova, ma vi basti anche ascoltare "Radiance" per carpire immediatamente le forti influenze del genere afro-americano - la band sciorina undici pezzi strumentali che poggiano la propria architettura proprio sul concetto di base di questo sound, ossia l'improvvisazione, la progressione armonica e l'elasticità ritmica proposta in maniera ineguale, scandita da fughe di basso e chitarra e rallentamenti più tenui e sofisticati ("Thin Air") che palesano ulteriori influenze musicale provenienti dal post rock e dal progressive, il tutto permeato di un tocco cinematico che sicuramente non ne guasta l'ascolto, anzi lo integra abilmente. E proprio quello delle colonne sonore potrebbe sembrare il mood offerto da un brano delicato e sensuale (al limite dell'ambient) come può essere "Grey Halo". Decisamente più jazzy la successiva "Pressure" (e più avanti sarà lo stesso anche con la bluesy "Moving Away"), che mette in mostra l'eccellente perizia esecutiva dei nostri, che tuttavia a me scalda meno il cuore perchè finisco quasi per viverla come un puro esercizio di stile. Più convincente, e per questo più vicina alle mie corde, "A Gasp of Wind" offre le luci del palcoscenico dapprima alla chitarra, per poi spostare i riflettori all'insieme degli strumenti che, pur muovendosi in ambienti oscuri, quasi tetri, ne escono forieri di speranza. Sonorità aliene emergono invece dalla più stralunata e dronica "A Yellow Tear in a Blue-Dyed Sky", in cui la scena sembra prendersela esclusivamente il basso di Mr. Grumelli. Ancora sofismi noise drone con "The Shores Of Solinas", mentre con "Crimson Fondant", il quartetto lombardo sembra abbracciare caleidoscopiche sonorità settantiane blues prog rock (il che stride peraltro con la copertina monocromatica del disco), senza tralasciare comunque quella matrice di fondo jazz su cui poggia l'intero disco. Un viaggio sonoro che si chiude con la musicalità catartica di "This Bubble I’m Floating In": questa sigilla un lavoro ambizioso, complesso e affascinante, che necessita tuttavia di una grande predisposizione di testa e animo per poterla ascoltare ma soprattutto capire. Se voi però vi sentirete pronti ad affrontarla, allora gli Aether potranno fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2023)
Voto: 75

https://aether5.bandcamp.com/album/aether

venerdì 10 novembre 2023

Treebeard - Nostalgia

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Ci impiegano più di cinque minuti ad ingranare la marcia gli australiani Treebeard per venire fuori dall'opening track di questo 'Nostalgia', lavoro uscito due anni fa e riproposto dalla Bird's Robe Records su cd in questi giorni. Quando lo fanno però, il quartetto di Melbourne colpisce per i suoi suoni accattivanti ed attrattivi, in grado di miscelare post rock e sonorità progressive. Che la band sia pigra ad emergere dai propri trip cosmici è confermato anche dalla seconda e lunga "The Ratcatcher", che piano piano ci racconta qualcosa di più di questa band di cui ho scoperto solo oggi essere nella pila dei cd da recensire. Le sonorità molto intimistiche sono quelle che hanno il sopravvento nell'economia del disco con il post rock e tutti i suoi orpelli (suoni riverberati, tremolo picking e atmosfere soffuse) a farla da padrone e a conquistare nemmeno troppo lentamente, la mia fiducia. Si perchè i Treebeard mi affascinano per le loro sonorità che evocano altri artisti dell'etichetta di Sydney (penso ai We Lost the Sea), ma trovo abbiano anche qualche punto in comune con gli Anathema più crepuscolari e malinconici. E non posso che apprezzare, io che sono fan della band inglese, ma che seguo da vicino anche le attività della label australiana. Se poi aggiungete il fatto che finalmente una band post rock si proponga in una veste non strumentale, potrete capire il mio piacere nell'assaporare le note, a tratti pesanti, di questi gentiluomini. Sempre piuttosto criptico è l'inizio anche in "Pollen", quasi fosse un marchio di fabbrica dei nostri, con atmosfere shoegaze che si combineranno successivamente con sonorità più oniriche e liquide, prima dell'esplosione delle chitarre che ristabiliscono una sorta di status quo emozionale ove poggiare le voci stralunate del frontman. Mentre la titletrack si configura come un ponte con la successiva "8x0", quest'ultima mostra influssi cosmici nei suoi contenuti, da quel basso apocalittico che si prende la scena a inizio brano, al rifferama di estrazione quasi thrash che da li in poi fluisce nel corso del pezzo, che forse va a confermarsi come il più pesante del lotto, con il post metal che sembra venarsi di sfumature post hardcore in una progressione sonora strumentale che ci condurrà a "Terra". Qui, sembra coglierci un barlume di speranza, come se avessimo scoperto un nuovo mondo grazie alle tastiere in apertura, in realtà stiamo solo scoprendo quanto bello sarebbe il nostro pianeta se non lo stessimo distruggendo con le nostre mani insanguinate da guerre, inquinamento, odio e quant'altro. Un pezzo quasi ambient che sembra sottolineare malinconicamente quanto tutto stia andando a rotoli senza che fondamentalmente non ce ne importi nulla. Splendide qui le melodie delle chitarre, che sanciscono la cinematicità di questo ensemble. "Dear Magdalena" e "Nostalgia II" chiudono il disco, la prima con voci e atmosfere di "radioheadiana" memoria, almeno fino al quarto minuto quando i nostri sterzano verso sonorità più roboanti che ci accompagneranno al finale di "Nostalgia II", dove spoken words aprono un brano intenso e drammatico che non può far altro che imporci mille riflessioni di qualunque tipo. Nel frattempo, non posso far altro che consigliarvi l'ascolto del qui presente. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 75

https://treebeard2.bandcamp.com/album/nostalgia

giovedì 12 ottobre 2023

Collapse Under the Empire - Recurring

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
Eravamo in pieno periodo Covid quando ci siamo soffermati a recensire 'Everything We Will Leave Beyond Us', ottava fatica dei teutonici Collapse Under the Empire (CUTE). Chissà se finalmente quel tutto, menzionato nel titolo ce lo siamo finalmente lasciato alle spalle? Nel mentre ognuno di noi sta pensando alla propria risposta, ecco arrivarci fra le mani il nuovo 'Recurring' e nove nuove tracce che portano i nostri a proseguire nella loro esplorazione musicale di un post rock sofisticato, svolazzante, onirico, data la sua capacità di muoversi su molteplici binari, cosi come già materializzato nell'opener "Genesis", che dal classico post rock strumentale si muove sinuoso in territori più progressive o synthpop, grazie a quelle importanti porzioni orchestrali che tendono ad occupare tutto il suono dei nostri e a palesare i punti di forza e debolezza di un disco che vuole narrare il perpetuo ciclo di vita e morte del nostro pianeta, tema tra i più ricorrenti nelle più recenti release. E cosi, a narrare questa costante ripetizione di distruzione, purificazione, pace e redenzione, i nostri giocano con i molteplici umori, narrazioni strumentali, chiariscuri, saliscendi emozionali che si manifesteranno via via anche nelle successive song, dall'umorale ed estremamente atmosferica (ma soprattutto malinconica) "Revelation", che la indicherò alla fine come uno dei miei pezzi preferiti, alla più ipnotica e cerebrale "Mercy", grazie alle sue doti cinematiche e all'espandersi di delicate atmosfere shoegaze da metà brano in poi. "Absolution" sembra addirittura enfatizzarne i toni attraverso quell'uso (abuso?) di synth che si affiancano alle chitarre riverberate e che sembrano donare al disco evocativi tratti cosmici che mi hanno portato a pensare a band quali God is an Astronaut o Exxasens. Il duo di Amburgo si prende un momento di pausa in "Requiem", una sorta di bridge ambient evocante le vibrazioni cosmiche del film 'Gravity', che ci introduce a "Forgiveness", il più post rock dei brani inclusi in 'Recurring', ma anche quello più dinamico, con quel suo rincorrersi delle chitarre e la quasi soverchiante stratificazione di piano/tastiere in anfratti nebulosi di un cosmo oscuro e gelido. Ma le chitarre tornano fragorose nel finale di un brano turbinoso e affascinante. "Salvation" è invece più spinta verso territori sintetici, con le chitarre qui relegate in secondo piano che tuttavia non perdono la loro forza motrice. A seguire, "Apocalypse" si muove su analoghe linee elettroniche che nella loro iniziale ridondanza, non incontrano appieno il mio gusto, e in realtà, questo sarà anche il brano che ho trovato meno convincente nella proposta dei CUTE, sebbene un finale imponente, figlio di un'ariosa emozionalità cinematica, e all'utilizzo di delicati archi in sottofondo. La conclusiva "Creation" si muove su suadenti note di sintetizzatore a cui faranno da contraltare in più di un'occasione, esaltanti partiture di chitarra che esaltano finalmente il risultato complessivo, per il gradito ritorno di una band davvero competente nel proprio genere. (Francesco Scarci)

giovedì 5 ottobre 2023

Hemina - Romancing the Ether

#PER CHI AMA: Prog Rock
Ho letto un po' di tutto su questa navigata band australiana, chi li accosta al Devin Townsend Project, chi li avvicina ai Dream theater, chi li vuole con impulsi djent. Io, semplicemente, resterò fedele al mio istinto da ascoltatore per cercare di farvi crescere la voglia di avvicinarvi ad un album assai complesso e vivace, il quinto lavoro degli Hemina, 'Romancing the Ether', che già dal titolo e dall'artwork di copertina, vagamente hippie, invita alla fuga cervellotica senza nessun pregiudizio musicale. Partiamo col dire che è un'opera enorme dal punto di vista della quantità sonora che vi troviamo al suo interno, la band suona da manuale e le doti traboccano in eccesso, le melodie straripano e l'alto minutaggio dei brani a fatica riesce a contenere il flusso di idee che il quartetto australiano ha messo in campo per comporre questo disco. Gli Hemina sono una sorta di band d'altri tempi, poichè nelle loro composizioni, non nascondono un amore immenso per il retro rock di matrice progressiva, l'hair metal più complesso come quello dei sottovalutati Tychetto, e l'AOR ovvero Adult Orient Rock, un genere pieno di variegate influenze, mai troppo pesante, melodicamente ineccepibile, sempre orecchiabile e suonato da musicisti altamente qualificati, sottovalutato dal pubblico medio, apprezzato da una valanga di musicisti, intenditori e addetti ai lavori. Avvicinarsi al mondo di questo disco vuol dire quindi calarsi in un cosmo musicale che varia dall'universo degli Styx o dei Journey, per arrivare in punta dei piedi per i Coheed and Cambria e i conterranei Closure in Moscow, ovviamente per quanto riguarda il lato più moderno del sound, rivisitando i giustamente già citati Dream Theater, soprattutto prendendo spunto dal loro lato più romantico. Metteteci dentro anche che, per romanzare l'etere, gli Hemina si sono calati in una forma di psichedelia che si addentra in luoghi sconsacrati al rock, come la dance elettronica intelligente della EDM, anticipata al minuto 22 circa della lunga suite iniziale che dà il titolo all'album, da un intro etnico, dal sapore orientaleggiante, che richiama niente meno che, le sperimentazioni cosmiche degli Ozric Tentacles, e se si ha il tempo di chiudere gli occhi per 35 minuti filati, difficilmente si potrà non notare la passione per le doppie voci in falsetto o la maestosità fatta rock dei Toto o dei Supertramp (tipo quelli di 'Crisis? What Crisis?' del 1975), amalgamati da una voce spettacolare che con la sua estensione canora, imprigiona l'ascoltatore al disco, una performance vocale dinamica vicina al timbro vocale di Brandon Boyd degli Incubus e James Labrie. "Strike Four" continua con la magnificenza dei Dream Theater, e con una chitarra che si mette in bella mostra tra una melodica ballata di pianoforte e la voce di Douglas Skene, sempre in ottima evidenza. Un sound maestoso ad ampio respiro per 10 minuti di puro melodico rock suonato in maniera emotiva, con accenni di pesanti ritmiche di natura metal e una fluidità d'ascolto di una classe superiore. "Embraced by Clouds" parte con la voce femminile, che già aveva fatto la sua comparsa nel primo brano, a cura della bassista Jessica Martin che sfodera molte similitudini con gli ultimi lavori degli Anathema, ma senza perdere la propria originalità. Gli Hemina fondono il loro sound con un pungente, raffinato e moderno hard rock, e altri spunti di pesante metal, trafitto da innesti di tastiere progressive, assoli importanti e non ultimo, il canto corale di vecchia scuola Yes, e proprio per non far mancare niente alla tela di questo quadro multicolore, una lunga coda romantica cantata in maniera splendida a due voci, che farà felici gli amanti delle parti più melodiche dei Dream Theater. Il brano che chiude i circa 63 minuti dell'album è "Revelations", il più corto del disco, che riporta la band in territori di rock da grandi arene, di grande apertura, arioso e luminoso. 'Romancing the Ether' alla fine è un album che abbisogna di svariati ascolti per essere compreso appieno, è un disco che ha una veste progressiva, ma vanta un'anima, uno smalto e un vigore, più vicini alla rock opera, con tutti crismi del caso, nessun tipo di aggressività musicale ma tanta energia e virtuosismo, romanticismo tangibile, tecnica sopraffina ma nessuna traccia di rock urticante, maligno o nervoso. Un disco d'altri tempi come detto nelle prime righe, una lunga carrellata che non stanca, vivace, solare e pieno di tecnica strumentale e vocale, che sottolinea le alte aspettative di questa band, in termine di composizione ed esecuzione, un lavoro che non tutti apprezzeranno visto le sue doti atipiche, per sound e costruzione, un'opera che farà tuttavia la felicità di quelli che il rock lo vogliono pulito e di qualità. Una o meglio, più di una completa immersione d'ascolto, per questo album è vivamente consigliata. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 80

https://hemina.bandcamp.com/album/romancing-the-ether

venerdì 25 agosto 2023

Toehider - Quit Forever​?

#PER CHI AMA: Prog Rock
La Bird’s Robe Records è scatenata: una serie di uscite stanno infatti contraddistinguendo sin qui questa stravagante estate 2023. Tornano sulle scene i Toehider, la creatura di Michael Mills, dopo averli recensiti lo scorso anno con ‘I Have Little To No Memory of These Memories’. Digerito appieno quell’ambizioso lavoro, mi appresto ad affrontare il nuov EP del polistrumentista australiano intitolato ‘Quit Foreverer’, che dovrebbe far parte di una serie di ben 12 EP, un esperimento già compiuto a cavallo del 2009/2010. Il mastermind di Melbourne ci spara subito in faccia “Uncle Aqua”, che si toglie di dosso tutte le scorie orchestrali dello scorso anno e ci investe invece con un bel thrash/speed metal anni ’80, dotato di sonorità di “king diamondiana” memoria, un bel riffing (incluso un tagliente assolo) che ben si combina con i vocalizzi dell’artista. Dopo la prima mazzata in faccia, arriva “Every Day I Wake Up in the Morning and I FAIL! FAIL! FAIL” che sembra trasportarci nei paraggi di un garage pop rock, che viene brutalmente (e fortunatamente) spezzato da folli intermezzi di musica estrema che mi tengono incollato nell’ascolto della psicotica proposta dei Toehider. Se non sapessi con chi ho a che fare, credo che avrei skippato il brano dopo i primi sei secondi, e invece l’imprevedibilità è una delle specialità di casa Mills, non stupisca quindi di passare in una frazione di secondo, da musica pop a sonorità apocalittiche nere come la pece. Esaurito l’effetto sorpresa, ci muoviamo verso “Nobody Even Really Liked it in There But Me”, dove la sensazione è di essere catapultati indietro nel tempo di oltre 50 anni, alle origini del prog rock, per un brano che non ha nulla da spartire con quanto ascoltato sin qui. La canzone conclusiva, la title track chiude in modo malinconico il primo EP della serie, sulle note malinconiche di un pianoforte e sull’ispirata voce del frontman che lascia intendere che nei prossimi mesi ne sentiremo davvero delle belle. (Francesco Scarci)

giovedì 10 agosto 2023

Tangled Thoughts of Leaving - Oscillating Forest

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Ecco, l’hanno rifatto. Sto parlando degli australiani Tangled Thoughts of Leaving che hanno rilasciato un altro album di folle, imprevedibile post metal strumentale, venato di sonorità jazz. Chi pensa che questo genere inizi a stancare, beh si sbaglia di grosso perchè ancora una volta, la band di Perth supera se stessa e ci delizia con un doppio lavoro dal titolo suggestivo, ‘Oscillating Forest’, e da contenuti di altissimo livello che spazziano tranquillamente anche nel versante post rock, nell’ambient, nel prog, nella pura improvvisazione e addirittura nel noise. “Sudden Peril” apre le danze del lavoro e in poco meno di quattro minuti ci mostra il livello di ispirazione odierno della band, ma è con la più claustrofobica e decisamente più lunga (8:28 min) “Ghost Albatross”, che il quartetto australiano inizia col mettersi a nudo tra atmosfere post rock, spaventosi chiaroscuri orrorifici, cambi di tempo improvvisi e (in)frazioni rumoristiche destabilizzanti, che ci fanno capire il genio di questa band davvero multisfaccettata che sa esattamente come scrivere musica di un certo livello, dotata peraltro di un certo impatto emotivo. La cosa si mantiente anche nei quasi 10 minuti della terza “Twin Snakes in the Curvature”, un pezzo che si presenta con un impianto cinematico-sperimentale davvero inquietante a cavallo fra ambient e noise, in grado di annebbiare il cervello come la peggiore delle sostanze psicotrope. Superato questo trip da funghi allucinogeni, la band pensa bene di infarcire il tutto con il pianoforte e a destabilizzarci ancor di più con partiture jazzistiche davvero funamboliche. Non sarà semplice venir fuori interi da questa jam session, un po' come se ci fossimo fatti un tuffo in un frullatore gigante e avessimo lottato contro kiwi, fragole e banane giganti. Abbandonata questa parentesi vegana, vengo risucchiato dai due minuti rumoristici di “Seep Into” che ci accompagna a “Lake Orb Altar” e alle sue derive soniche desolanti, quasi uno scatto del deserto che è emerso dal prosciugamento del lago d’Aral, una visione apocalittica figlia del mondo in cui stiamo vivendo, un mondo che brucia da un lato mentre l'altro viene innondato da acque tumultuose. E questa song brucia, genera emozioni contrastanti, turbamenti interiori, un malessere da cui sarà difficile sfuggire, sebbene la melodia nella sua seconda metà, provi a stemperare l’apocalisse incombente. Ma poi, la ritmica avanza veloce, il basso pulsa come quando il cuore mi esplode nel petto dopo una scalata di una montagna, i giochi di synth diventano ipnotici e le chitarre frastornanti. Ci pensa “Trinket Forest” a ripristinare l’equilibrio con suoni da tempio buddista (o forse giardino zen). Il rumorismo torna sovrano in “Lamprey Strings” e si va mescolare con un’improvvisazione sperimentale davvero da capogiro in grado di rovesciare pensieri, parole ed emozioni. Se avessi scalato l’Everest sarebbe stato decisamente più semplice e invece farsi inghiottire dalle chitarre caustiche di “Bush Wallaby”, con quei suoi giochi di piano e batteria, diventa quasi una delle cose più complicate da affrontare, visto che davanti ci sono altri tre brani per oltre 20 minuti di musica: dal pianoforte impazzito della spettrale “Folded Into”, suonato da un fantasma in un castello maledetto, alle atmosfere da incubo di “The Mantle”, per terminare con la lunghissima (oltre 11 minuti) title track, in grado di darci il definitivo colpo del ko, tra suoni morbosi, deviati e schizofrenici che non pensavate potessero esistere su questa Terra. Semplicemente pericolosi. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk! Records – 2023)
Voto: 77

https://ttol.bandcamp.com/album/oscillating-forest

martedì 8 agosto 2023

Kodiak Empire - The Great Acceleration

#PER CHI AMA: Math Rock/Prog
Gli australiani Kodiak Empire tornano sul luogo del delitto con un nuovo e breve (mezz’ora tonda tonda) quarto album, sotto la super visione della Bird’s Robe Records. ‘The Great Acceleration’, un concept album che affronta i temi della crisi climatica e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, si presenta come un mix di rock progressive, post-rock, ambient, math e sperimentalismi vari. Il disco si caratterizzata sin dall’iniziale “The Difference”, da melodie evocative e influenze che chiamano sicuramente in causa i conterranei The Mars Volta e gli ultimissimi Tesseract, con un fare a tratti un po’ troppo pop per i miei gusti. A far da contraltare a queste sonorità un po’ ruffiane, ci pensano però giri di chitarra ipnotici, che sembrano trarre linfa vitale dal math rock ma qualcosina anche dal djent, cosi come pure quei lunghi e poderosi assoli dall’elevato tasso tecnico, tengono la band di Brisbane ancorata a un rock decisamente robusto. E “Within the Comfort” non fa altro che ribadirlo, con quel suo inizio tumultuoso e super distorto, anche se non appena entra la morbida voce del vocalist, il suono diventa decisamente più mellifluo. Non temete comunque, visto che nel corso del brano ci sarà un’alternanza di tempi, sorretti da ritmiche sostenute, sghembe ed imprevedibili che indirizzano i nostri nuovamente verso lidi math. E questa fondamentalmente sembra essere la forza dei Kodiak Empire, ossia accostare l’irruenza del rock progressivo (che tende talvolta a sfociare nel metal) con il pop. Certo, qualcuno storcerà il naso alla parola pop (me compreso), ma questa è la peculiarità del quintetto australiano. Un pezzo come “Animist” mette in luce un’anima più alternativa, ma la cosa che più mi ha colpito qui è in realtà un drumming estremamente fantasioso coniugato ad un intrigante gioco di atmosfere guidate da un synth dai tratti malinconici. “Maralinga”, complice la sua breve durata, la leggo più come un ponte tra “Animist” e la conclusiva “Marcel”, anche se nei suoi 141 secondi, condensa il lato più sperimentale della band, tra sinuose partiture atmosferiche, turbamenti noise e schitarrate metalliche. In chiusura, la già citata “Marcel” si srotola lungo i suoi quasi nove minuti, attraverso atmosfere suffuse, ammiccamenti pop (complice anche qui il cantato eccessivamente ruffiano del frontman), cambi di tempo bizzarri e gagliarde accelerazioni, peraltro in combinazione con un inatteso growling, che alla fine spariglia completamente le carte in tavola e ti spingono a volerne di più. Invece, il disco si ferma qui, come se voglia ingolosire gli ascoltatori in vista di un nuovo travolgente lavoro dei Kodiak Empire. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records – 2023)
Voto: 73

sabato 5 agosto 2023

Nattehimmel - The Night Sky Beckons

#PER CHI AMA: Epic/Pagan Black
Non potevo fare finta di niente, gli In the Woods... sono stati una parte importante nella mia crescita di metallaro essendo state una delle band che più ho amato a metà anni ’90 e vedere che oggi si sono formati sono altre spoglie, rispondendo al nome di Nattehimmel, non può che rendermi felice. I fratelli Botteri (menti anche dei Green Carnation) sono tornati e questo ‘The Night Sky Beckons’ è il loro demo del 2022 che ha anticipato l’uscita di quest’anno, ‘Mourningstar’. Lo stile dei norvegesi si avvicina molto a quello di ‘Light of Day, Day of Darkness’ dei Green Carnation con l'aggiunta alla voce di J. Fogarty, un altro che non ha bisogno di troppe presentazioni, vista la sua militanza negli Old Forest, Ewigkeit, ex voce degli In the Woods... e The Meads of Asphodel. Un gruppo ben assortito di musicisti che lungo queste tre tracce, ci delizieranno con il loro prog pagan doom che in alcune parti, sembra trovare sfiati black metal, come nel black cosmico dell'iniziale "Astrologer" o nel riffing marcescente a metà di “Mountain of the Northern Kings”, laddove la voce di Mr. Fogarty assume sembianze screameggianti anzichè palesarsi in un formato epicamente pulito. La musica del quintetto anglo-norvegese si conferma di assoluto valore, con sterzate stilistiche tra parti doomish e stilettate black (in stile In the Woods…) come avviene nell’ultima e anche title track, che non fa altro che confermarci come i fratelli Botteri siano ritornati alle loro origini, e a quella speciale forma di black misticheggiante che mi aveva totalmente rapito ai tempi di ‘Heart of the Ages’ nel lontano 1995. Ora non mi resta altro che ascoltare il nuovo album. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Records – 2022)
Voto: 74

https://hammerheart.bandcamp.com/album/the-nigh-sky-beckons 

sabato 15 luglio 2023

Hex A.D. - Delightful Sharp Edges

#PER CHI AMA: Heavy Prog Rock
Se la Norvegia negli anni '90 rappresentava il luogo là dove il black metal è nato, oggi lo stesso splendido paese scandinavo è diventato sinonimo di sonorità progressive. L'ho già detto più di una volta, lo ribadisco oggi in occasione dell'uscita del sesto album degli Hex A.D., 'Delightful Sharp Edges', un disco peraltro focalizzato su un tema davvero straziante, il genocidio, dall'Olocausto degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale, al massacro dei Tutsi in Rwanda, per finire con la persecuzione e genocidio dei Rohingya in Birmania. Un tema molto pesante che viene affrontato attraverso questo concept album suddiviso in tre parti narrative, che conducono l'ascoltatore in un viaggio della memoria davvero complicato da digerire liricamente parlando. Il disco si apre con la lunghissima (quasi 13 minuti) "The Memory Division" ed una proposta che si muove tra il prog e l'heavy rock, chiamando in causa mostri sacri della storia, da Uriah Heep, Thin Lizzy e Black Sabbath, combinando un innumerevole numero di influenze, generi e stili, da un utilizzo massivo di synth e tastiere, dotate di una spinta psichedelica ad un approccio hard rock oriented. Il brano è sicuramente complesso e forse necessita di molteplici ascolti per essere assimilato e capito appieno. Molto più semplice invece l'ascolto di un brano classico come potrebbe essere "Murder in Slow Motion", che non inventando nulla di che, ci investe con il suo hard rock graffiante in pieno stile settantiano. "...By a Thread", nel suo lungo e patinato acustico d'apertura con tanto di voci effettate, rievoca poi gli ultimi Opeth. Con l'ingresso di batteria e percussioni, queste danno una bella sterzata al sound, che evolve poi nei suoni spiazzanti di quel treno che deportava gli ebrei nei campi di concentramento. Cosi inizia "Når Herren Tar Deg I Nakken", un brano dalle atmosfere sinistre, inquietanti, sorrette da una voce che sembra dare delle istruzioni ai nuovi ospiti di quel campo di concentramento, mentre la musica si muove tra riff pesanti e suoni di hammond. "Radio Terror" attacca con un flebile sound, una chitarra che sembra più un grido di dolore, mentre la voce del frontman si presenta qui più delicata rispetto ad altre parti. E poi ecco entrare in scena delle percussioni tribali a stravolgere un po' tutto con un incedere che potrebbe stare a metà strada tra Pink Floyd e Blue Öyster Cult, in quello che reputo essere il miglior pezzo del disco. Non siamo nemmeno a metà disco (la brevissima "St Francis" è giusto a metà) ma rischierei di dilungarmi esageratamente nel raccontarvi questo 'Delightful Sharp Edges'. Mi limiterò pertanto a suggerirvi un altro paio di pezzi, anche se devo ammettere che la seconda metà del disco non sembra essere altrettanto convincente quanto la prima, in quanto suona più deboluccia, complice la presenza di un paio di brevi tracce, per cosi dire, accessorie. A salvarne l'esito c'è però la splendida "The Burmese Python", in grado di emanare un feeling di grande impatto, evocando una sorta di improbabile mix tra Pink Floyd e Green Carnation. Un buon lavoro, non c'è che dire, ma che necessita di una certa attenzione e sensibilità per essere realmente apprezzato al 100%. (Francesco Scarci)

lunedì 10 luglio 2023

The Sun or the Moon - Andromeda

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Era l'agosto del 2021 quando recensivo 'Cosmic' dei tedeschi The Sun or the Moon. A distanza di due estati, eccomi con il comeback discografico dei nostri in mano, 'Andromeda'. I nostri ci ripropongono, ancora attraverso un tema di tipo cosmico, il loro ispiratissimo connubio tra kraut rock e psichedelia, spingendoci indietro nel tempo di quasi 50 anni. Si perchè anche questo lavoro, come il precedente, affonda le proprie radici musicali, in band baluardo di quelle sonorità, Pink Floyd, Tangerine Dream, Ozric Tentacles e Hakwind, giusto per fare qualche nome qua e là a casaccio. E "Operation Mindfuck", che sembra fare il verso a 'Operation Mindcrime' dei Queensryche, in realtà si muove su fluttuanti sonorità oniriche, con tanto di sensuali percussioni che ne guidano l'ascolto interstellare, verso galassie lontane, e la voce del frontman a deliziarsi con vocalizzi puliti e delicati. Con "Psychedelik Kosmonaut", le cose cambiano drasticamente (ma sarà la sola traccia del disco a scostarsi cosi violentemente dalle altre) con una proposta più incalzante, come se i Rammstein suonassero cose dei Kraftwerk in versione più danzereccia, e con le voci in lingua madre, a sancire il senso di appartenenza a questo genere. "Planet 9" nuovamente imbocca la strada dell'opening track, tra lisergiche atmosfere rilassate, pulsioni cosmiche, suggestioni prog e aperture jazzy, con flauto e pianoforte veri punti di forza di un brano che sembra frutto di pura improvvisazione. Anche "Andromedan Speed Freaks" prosegue su binari affini, anche se a metà brano irrompe un robustissimo riff di chitarra, per poi successivamente rientrare nei ranghi di un sound cosmico, composto ed illuminato, pronto ad accompagnarci nelle esotiche contaminazioni di "The Art of Microdosing". Una song quest'ultima, che riassume nella sua interezza la proposta dei teutonici, che vede chiamare in causa anche i Cosmic Letdown in quelle parti più orientaleggianti, e che peraltro, nelle sue fosche melodie, concede il palesarsi di una ugola femminile e di un ispiratissimo sax, vera ciliegina sulla torta di questo inebriante pezzo. Si prosegue sui tocchi di piano di "Into Smithereens" ed una voce che, inequivocabilmente, chiama in causa i Pink Floyd, per un brano dotato peraltro di un'animosità splenica davvero emozionante. "Surfin' Around Saturn" (splendido questo titolo per cui è stato anche girato un video) ci fa fluttuare nel vuoto spaziale tra sonorità di doorsiana memoria e una forte vena pinkfloydiana che rappresenta probabilmente la principale influenza per i nostri. Analogamente, per la chiusura affidata all'ancor più eterea "40 Days", un pezzo che, seppur strumentale, rappresenta con il suo lungo assolo prog, il vero pamphlet dei The Sun or the Moon. Siete pronti anche voi quindi per un nuovo viaggio interalattico? (Francesco Scarci)

martedì 27 giugno 2023

Alas - Absolute Purity

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Progressive Metal
Ottimo esordio (rimasto poi tale) per questi Alas, band floridiana capeggiati dal grande Erik Rutan (Hate Eternal, ex-Mordid Angel), forse non del tutto originalissimo come concept, ma sicuramente ben suonato e presentato ottimamente per quanto riguarda la veste grafica (Niklas Sundin) e la promozione. Per quanto riguarda la musica poi, ci troviamo davanti ad un ottimo progressive metal con delle buone trame di chitarra (e come potrebbe essere diversamente!) ed una sconvolgente voce della ex cantante dei Therion Martina Astner, che svolge egregiamente il compito affidatole. A chiudere il quadro ci sono due ottimi musicisti: Howard Davis (ex batterista dei Genitorturers e Die Krupps in tour) e Scott Hornick (poliedrico bassista dei Dim Mak con influenze jazz-fusion metal). Come accennato all’inizio, niente di originale od innovativo, ma lo considero come un ottimo ripasso per tutti gli amanti dei Therion più sinfonici et similia.

(Hammerheart Records - 2001)
Voto: 72

https://www.metal-archives.com/bands/Alas/

martedì 20 giugno 2023

Lars Fredrik Frøislie – Fire Fortellinger

#PER CHI AMA: Prog Rock
Cosa dire di fronte ad un album di questo genere, che vede schierato un talentuoso tastierista (Lars Fredrik Frøislie appunto, membro peraltro dei norvegesi Wobbler) e un noto bassista (Nikolai Hængsle dei BigBang), dimenarsi tra mille sfaccettature ed incursioni sonore intraprese da molteplici band in tutto il mondo, in decenni di musica progressiva? Ci si può lamentare forse che i nostri non abbiamo certamente camminato fuori dalle strade maestre, ma che il raccolto finale sia un'apoteosi di suoni e colori che rincarano la dose di chi li ha preceduti nel tempo, quello si. Il duo norvegese crea una musica per un mondo prog moderato, che non ecccede mai nello spingere il pedale dell'acceleratore. Nonostante questo, 'Fire Fortellinger', vista la sua forma retrò e la sua profondità di ricerca, potrebbe configurarsi come un disco maestro, con i suoi richiami alla PFM o ai Van Der Graaf Generator, cosa non cosi semplice da realizzare, ma le cui influenze sono evidenti in molteplici parti del disco. Anche  inventare nuovi orizzonti su atmosfere care a certe trovate dei The Moody Blues o affini al classicismo dei Renaissance, è da veri outsider e cultori, conoscitori ed estimatori di una musica che troppe volte è stata inserita in una collocazione elitaria, dimenticandone il vero senso e il benefico e liberatorio flusso di idee per cui è nata, sopravvissuta e per questo, evoluta nel tempo. Per questo, Lars Fredrik Frøislie accompagnato dal fido Nikolai si aprono alla fantasia per dare vita ad un loro personale omaggio al rock progressivo di matrice vintage, con un lungo album di 45 minuti circa per sole quattro tracce, di cui due peraltro superano i 16 minuti, in cui i due musicisti si mantengono ancorati alla tradizione, per cui potrei peraltro aggiungere che nessun amante di questa forma di rock rimarrà deluso dalle loro composizioni. Certo, non parliamo dei Transatlantic o della Neal Morse band, tutto troppo moderno e pomposo per le orecchie dei nostri due musicisti norvegesi, che aggrappati ad un mutevole numero di tastiere di ogni tipo, si costruiscono un mondo di eterea bellezza sonora, tutta da assaporare, dotato di una forte attitudine psichedelica, e portatore di virtuosismi strumentali sparsi un po' ovunque e una certa propensione per il fiabesco. Cantato in lingua madre, e quasi sempre in una forma narrante storie fantasy o leggende riguardanti il Ragnarok, 'Fire Fortellinger' scivola via alla grande facendosi apprezzare non poco, anche per questo suo aspetto sognante. Suonato e prodotto con ottimi risultati, il disco propone suoni vintage curati e ricercati, con atmosfere che possono stabilire un reale contatto con alcune parti del capolavoro 'The Six Wives of Henry VIII', opera di Rick Wackeman del 1973. Per chiudere, continuo a pensare che la Karisma Records abbia un cappello magico da cui far uscire le sue creature fantastiche in modo così prolifico, in quest'epoca moderna in cui viviamo, così poco fantasiosa e artistica. (Bob Stoner)

domenica 11 giugno 2023

Klidas - No Harmony

#PER CHI AMA: Progressive Jazz Rock
Una band italiana alla corte della Bird's Robe Records? Da non crederci. Eppure i marchigiani Klidas (parola ceca che sta per gigante di silenzio) ci sono riusciti ed eccoli quindi approdare alla label australiana con questo 'No Harmony', album che combina un rock sperimentale con stilettate progressive e fughe jazz, il tutto inebriato da fragranze avanguardistiche. Questo almeno si evince dalle note iniziali di "Shores", un pezzo di un certo spessore strumentale che mi fa storcere il naso per la sola mancanza di un vocalist che avrebbe deliziato i palati dei più pretenziosi,  incluso il sottoscritto. E poco importa se musicalmente il sestetto nostrano ci diletta con splendidi tunnel sonori dove sax, chitarre, synth e percussioni sembrano avvolgerci in un delicato abbraccio, qui avrei desiderato una voce a solleticare i miei sensi e a rimpinguare quelle sonorità oniriche che si palesano sul finire del pezzo. "Shine" giunge però in mio aiuto con la comparsa finalmente di un vocalist, mentre la musica continua su sonorità similari alla traccia d'apertura, evidenziando peraltro qualche similitudine con gli In Tormentata Quiete più sperimentali e progressivi. Ai nostri piace comunque dare largo spazio alla strumentalità, spesso raffinata, che si concede anche il lusso di qualche porzione atmosferica che fa da contraltare a momenti più tosti, in cui la pesantezza delle chitarre, forse in taluni casi troppo caotiche, viene stemperata dall'azione del sax. Si prosegue con "Not to Dissect", e un incipit ubriacante che mostra come ingredienti di base ancora jazz e rock, con quest'ultimo a continuare in quell'opera di tirarci schiaffoni ben assestati in pieno volto, peraltro sempre ben assistito da un sax dai tratti invasati. "Arrival" sembra essere la quiete prima della tempesta: un percussionismo garbato che lentamente prova ad accelerare i ritmi, senza mai prendere realmente il volo, anzi declinato verso atmosfere più rarefatte laddove le vocals s'infiltrato nella matrice musicale. Poi largo spazio ai virtuosismi, agli assoli di sax, al manifestarsi di una spoken word di una gentil donzella giapponese che parla di un percorso d'ascensione ad una dimensione superiore. Questo almeno quello che mi ha decifrato il buon vecchio e utilissimo google translator. Con "Circular", si pesta duro sull'acceleratore grazie ad un caleidoscopico jazz rock che per certi versi mi ha evocato i The Mars Volta, ma i nostri sono abili musicisti, in grado quindi di alterare con una certa disinvoltura il flusso sonoro, spezzettandolo ora con break atmosferici o con accelerazioni progressive e ancora con dirompenti scariche elettriche. A chiudere l'opera arriva la psichedelica "The Trees are in Misery", con i suoi caustici giri di chitarra, repentini cambi di tempo, un ottimo lavoro alle tastiere e molto molto altro, per cui vi lascio il compito di esplorarne ulteriori contenuti. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 74

https://klidas.bandcamp.com/album/no-harmony

mercoledì 7 giugno 2023

Lumsk – Fremmende Toner

#PER CHI AMA: Folk Prog Rock
I Lumsk sono una band norvegese che ha sempre volato sopra le aspettative dell'ascoltatore comune, emancipando e schivando in maniera originale, la pura etichetta del genere folk metal, mischiando musica tradizionale con strumenti classici, avanguardia e progressive rock con l'inflazionata commistione tra musica folk ed oscuro metal estremo. La grazia che caratterizzava il precedente 'Det Vilde Kor', rimane un punto fermo in comune con il nuovo 'Fremmende Toner', oltre al fatto che entrambi sono stati concepiti per musicare opere di poesia. Il primo su scritti di Knut Hamsun, mentre il nuovo, si basa sulla raccolta di poesie di autori vari, tra cui Nietzsche, Goethe, Swinburne, tradotte da Andrè Bjerke. Nel nuovo disco, l'intimismo di 'Det Vilde Kor' si fonde con alcune delle strutture del loro album 'Troll' del 2005 (penso ad "Avskjed"), e possiamo anche dire che, se da una parte la band abbandona il duro stampo metal, dall'altra si protrae a mani tese verso un rock progressivo magistrale, mai troppo eccessivo e ben integrato in un folk di incantevole fattura. Folk di matrice scandinava o di influenza celtica, poco importa, visto il labile confine musicale qui manifestato, e posso scommettere che di fronte a questo nuovo gioiellino dei Lumsk, gli ascoltatori più accorti faranno poca fatica ad apprezzarne le sfumature, e coloro che hanno amato a suo tempo il capolavoro 'Barndomens Stigar' dei Kultivator oppure il grande Alan Stivell, magari quello progressivo di 'Before Landing', quanto i The 3rd and the Mortal di 'Memoirs' o 'Fools Give Birth to Angels' delle Pooka, con guizzi di luce alla Comus e quel tanto di malinconia pacata, presa in prestito dagli ultimi lavori degli Anathema ("Das Tote Kind"), adoreranno scoprire la vasta platea sonora su cui poggiano le basi di questo disco. Mari Klingen ha una voce fatata (ascoltatela poderosa in "Fiolen") e come nuova entrata nella band, riesce a stupire in ogni pezzo, per carisma, colore ed estensione vocale, mentre la nuova chitarra di Roar Grindheim dona calore alle sculture soniche progressive, a volte sfiorando anche lidi al limite del pop sognante ed incantato, con una delicatezza e una sofisticata capacità compositiva che stupirà i fans della prima ora. Armonioso ed arioso, si può anche notare una lieve familiarità con il sound romantico ed epico dei Meatloaf, nel duetto tra Klinghen e Mathias R. Samuelsen, autore ed editore e qui in veste di cantante, dal tono solenne e molto teatrale. Il disco scivola in maniera fluida, anche se richiede più ascolti accurati per apprezzarne le doti nascoste ed anche qualche angolo sonoro più cupo e teso. Il disco è uscito per la Dark Essence Records, è ben prodotto e vanta una sonorità vicina alle più moderne release folk e a suo modo, è anche vicino alle geniali aperture di Neal Morse. Il disco è da vedere a due facce visto che, le prime sei canzoni sono tradotte dall'originale in lingua madre, mentre le altre sei non sono in norvegese ma fedeli alla lingua originale del paese di provenienza degli autori degli scritti, musicate tutte in maniera diversa nonostante il testo sia quello della stessa poesia. Per dirla con le parole dei Lumsk: "L’idea del concept non era solo fare la stessa canzone due volte, piuttosto di mettere le canzoni allo specchio l’un l’altra, in un certo senso, cercando di ricreare l’idea di una traduzione o nuova creazione..." Un concept a tutti gli effetti riuscito, pieno di pathos e di grande maturità artistica, che colloca i Lumsk in una coordinata astrale diversa e unica nel panorama internazionale del folk prog rock, una band che fonde perfettamente stili diversi in maniera originale, mantenendo intatto il sentimento che guida il folklore della musica tradizionale nordica e lo spirito indomito del rock progressivo senza mai perdere l'attitudine metal che li ha visti nascere. I fans di questo progetto non rimarranno delusi in alcun modo dopo l'ascolto di 'Fremmede Toner', e l'attesa di ben 16 anni dal loro ultimo lavoro sarà ben ripagata. Ascolto dovuto e necessario. (Bob Stoner)

(Dark Essence Records - 2023)
Voto: 88

https://lumsk.bandcamp.com/album/fremmede-toner

lunedì 5 giugno 2023

Seven Impale - Summit

#PER CHI AMA: Prog/Jazz Rock
Dopo sette anni tornano i Seven Impale, ensemble norvegese che conta tra le proprie fila, tra gli altri, il tastierista Håkon Vinje degli Enslaved. La band di Bergen, guidata da Stian Økland (uno che si è laureato alla Grieg Academy come cantante lirico), sforna questo 'Summit', un lavoro di sole quattro lunghissime tracce che ci mostrano la galassia multisensoriale dei nostri incredibili musicisti. Si parte dalle suggestioni jazz prog rock rumoristiche dell'iniziale "Hunter", song che oltre a stabilire l'altissimo livello della barra tecnico-compositiva del sestetto, mostra il grado di sperimentazione a cui dovremo sottoporci durante l'ascolto di questo complicatissimo lavoro, che di certo non vincerà il premio come album più semplice da ascoltare, ma che comunque mostra come sia ancora possibile trovare gente in grado di proporre musica, per quanto ostica, assai originale. E i nostri non si tirano certo indietro, proponendo un sound comunque robusto, sfumato dal sax impazzito di Benjamin Mekki Widerøe (Potmos Hetoimos), da tocchi di pianoforte e da una dose di insana follia che troverà il suo acme per intensità, in un finale sconcertante. La seconda "Hydra" sembra già più morbida, ma non lasciatevi confondere, vista l'abilità dei Seven Impale nel combinare cinematiche porzioni prog con il jazz, con tanto di voci spaziali, e divagazioni space rock che potrebbero evocare i Van Der Graaf Generator o i King Crimson, in una versione decisamente più al passo con i tempi. Ancora straordinaria è l'efficacia del sax nel ideare atmosfere non di questo mondo, cosi come pure la fuga solistica finale a rendere il tutto ancor più ubriacante. Ecco arrivare poi "Ikaros", e i nostri cambiano ancora le carte in tavola con un sound più vicino all'hard rock scuola Motorpsycho, per una cavalcata roboante che vedrà poi una serie di fughe jazzistiche prender forma nel corso dei suoi nove minuti e mezzo, con la voce del frontman sempre magnetica e carismatica a districarsi tra suoni che diverranno via via più cupi e psichedelici. In chiusura "Sisyphus", un pezzo che probabilmente vede convergere tutte le intricatissime idee degli scandinavi verso mondi lontani. Eleganti ma stravaganti vocalizzi, turbolenze sonore, giochi ipnotici delle tastiere, atmosfere epiche e soffuse, vorticosi sbandamenti jazz e dirompenti ritmiche ne fanno la traccia più stralunata e complessa del lotto, che sottolinea alla fine, quanto sia reale la follia che permea questo esuberante ed elaborato 'Summit', un album come minimo da ascoltare, per non dire da comprare a scatola chiusa. (Francesco Scarci)

(Karisma Records - 2023)
Voto: 80

https://sevenimpale.bandcamp.com/album/summit

mercoledì 24 maggio 2023

The Tangent - Not as Good as the Book

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Rock
Se pensate che il progressive rock stia al totalitarismo neo-prog dei Tangent più o meno come l'internazionale socialista ai ventisei tagli da uomo autorizzati dal regime di Kim Jong-Un, allora potete pensare di avvalorare la vostra tesi esplorando il più prolisso e sfrontato tra tutti gli album prolissi e sfrontati del collettivo in questione. Nelle segrete di questo quarto (doppio) disco troverete di tutto: piano-jazz, Canterbury, i Porcupine Tree, il negazionismo neo-prog (Pink Floyd chi?), il flauto di Ian Anderson, la truzzaggine di E-L-P, il van-der-sax di Theo Travis, il capitano Kirk, i Toto e tutti gli accordi reperibili nei manuali di musica. Tutto questo, diluito in una sorta di stream-of-consciousness sonoro per definire il quale, l'aggettivo torrenziale sarebbe meno adatto dell'aggettivo oceanografico. Cose tipo una Carouselambra zeppeliniana eseguita dai Mike and the Mechanics nella plancia dell'Enterprise (l'incipit di "A Crisis in Midlife" per esempio), per intenderci. L'edizione deluxe di questo album, di cui vi prego di rileggervi il titolo (involontariamente?) iperrealista, contiene una pregevole graphic-novel di 100 pagine che narra la distruzione della Terra da parte di una razza di ferocissimi alieni al suono di "Relayer" degli Yes. Esattamente. (Alberto Calorosi)

(Inside Out Music - 2008)
Voto: 60

https://www.thetangent.org/

mercoledì 10 maggio 2023

Major Parkinson - Valesa – Chapter I: Velvet Prison

#PER CHI AMA: Pop Rock
Non è stato per nulla semplice recensire questo monolitico lavoro dei norvegesi Major Parkinson, non tanto per la lunghezza dell'opera a dire il vero, ma per i suoi contenuti. La band era portavoce di un certo progressive rock, almeno nelle vecchie release; in questo 'Valesa – Chapter I: Velvet Prison ' mi sembra che le sonorità si siano ulteriormente ammorbidite, mettendo in scena una proposta che puzza piuttosto di pop (in taluni frangenti rock) assai commerciale. Ecco, un qualcosa che avrei voluto recensire, a dirvi in tutta franchezza, viste anche le 17 song che i nostri hanno buttato in questo lavoro, dico 17!! Che palle. E se le prime tracce sono un buon modo per avvicinarsi alla band e scoprirne le peculiarità, ad esempio un uso importante dei synth e di ambientazioni stile colonna sonora da commedia romantica ("Behind the Next Door", che peraltro mi sembra in una versione live, come tanti altri brani in questo disco, vedi la "springsteeniana" "Sadlands"), piuttosto che di un uso spropositato del pianoforte (la strumentale "Ride in the Whirlwind") che arriva a farmi sbadigliare, potrei citarvi un altro bel po' di pezzi per cui non posso dirmi un grande sostenitore della band scandinava. "Live Forever" sembra trascinarmi agli anni '80 con quel suo sound che chiama in causa ancora il Boss, che rimane tuttavia altra cosa. Come cigliegina sulla torta, i nostri ci piazzano poi una bella vocina di una dolce fanciulla e il gioco è fatto. O forse no, almeno non per il sottoscritto, che preferisce passare avanti e magari lasciarsi persuadere dal criptico gospel di "Jonah", forse la song che ha toccato maggiormente le mie corde. Altri pezzi da segnalare? La noiosissima (almeno nella prima metà) "Irina Margareta", che fortunatamente si ripiglierà nella seconda parte. La sintetica e stralunata, almeno per i canoni di questo disco, "The House". Forse la punkeggiante "MOMA", ma anche questa alla fine non mi convince granchè. Non so poi se "The Room" volutamente faccia il verso a "Time After Time" di Cindy Lauper, cosi come pure a Madonna, ai Queen (nel synth iniziale di "Fantasia Me Now!") o altri mille artisti degli anni '80, ma per me è ormai già troppo da digerire. I Major Parkinson rimangono sicuramente ottimi musicisti con una vera e propria orchestra di violini, violoncelli, arpe, tenori, soprani, trombe al seguito, che tuttavia poco, anzi per niente, si sposano con i miei gusti musicali. Mi spiace, ma per me è un no grande quanto una casa, almeno sulle pagine del Pozzo dei Dannati. (Francesco Scarci)

venerdì 5 maggio 2023

Mushroom Giant - In a Forest

#PER CHI AMA: Post Rock
Li avevo recensiti due anni fa in occasione del decennale dell'etichetta Bird's Robe Records, con l'album 'Painted Mantra', uscito originariamente nel 2014. Li ritrovo oggi con un album nuovo di zecca, 'In a Forest', ed un sound che non si discosta poi di molto da quella che è l'architettura post rock di fondo degli australiani Mushroom Giant. Il "Fungo Gigante" ci offre sette nuove tracce, che si rivelano introspettive nel loro incedere sin dall'iniziale "Owls", che richiama inequivocabilmente in causa i due gufi ritratti in copertina. I suoni dicevo, sono alquanto introversi, ma ci stanno se l'intento è quello di narrare di una foresta e dei suoi misteriosi abitanti. La band di Melbourne è sapiente nel miscelare post rock con una buona dose di dark, progressive e suoni cinematici vari, per quello che è il marchio di fabbrica del quartetto australiano. Poi, chi li conosce, sa perfettamente cosa aspettarsi dall'ascolto di questo nuovo capitolo: le atmosfere spettrali che si respirano nella seconda metà della prima traccia sono un esempio delle caratteristiche dei nostri ma non solo. Io li ricordo anche come abili costruttori di break di pink floydiana memoria e a tal proposito mi viene in soccorso la settantiana e nebulosa "And the Earthly Remains". "Vestige" è caratterizzata da una stratificazione di chitarre che esibisce la tecnica-compositiva dell'ensemble, che necessiterebbe tuttavia di un bravo vocalist per dare una narrazione a quello che la band allestisce in sede musicale, e per tirarci fuori dalle sabbie mobili di un genere, a volte, troppo spesso ingessato nei suoi rigidi paradigmi. "Earthrise", song da cui è stato peraltro estratto un video, parte lenta e malinconica, ma sarà in grado di aumentare i giri del motore grazie a una splendida chitarra solista che si sovrappone a una ritmica più ordinaria. "Aire River Rapids" sembra prendere le distanze dal post rock dei primi pezzi, risultando decisamente la più pesante delle tracce, complice un robustissimo riff e un drumming bello potente. Ah, una voce un po' urlata, come avrebbe fatto comodo nelle insenature di questo pezzo, e forse ancor di più nella successiva e sinistra "Mountain Ash" che sfodera un grande lavoro sia alla chitarra solista, e ancor di più a quella ritmica, che improvvisamente s'interrompe per cedere il passo a "And the Earthly Remains". "The Green Expanse" propone il secondo video di questo lavoro: un'apertura dai tratti ambient e poi i classici suoni dilatati del post rock, per una chiusura che ha il solo difetto di risultare un po' troppo scontata nei suoi contenuti, nonostante l'eccelso lavoro svolto a livello di suoni. Il fatto è che, attenendosi troppo agli standard del genere (e penso anche al tremolo picking proposto qui), il rischio è quello di sapere già cosa ci sarà ad aspettarci nell'evoluzione di un brano, e per questo opterei, anche a piccolissime dosi, all'inserimento di una voce o anche di un parlato, che dia maggiore imprevedibilità ad un disco che ha il solo rischio, di risuonarvi nelle orecchie come già sentito. E sarebbe un peccato. (Francesco Scarci)

lunedì 1 maggio 2023

Stormhaven - Blindsight

#PER CHI AMA: Prog Death
Per i fedelissimi del Pozzo dei Dannati, il nome Stormhaven dovrebbe richiamare qualcosa nella vostra memoria. Recensii infatti nel 2019 il precedente lavoro della band francese, 'Liquid Imagery'. Il quartetto di Tolosa torna ora con questo nuovo 'Blindsight', una mazzata in pieno stomaco e una carezza in pieno volto, attraverso sei sole tracce (per oltre un'ora di musica). Il disco si apre con la dirompente "Fracture", e le sue fragorose ritmiche che chiamano in causa ancora una volta i vecchi Opeth in quelle cascate di riff e bordate alla batteria. Lo stesso dicasi del buon Zachary Nadal alla voce, bravo a districarsi tra un growling purulento e clean vocals che evocano anche qui il frontman degli svedesi, Mikael Åkerfeldt. Se ad una prima lettura, quello degli Stormhaven sembra più un "copia-incolla" degli Opeth, beh vorrei dirvi che la struttura dei brani, i cambi di tempo, la tecnica sopraffina, gli assoli, le parti acustiche, le trovate geniali, i cori e molto altro, sparigliano invece le carte, mettendoci in mano un lavoro solidissimo e assai figo. Questo per dire, che alla fine non me ne frega un cazzo se i nostri possono ammiccare più e più volte a quelli che per me un tempo (prima della famigerata sterzata stilistica) erano i maestri del prog death, quanto contenuto in 'Blindsight' infatti sembra raccogliere definitivamente il testimone dai master scandinavi, aggiungerci un tocco dei Ne Obliviscaris, a cui poi aggiungere una buona dose di personalità. Certo, al pari dei colleghi più famosi, anche in questo album troveremo lunghe partiture dissonanti di chitarra (quasi un tributo a 'My Arms, Your Hearse') come potreste ascoltare per lunghi tratti nella più sghemba "Vision", ma poi i nostri sembrano raccappezzarsi in lunghi e splendidi assoli melodici (scuola classic metal) e ottimi cori che rendono il tutto più fruibile anche in quegli spaventosi attacchi al fulmicotone; si ascolti il finale della stessa "Vision" per credere. Più lineare e ritmata "Shadow Walker", che per almeno i primi 120 secondi sembra rispettare i paradigmi del genere, per poi prendere la tangente e dar sfogo alla propria visione di death progressivo che noi non possiamo far altro che apprezzare, ascoltandolo in rigoroso silenzio, fino al nuovo inebriante assolo da urlo che chiude il brano (ma che lavoro stratosferico è stato fatto qui alle sei corde?). In successione arrivano poi "Hellion" e "Salvation", per altri 17 minuti di sonorità in cui gli Stormhaven si muovono in bilico tra prog, death, suoni sperimentali, classic rock, parti acustiche, e che vedono la band dare il meglio di sè, per un'esibizione davvero coinvolgente e avvolgente. Rimane ancora il classico mostro finale da affrontare, ossia gli oltre 24 interminabili minuti di "Dominion", ma chi glielo ha fatto fare a mettere in piedi un tessuto cosi complesso, mi domando? Comunque mi dò in pasto all'ultimo brano (ora capite anche perchè il disco dura 64 minuti), che sin dall'apertura si dimostra ubriacante a livello ritmico con cambi ritmici vertiginosi, sorretti da uno splendida, quanto inatteso, arpeggio di chitarra, mentre un saliscendi chitarristico ci porta diretti sulle montagne russe, con il vocalist che peraltro assume qui contorni più blackish, e i synth sembrano dare un taglio più sinfonico al tutto. Ma il brano è in continua evoluzione, dal black al prog death, a raffinate sonorità più dark rock oriented. Insomma, la tipica ciliegina sulla torta, che porta con sè nuovi suoni, nuove idee, granitici muri sonori, break atmosferici, un'alternanza vocale da paura e molto molto altro, segno dell'enorme maturità tecnico-compositiva raggiunta da questi straordinari musicisti francesi, di cui l'invito a dargli una chance, è ben qualcosa di più che un semplice consiglio. (Francesco Scarci)

Atsuko Chiba - Water, It Feels Like It's Growing

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Con un moniker fantastico, mi avvicino con una certa curiosità agli Atsuko Chiba, band originaria del Canada il cui nome sembra derivare dal protagonista di un anime giapponese. ‘Water, It Feels Like It's Growing’ è il loro terzo lavoro che ci delizia con un post rock ritualistico, sperimentale e riflessivo. Almeno questo è quanto testimoniato nella splendida traccia d’apertura, “Sunbath”, che si muove tra atmosfere ipnotiche guidate da un eccellente lavoro di basso e chitarre e dalla gentile ugola del frontman. Echi di Tool, Lingua e A Perfect Circle si coniugano in questo primo splendido pezzo che ci accompagna a “So Much For”, song alquanto imprevedibile per quel che concerne una musicalità in bilico tra prog rock, alternative, math e suoni sperimentali che sembrano scomodare addirittura i The Mars Volta, mentre la voce sembra aver perso qui quella morbidezza che avevo apprezzato nell’opener, per una versione più in linea con la band australiana e anche con Mike Patton. La traccia, per quanto dotata di una certa dose di originalità, devo ammettere non mi faccia del tutto impazzire. Molto meglio la successiva “Shook (I’m Often)”, più dotati di ritmi compassati e di una buona base melodica su cui poggia la meritevole voce del cantante canadese che si conferma ad altissimi livelli anche nella successiva “Seeds”, meravigliosa, con quei suoi ritmi pulsanti e synth che donano al pezzo un certo spessore, complice peraltro l’utilizzo di violino e violoncello nel break centrale del brano. Quando gli Atsuko Chiba provano a uscire dagli schemi per voler strafare, perdono un po’ della loro magia, leggasi la prova di “Link”, un pezzo che risente di una certa vena post punk sperimentale che tuttavia non riesce a sfondare, complice ancora una volta un utilizzo più alternativo e meno suadente del cantato che sembra snaturare il sound dei nostri. In chiusura, ecco la title track, un connubio tra psych blues post rock dalla verve pink floydiana che ci lascia con uno splendido assolo che sottolinea, ancora una volta, la classe e l’eleganza che permea questi straordinari musicisti. (Francesco Scarci)

(Mothland – 2023)
Voto: 75