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martedì 28 novembre 2023

Turangalila - Lazarus Taxa

#PER CHI AMA: Psych/Post Metal
Li avevo recensiti un paio di anni fa con quel sorprendente 'Cargo Cult', che delineava una band in preda a psichedelici slanci math/post rock. Li ritrovo oggi con un nuovo lavoro, 'Lazarus Taxa', e una maturità artistica rinnovata che sottolinea l'eccellente stato di forma della band barese. Dieci nuove tracce quindi per assaporare ancora quell'irrequietezza di fondo che permea il sound del quartetto pugliese, che si materializza immediatamente con le soffuse ma granitiche melodie shoegaze dell'introduttiva "Wow! Signal", un pezzo che in un qualche modo, sembra evocare quel post metal che avevo descritto nell'ultima "Die Anderen" del precedente album. Un pezzo timido che lascerà ben presto il posto a "Neopsy" e a una ritmica potente ma forte di una linea melodica più dinamica e coinvolgente, che si muove comunque in un'alternanza tra sonorità più fluide e altre più oblique che giocano, non poco, a disorientare l'ascoltatore. Effetto quanto mai recepito durante il mio personale ascolto di questa song, cosi incisiva e ipnotica, e convincente soprattutto a livello vocale. Soffice invece l'approccio offerto in apertura della spettrale "Ugo", dove un senso onirico perdura fino a quando i nostri non decidono di aumentare il numero dei giri, in una strategia musicale che vede una successione ritmica tra atmosfere più pacate e altre più movimentate, dove peraltro a palesarsi, c'è anche una sezione d'archi. Suggestiva non c'è che dire, anche nella porzione più rabbiosa nel finale che ci introduce alla più nevrotica "P38", traccia che si muove tra ritmiche sincopate e vocals eteree, altro effetto che potrebbe essere confondente a chi approccia la band per la prima volta. Ma questo è ciò che vogliono trasmettere i Turangalila, ne sono certo: in "Antonio, Ragazzo Delfino" la band ci scuote con una ritmica di tooliana memoria, anche se ad un certo punto (verso il terzo minuto), il sound diviene più lisergico nelle sue deliranti e ossessive linee di chitarra. Ancora tanta sofficità nelle note sognanti della title track, almeno fino a metà brano, quanto farà capolino l'asprezza delle chitarre che per 50 secondi ringhiano come lupi inferociti, ma che successivamente ci accompagneranno in incorporee atmosfere ultra sensoriali. "Reverie" è una schiva (e stranita) strumentale traccia arpeggiata che tuttavia sembra cullarci in modo psicotico, prima di un'altra breve song, "A Pilot With No Eyes", che sembra lontanamente odorare di un che dei Neurosis più sognanti. Lo sludge più torbido e melmoso di questi ultimi si fa più evidente nelle note di "To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye", costituita da atmosfere dense e dilatate al tempo stesso, esplosioni convulsive e spasmodiche e rallentamenti angoscianti, che la innalzano quale brano più strutturato del lotto e anche mio preferito, e dove, i vocalizzi del frontman abbandonano la componente shoegaze per abbracciare quella più pulita e profonda del buon Scott Kelly. A chiudere ci pensa un ultimo buffetto sul viso, ossia le delicate note strumentali (con tanto di malinconico sax) di "Jisei" che fissa nuovi ed elevati standard artistici per i Turangalila. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2023)
Voto: 78

https://turangalila.bandcamp.com/album/lazarus-taxa

domenica 15 maggio 2022

Barús - Fanges

#PER CHI AMA: Prog Death/Sludge
Ricordo di aver positivamente recensito i Barús in occasione del loro EP omonimo nel 2016, bollandoli come una versione più violenta dei Meshuggah. La band che ritrovo oggi mostra un rinnovato spirito che probabilmente è passato attraverso il claustrofobico esordio su lunga distanza rappresentato da 'Drowned' e che arriva oggi a questo nuovo e particolare EP di due pezzi intitolato 'Fanges', che mi restituisce, come dicevo, una band assai diversa rispetto al passato. Si perchè la title track che apre il disco, nei suoi 19 minuti, mostra un piglio decisamente compassato (in alcuni frangenti addirittura ambient) per quasi nove giri d'orologio, con un incedere ipnotico che trova sfogo in un post death metal a tratti sghembo e questo rappresenta un po' il punto di forza del quartetto originario di Grenoble. Le vocals si muovono poi tra equilibrismi death e altri più puliti, mentre le melodie oscillano tra ammiccamenti ai The Oceans e ingarbugliamenti catramosi che evocano Ulcerate e gli stessi Meshuggah d'inizio recensione. Il brano si arresta un paio di minuti prima dell'epilogo, lasciando spazio ad una parte acustica di cui francamente non ho ben capito la funzione, ma andiamo avanti e facciamoci investire da "Châssis De Chair", un pezzo decisamente più old style, essendosi affidato a sonorità più death oriented. Ma i nostri oggi amano contaminare il proprio sound con suoni più atmosferici, sludgy, riflessivi, storti e distorti, senza tralasciare il fattore imprevedibilità, tutte caratteristiche che eruttano nel corso del quarto d'ora affidato alla seconda song. I riffoni, di scuola polifonica, rimbombano nelle nostre casse con un'intensità ed una violenza davvero poco rassicuranti. I riff si confermano, anche nei momenti più ragionati, tortuosi dall'inizio alla fine della bagarre e vanno ad accompagnare le oscure growling vocals di Mr K. Insomma tanta carne al fuoco per sole due song a disposizione credo possa essere presagio di grandi cambiamenti in casa Barús. Staremo a sentire cosa ci riserva il futuro con maggiore curiosità. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2021)
Voto: 75

https://barus.bandcamp.com/album/fanges-ep

venerdì 1 maggio 2020

Wows - Ver Sacrum

#PER CHI AMA: Post Metal/Black, Altar of Plagues, Amenra
La Primavera Sacra (Ver Sacrum in latino) era una pratica rituale di origine antica, che consisteva nell'offrire negli anni di carestia, come una sorta di sacrificio, tutti i primogeniti nati dal 1º marzo al 1º giugno; l'immolazione non era però reale, in quanto i bambini crescevano come sacrati, per emigrare in età adulta a fondare nuove comunità altrove. Ora, questa Primavera Sacra è stata traslata per identificare il periodo di uscita di questo nuovo capitolo degli italici Wows, affidando una sorta di sacralità all'evento (questa la mia libera interpretazione), dato che abbiamo atteso quasi cinque anni per ascoltare la terza fatica dei nostri. E non ne vedevo l'ora. Cinque pezzi quindi per tastare il polso ai sei musicisti veronesi, anche se "Elysium" è una malinconica intro pianistica sul cui sfondo si aggira una spettrale e appena percettibile voce femminile. "Mythras" divampa poi spaventosamente nelle mie casse, con una ritmica al vetriolo, schiaffi sui piatti, una voce che arriva direttamente dall'oltretomba e una minacciosa crescita musicale che mi rievoca immediatamente uno dei brani che più ho amato degli Altar of Plagues, "God Alone". Date un ascolto attento alla song e godete con me nel sentire come gli insegnamenti dell'ensemble irlandese siano stati presi in dote dalla band e riadattati, resi forse anche più claustrofobici nell'evoluzione angosciante di una traccia che rischia di divenire alfiere di una nuova ondata post-black. Si perchè, parliamoci chiaro, l'evoluzione dei nostri iniziata già ai tempi di 'Aion' non si è affatto conclusa ma prosegue nel suo dilaniante disagio interiore, esteriorizzato dai suoni malefici e angusti di questo 'Ver Sacrum' che pone la band di fronte ad un nuovo bivio futuro, di cui vorrei conoscerne già la risposta. Tornando alla track, questa si muove in bilico tra un sound melmoso e un più furente e apocalittico post-black, figlio di questo maledettissimo periodo che stiamo vivendo. È gioia estatica la mia nel farmi inglobare dall'insana musicalità della compagine nostrana e quale orgoglio nel sentire che simili suoni escano da una band italiana piuttosto che dalle solite realtà americane o svedesi. Che abilità poi nel passare tra lo sludge, il black, l'hardcore e poi concludere con un funeral dalle tinte morbosamente ossessive. "Vacuum", la terza traccia, è tutt'altra cosa con un incipit shoegaze, fatto di impalpabili e decadenti melodie di chitarra e nostalgiche clean vocals che riversano il proprio straziante malessere su quei minimalistici tocchi di chitarra. Poesia allo stato puro, che non preannuncia nulla di buono, visto che sul finire del pezzo, la realtà sembra distorcersi e sembra volerci annunciare di prepararci ad affrontare una distorta forma di realtà. E cosi sia. "Lux Æterna" parte da lontano, con quanto rimane dal precedente album, ossia un minimalistico pizzicare di corde di chitarra e la voce del buon Paolo Bertaiola a declamare pochi versi (ci sento un po' di scuola Amenra in questo frangente). Un ipnotico riff di chitarra inizia a salire nel frattempo, affiancando il più muscoloso riffing portante, mentre una terza chitarra sembra addirittura lanciarsi in un tremolo picking dal forte effetto disturbante. Un forte senso di angoscia sale man mano che le chitarre nel loro marziale incedere, vedono la voce del frontman urlare straziata. La song rimane però bloccata nelle sabbie mobili di un tortuoso e ossessionante giro di chitarra, francamente avrei osato di più in questo frangente, considerata la sua rilevante durata di oltre 13 minuti, un peccato perchè la song sembra castrata e depotenziata nei dettami di un genere che necessita di nuove intuizioni. E arriviamo, senza nemmeno rendercene conto, alla conclusiva "Resurrecturis", non sembra, ma trentadue minuti di sonorità oscure sono già scivolati e quanto ci rimane, sono gli undici rimanenti dell'ultima traccia. L'inizio è un ambient dronico che funge da apripista ad un sound che persiste nel parcheggiarsi dalle parti di un post-sludge lisergico ove riappaiono i fantasmi dei Neurosis ma pure dei Tool. La voce di Paolo si conferma su tonalità pulite ed acute, ma sempre dotate di un profondo senso di sofferenza, mentre il saliscendi ritmico alla fine è da mal di testa e per questo varrebbe la pena sottolineare la performance dietro alle pelli di un magistrale Fabio Orlandi soprattutto nel roboante finale affidato ad un feroce climax ascendente. Per concludere, non posso che enfatizzare ottima la performance in toto della band italica, sebbene in tutta franchezza, avrei garantito più minutaggio alla componente post-black dell'iniziale "Mythras", vero gioello del disco. Aggiungerei poi i complimenti al duo Enrico Baraldi e Luca Tacconi dietro al mixer presso gli Studi Sotto il Mare dove la band ha registrato e ultima menzione per il lavoro sempre di prim'ordine, di Paolo Girardi per l'ennesima spettacolare cover artwork del disco. Che altro volete di più, devo forse intimarvi di far vostra questa spaventosa creatura che risponde al nome di 'Ver Sacrum'? Ora vi prego, non fateci attendere un altro lustro per avere nuove notizie della band, si sa dopo tutto che la fame vien mangiando e io ho già appetito per un'altra release targata Wows. (Francesco Scarci)

(Dio Drone/Coypu Records/Hellbones Records/Shove Records - 2020)
Voto: 81

https://thewows.bandcamp.com/album/ver-sacrum

venerdì 8 giugno 2018

The Canyon Observer - Nøll

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge/Doom
Tornano gli sloveni The Canyon Observer con un album nuovo di zecca, edito sempre dalla Kapa Records, in collaborazione questa volta con la francese Vox Project. Le coordinate stilistiche del quintetto rimangono fedeli alle origini, un post metal miscelato con sludge e doom, ove le ultime due componenti sono maggiormente enfatizzate e dove il tutto è infarcito di qualche altra trovata, anche di sapore elettronico. "Mirrors", l'opening track è un pezzo che suona più come una lunga intro piuttosto che un brano vero e proprio, sebbene trapeli evidentemente lo stile muscolare dei nostri. La faccenda s'ingrossa con la title track, "Nøll", 150 secondi di sonorità immonde fatte di un drammatico e putrescente sludge, corroborato da un cantato selvaggio. Un bel basso apre "Entities", a cui si accodano chitarre e batteria, in una progressione sonora che si preannuncia ipnotica ed edificante. Una montagna invalicabile creata da una stratificazione ritmica paurosa su cui poggia il cantato di Matic Babič e delle urla disumane collocate in sottofondo (opera probabilmente delle due asce) che evolve in un caos sonoro caustico e delirante. "Lacerations" ha invece un approccio più votato al crust/post-hardcore, con cambi di tempo vertiginosi che sanciscono il quasi definitivo allontamento dalle sonorità che caratterizzavano questi musicisti agli esordi. Tuttavia, nella seconda metà del brano, la band ritorna sui binari della civiltà, offrendo il proprio lato più intimista e meno veemente, che va lentamente rallentando fino all'arrivo di "Abstract", una delle due canzoni più lunghe del lavoro, insieme a "Circulation". Due brani che superano ampiamente gli otto minuti, più sperimentale il primo, con le sue lunghe fughe strumentali figlie di un post rock progressivo di settantiana memoria che si alternano ad un sound più abrasivo che arriva a sfiorare addirittura il black metal. Il secondo invece ha un lungo incipit dal sapore ambient/dronico che a metà brano si lancia in una trance psichedelica. Nel frattempo ci siamo persi per strada la furia rumoristica della scheggia impazzita "Fracture", un po' grind, un po' mathcore ma anche decisamente noisy. L'ultima traccia a mancare nella rassegna è "Neon Ooze", un altro pezzo lanciato da linee di basso tonante suonate però a rallentatore, grida lancinanti e altri elementi disturbanti che hanno il solo effetto di condurci nel nuovo incubo firmato The Canyon Observer. (Francesco Scarci)

(Kapa Records/Vox Project - 2018)
Voto: 75

https://kaparecords.bandcamp.com/album/n-ll

giovedì 21 settembre 2017

Deliverance - Chrst

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gira e rigira il mondo, ma sempre in Francia dobbiamo ritornare, nemmeno fosse il polo magnetico del metallo estremo. Ecco quindi i Deliverance e il loro 'Chrst', un concentrato maligno di black metal e le atmosfere melmose tipiche dello sludge. La opener "Hung Be the Heavens With Black" conferma immediatamente quanto stia qui dicendo e la pasta indigesta di cui è fatto questo quartetto parigino: i vocalizzi arcigni del frontman si stagliano su ritmiche rallentate di scuola Neurosis, in un lento incedere che trova il suo sfogo rabbioso nella seconda metà del brano che sul finire tira però il freno, rallentando paurosamente la sua fuga. "Out of the Saddening Blank" è un pezzo di oltre 10 minuti che si perde in chiacchiere nei primi due minuti tra riffoni in salsa dronica e qualche rumorino di fondo. Poi quando finalmente i nostri innescano la marcia, la macchina feroce dei Deliverance sembra quasi ingolfata, mantenendo un sound assolutamente controllato che sembra tuttavia tramare nell'ombra una pericolosa accelerazione che tarda però ad arrivare, anzi ad un certo punto il suono si fa decisamente più fioco e tenebroso, con reminiscenze che ci portano anche ai Cult of Luna (non a caso dietro la consolle si siede Magnus Lindberg, ascia proprio dei gods svedesi). La proposta dei Deliverance però suona po' troppo statica per i miei gusti, sembra non voler osare nemmeno nella terza "The Discrucified", altro mid-tempo che si lancia in un attacco ferale solo per una manciata di secondi. La furia black esplode finalmente in "A Bone Shall Not Be Broken", scrollandosi di dosso tutta quella patina controllata post sludge della prima parte del disco. Dopo un paio di minuti, i nostri sfoggiano un rifferama che poteva tranquillamente stare su 'South of Heaven' degli Slayer, arricchito da uno secondo strato di chitarre che enfatizzano la carica atmosferica della song, che va incupendo e rallentando il proprio sound. E a proposito di atmosfere oscure, ecco arrivare "I Say: Chrst!", traccia nera come la pece, lenta e malata che mette in mostra la bravura dei nostri nel saper combinare con una certa facilità, due generi come il black e lo sludge, senza risultare mai scontata. 'Chrst' non è comunque un album cosi immediato o facile da ascoltare anche se l'ultima "Across Gehenna" è forse la song più lineare del lotto sebbene s'increspi ancora una volta nel finale. Insomma, un album quasi incompiuto che mostra luci e ombre di una band ancora in rodaggio. (Francesco Scarci)

Voto: 65
(Deadlight Entertainment - 2017)

https://deadlight.bandcamp.com/album/chrst

mercoledì 3 maggio 2017

Combat Astronomy – Symmetry Through Collapse

#PER CHI AMA: Jazz-core/Industrial/Noise/Ambient
Ogni nuovo lavoro della creatura di James Huggett è guardato da queste parti con grande attenzione e, vale la pena dirlo subito, anche questa volta l’attesa è stata pienamente ripagata da un’esperienza d’ascolto davvero intensa e appagante. A due anni e mezzo da quell’oscuro capolavoro che era 'Time Distort Nine', i Combat Astronomy tornano a riproporre il loro impossibile mix tra industrial, sludge, doom e free jazz, alzando ancora di più la posta in gioco. Accanto ad Huggett (basso, diavolerie elettroniche varie e produzione), e sempre più Deus Ex Machina del progetto, troviamo nuovamente gli straordinari Martin Archer (sax e tastiere) e Peter Fairclough (batteria), occasionalmente supportati dalla chitarra di Nick Robinson e dal violino di Wesley Ian Booth; questa volta a prendersi gran parte della ribalta è però Dalila Kayros, una ragazza sarda che i più attenti avranno già incrociato come voce dei post metallers Syk e soprattutto in quel gioiello di sperimentazione vocale che era 'Nuhk', esordio in solitaria datato 2013. Per chi non la conoscesse, Dalila ha una voce straordinaria, con una timbrica che ricorda da vicino quella di Björk, e che con il folletto islandese condivide la passione per la ricerca e l’esplorazione delle possibilità vocali, anche se il suo approccio è decisamente più trasversale e vicino a quello di altri grandi sperimentatori come Diamanda Galas, Mike Patton, Yoko Ono o Demetrio Stratos. Sono quindi le sue corde vocali a marchiare a fuoco queste sei lunghe composizioni, come sempre inafferrabili nel loro muoversi su più piani, scivolando da uno all’altro in maniera repentina quanto inaspettatamente organica. Quello che colpisce lungo l’arco di questi 56 minuti è la netta sensazione che questa sia una musica urgente e necessaria, che non lascia mai l’impressione di essere studiata a tavolino, nonostante sia allo stesso tempo evidente il grande lavoro preparatorio a cui tutti i musicisti si sono sicuramente dovuti sottoporre, soprattutto pensando che, come al solito, le tracce sono state registrate separatamente dai vari musicisti a migliaia di chilometri di distanza l'uno dall'altro. E questo è vero tanto nei brani più aggressivi e abrasivi (le iniziali "Iroke" e "Bhakta") quanto in quelli più riflessivi e dilatati, dove la componente sperimentale si fa più presente e spinta (la title track, "Collapsed" e "Kyber") e dove sembra di essere al cospetto di una versione contemporanea di 'Starsailor' di Tim Buckley, sospesi tra percussioni tribali, derive free jazz e sovrapposizioni vocali che sembrano uscire dalla penna di György Sándor Ligeti. Creatura al solito multiforme e imprendibile, i Combat Astronomy hanno realizzato un nuovo, preziosissimo tassello che impreziosisce il mosaico della musica sperimentale meno prevedibile e non per forza accademica, anzi più che mai viva e pulsante. Ascolto obbligato. (Mauro Catena)

sabato 3 dicembre 2016

0N0 - Reconstruction and Synthesis

#PER CHI AMA: Black/Death Sperimentale, Deathspell Omega, Aevangelist
Ai vari Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Aevangelist, Portal e compagnia cantanti, aggiungerei un'altra stravagante creatura che arriva direttamente dalla Repubblica Slovacca. Il trio di oggi, gli 0N0, è infatti originario di Bratislava e nasce nel 2005, anche se una forma embrionale esiste già dal 1999. In questi anni, sono usciti diversi EP, l'album d'esordio 'Path' e questo nuovo capitolo, 'Reconstruction and Synthesis', a ben un lustro di distanza dal precedente. La proposta musicale di questi folli personaggi dovreste già averla inquadrata, trovandoci al cospetto di una band estrema che fa dello sperimentalismo angusto e schizofrenico il proprio credo, e che cita un po' tutte i gruppi riportati in apertura, a cui aggiungerei una discreta dose di doom e atmosfere stranianti e melmose, al limite di post metal e sludge. Questo è certificato dalla contorta ed iper-tecnologica dell'opener, "A Farewell to Conscious Shores", ma ancor di più dai passaggi soffocanti della lunga title track. Oltre dodici minuti di sonorità distorte, claustrofobiche, a tratti psichedeliche, con suggestivi sprazzi di post-rock, su cui si posizionano arcigne vocals, suscitando in questo modo un certo senso di spaesamento, proprio per una difficoltà concreta nell'identificare il genere d'appartenenza. Il risultato è sicuramente un sound alieno che ha il grande merito di alternare costantemente l'incedere deflagrante delle ritmiche, le partiture sghembe, i suoni dissonanti ad altri più eterei, ritualistici o addirittura del cyber spazio, finendo per ottenere un effetto opprimente, destabilizzante ma soprattutto esaltante. Potrete certamente intuire il mio status di godimento nell'udire simili sonorità, cosi fuori dagli schemi e quasi mai banali. Il disco si incanala in cunicoli ancor più tenebrosi e desolanti con "Desolatry", traccia pestilenziale che sembra affondare le proprie radici negli anfratti del funeral doom e dello sludge più malati, per un risultato che si preannuncia a dir poco delirante. Si prosegue con le atmosfere dilatate dell'imprevedibile "At Sixes and Sevens", song che mostra un lato ancor più ricercato dei nostri, con suoni tribali, linee di chitarra mutevoli e per l'utilizzo di vocalizzi non più volti ad un growl in salsa acida. I frammenti psicotici degli 0N0 provano ad emergere anche nella penultima "Lucid Transmutation", brano in grado di coniugare con lucidità death metal, doom, lunghi intermezzi ambient, schegge impazzite di black alla Deathspell Omega intinte però in contesti cyber-industriali, per un esito finale annichilente e completamente fuori dagli schemi, veri e propri complessi suoni dall'iperuranio. Il disco cala il sipario con "Reformation/Absorption", song che abbandona i vocalizzi estremi per lasciar posto a ritualistiche vocals e all'onirismo dilagante affidato ai synth di T. Straripanti. (Francesco Scarci)

(The House of What You See - 2016)
Voto: 80

domenica 17 luglio 2016

At the Graves - Cold and True

#PER CHI AMA: Post Rock/Metal, Solstafir, The Black Heart Rebellion, Neurosis
Inizierei col chiarire che la band del Maryland di oggi non va confusa con l'omonimo ensemble dedito ad un melo death ma proveniente dalla Pennsylvania. Ben Price, la mente, il factotum che si cela dietro agli At the Graves, suona infatti uno sludge/post rock contaminato assai accattivante, ricco in termini di groove e carico di una forte componente emotiva. 'Cold and True' è il secondo album (il primo in cui Ben si cimenta completamente da solo in tutti gli strumenti) dopo 'Solar' datato 2012; in mezzo e prima, una sfilza di ben cinque EP. Veniamo comunque a questo nuovo capitolo della discografia della one man band di Arnold, che ci viene introdotto dalla delicata vena melodica di "Viscous State" che sottolinea quelli che sono i capisaldi dell'At the Graves sound: sognanti atmosfere post rock che poggiano su di una ritmica post metal di scuola Cult of Luna in una versione più meditabonda, per un risultato in grado di stamparsi nella mia testa con una certa facilità, grazie a delle soffuse linee di chitarra che facilitano non poco l'approccio alla musica dell'artista statunitense. Con "Fulgor" le cose non cambiano e lo stile, ricercato, colpisce sicuramente per l'immediatezza della proposta, qui resa ancor più onirica e protesa a dare ampio respiro alla componente strumentale, con un'eleganza di fondo impostata dai delicati tocchi alla sei corde di Ben (peraltro vocalist caleidoscopico ed assai originale) e da un drumming fantasioso costantemente in primo piano. Il disco (o se preferite la cassetta, fate pure la vostra scelta) prosegue dilettandosi tra le lugubri, distorte e tribali melodie di "Between Two Thirds", che potreste immaginare come una danza sciamanicadi una tribù indiana attorno al fuoco, con i sensi che lentamente abbandonano la realtà. Il colpo di grazia viene inferto però dalla successiva "Repress I", che contribuisce, nonostante la sua brevità, a palesare le visioni lisergiche del bravo Ben. "Shimmer" continua nella sua opera di destrutturazione del sound degli At the Graves, con alcuni frangenti che strizzano l'occhiolino addirittura al grunge rock, pur mantenendo un'atmosfera decisamente noir che comunque, attraverso la mutevole voce di Ben, ha modo di spaziare all'interno di più generi, tutti caratterizzati da una profonda dose di emotività. La title track potrebbe essere assimilabile ad una versione più nera dei Neurosis, seppur mantenga i contorni delicati del post rock e incanti per la distorsione delle sue linee di basso, il suo essere ridondante e per le corde vocali di Ben, qui bagnate di whisky, che chiamano in causa gli islandesi Solstafir. Lentamente arriviamo alla conclusione di questo spettrale lavoro: "As a Dirt" ha il compito di trasmettere le ultime malinconiche note di dolore di 'Cold and True' e direi che assolve pienamente al suo compito. Un'altra band nel frattempo mi è venuta in mente mentre ascoltavo e riascoltavo questo disco: i belgi The Black Heart Rebellion nel loro capolavoro 'Har Nevo' e la definizione che inquadrava quell'album, blues apocalittico, che ben calzerebbe anche per gli At the Graves. Insomma, 'Cold and True' è un riuscitissimo lavoro di sperimentazione sonora in cui convogliano un sacco di influenze e idee stravaganti, per cui sarebbe davvero un peccato negare la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

mercoledì 13 gennaio 2016

Celestial Meisters - S/t

#PER CHI AMA: Post-core/Sludge, The Ocean, Old Man Gloom
La band dei Celestial Meisters, nella sua insolita veste di copertina osannante i poteri dei fumetti e cartoni manga, non si smentisce, usando addirittura la lingua giapponese per il cantato. Costituitisi nel 2012, provenienti da Wuppertal, i nostri presentano un post-core dall'umore molto nero con buone escursioni fuori genere, dai tratti psichedelici e filmici, con innesti di minimale elettronica e campionature, presumo, di provenienza manga, che intensificano l'aspetto debordante dei brani. La lingua giapponese è di sicuro effetto se accostata ad un cantato hardcore con cui si amalgama perfettamente, permettendomi di saltare la difficoltà iniziale assai facilmente ed innamorarmene immediatamente dopo con altrettanta facilità. L'interpretazione drammatica del vocalist poi è una spinta addizionale che fa anche da buon collante con una musica costantemente tenuta in tensione, in un post-core dalle matrici moderne, ipnotiche (ascoltatevi "Graham's Melancholy") e futuristiche, proprio come l'artwork robotico di copertina. I Celestial Meisters suonano con onestà e sapienza, giostrando riff pesanti, potenti e d'impatto, un pugno dritto allo stomaco come potrebbe essere un brano tratto da un album degli Old Man Gloom, con influenze post metal alla The Ocean, e alla fine il quintetto teutonico si fa portavoce di un sentore negativo che viene trasmesso da ogni singola vibrazione sonora. Sarebbe interessante anche intuire le connessioni tra testi e il pianeta manga, ad esempio nell'ottima traccia finale, "Celestial", con quella voce bambina, campionata da qualche film o cartoon, che esce tra urla al limite della disperazione umana, chissà quali le tematiche trattate nel brano. L'EP, uscito nell'autunno del 2015, rappresenta un valido biglietto da visita per il combo germanico: tutti i brani restano in piedi dall'inizio alla fine mostrando forte solidità, in un cd autoprodotto in maniera lodevole, curato e ben suonato. Magari ad una band dalle simili caratteristiche non si apriranno immediatamente le porte dell'Olimpo post-core ma sicuramente un posto d'onore tra le raccolte dei ricercatori di nuove emozioni e particolarità al vetriolo, i ventotto minuti di puro grigio magma energetico di questo EP d'esordio, lo troveranno di certo. Da ascoltare ad alto volume! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

domenica 7 giugno 2015

Shakhtyor - Tunguska

#PER CHI AMA: Post Sludge/Stoner
Tunguska esercita, a più di un secolo di distanza, ancora un fascino esagerato. Non si sa cosa accadde realmente quella mattina del 30 giugno 1908, forse un grande meteorite, oppure una cometa, addirittura c'è chi ipotizza un blocco di antimateria proveniente dallo spazio, fatto sta che una vasta area della Siberia centrale fu rasa al suolo. Oggi, dopo essere stata menzionata da altre band, si torna a narrare in musica, la storia di quell'evento catastrofico. A farlo sono i tedeschi Shakhtyor, che con 'Tunkuska' arrivano al secondo album, edito dalla Cyclone Empire. Il nuovo disco del trio di Amburgo contiene sei lunghi brani strumentali che si muovono tra lo stoner/post metal della opening track, "Baryon", approdando nelle tracce successive, a divagazioni drone/post rock inserite nella melma più totale dello sludge. Tuttavia 'Tunkuska' si rivela un disco ostico e complesso: nella prima song accanto a chitarre dapprima stoner, suoni drammatici si dilatano in una claustrofobica rassegna che spazia tra il doom e lo sludge, andando a costituire la colonna sonora di quelle terribili fotografie che ritraggono la steppa siberiana spazzata via dall'urto di un qualcosa che aveva la potenza di mille bombe atomiche di Hiroshima. Il sonoro dell'act germanico è comunque oscuro, dilaniante, e la seconda metà di "Baryon" ha anche un che di funereo. Con "Pechblende" i nostri ci trascinano in abissi profondi che fungono in realtà solo da preludio alla successiva e lunghissima "Zerfall". Oltre 10 minuti in cui gli Shakthyor offuscano la nostra mente: l'inizio è criptico, la sensazione è quella di percorrere uno stretto e metallico condotto dell'aria, con una carenza d'ossigeno al limite dell'estremo e con l'ansia che si stringe in gola, mentre il tribale suono della batteria aumenta a rotta di collo, inseguita dalla minimalista chitarra di Chris e dal basso tonante di Chrischan. Il suono sembra farsi più ruvido man mano che passa il tempo, sembra essere sul punto di esplodere ma poc'altro succede se non una danza reiterata che ha la sola ambizione di alimentare paure e frustrazioni. Finalmente la furia distruttiva che si andava celando nella terza traccia, fuoriesce più selvaggia che mai nel turbinio ritmico di "Schlagwetter", song in cui emerge il temperamento post black della band teutonica. È comunque una canzone che ha il pregio di non peccare di immobilismo sonoro, proiettata com'è in una serie di divagazioni musicali che deviano più volte il sound degli Shakhtyor, proiettandolo nuovamente verso il post rock o il desolante sludge. Desolante è la parola che torna nella title track per descrivere la percezione che si respira durante il suo ascolto. È come se realmente mi trovassi nella landa siberiana e guardandomi intorno a 360°, l'unica cosa che vedo è solo uno spoglio orizzonte e null'altro, niente alberi, niente case, niente persone o cose, niente di niente. Neppure un deserto è cosi nudo all'occhio umano. Questa è "Tunkuska", queste le emozioni evocate dalla sua mortale litania. Giungo alla conclusiva "Solaris" sfibrato, privato di forze ed energie, causa il suono estenuante degli Shakhtyor e complice anche la totale strumentalità di un lavoro che rende il tutto più difficile da digerire. L'ultima traccia è comunque la più dinamica, la più lineare e melodica da seguire, quasi che il futuro riservi comunque un bagliore di speranza... (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire - 2015)
Voto: 75 

venerdì 18 aprile 2014

Ølten - S/t

#PER CHI AMA: Post Sludge Strumentale 
Debutto per gli svizzeri Ølten, che nel giugno 2013 rilasciano questo EP omonimo in forma digitale e a settembre dello stesso anno, lo fanno uscire in vinile. La proposta del trio del Canton Iura è piacevole anche per chi, come il sottoscritto, non predilige composizioni interamente strumentali, complice anche la non eccessiva lunghezza dell'album. Il lavoro si apre con il noise ammorbante di "Péplum" che ben presto virerà la propria proposta verso più ipnotiche sonorità dal tratto comunque melmoso. Stiamo parlando di sludge/post (per convenienza eviterò di mettere una qualsiasi etichetta dopo) che tra sfuriate elettriche e intermezzi più rarefatti e inquietanti, ha modo di mostrare anche una certa personalità in una song dotata di un crescendo da panico. Bell'impatto, non c'è che dire. "Kàpoé" è un altro brano che attacca con stilettate di chitarra e un drumming marziale a cui farà seguito un sound minimal indefinito e dai tratti alieni, che non fa che confermare l'originalità di fondo della proposta. Un altro inizio all'insegna dell'ossessività è dato da "Tallülar" che inizia a logorarci con la ripetitività dei suoi giri che deviano verso acuminate sonorità post-rock. Chiude l'EP "Blöm", la song forse più oscura delle quattro, che conserva nei suoi tratti la discriminante dei nostri: il binomio offerto dalla marzialità della sua batteria e dalla ridondanza delle sue chitarre che finirà ben presto per sfiancarci. Ølten, un'altra bella scoperta per chi ha voglia di variare ogni tanto i propri ascolti in territori post bellici. (Francesco Scarci)

(Hummus Records - 2013)
Voto: 70

domenica 9 febbraio 2014

Allochiria - Omonoia

#PER CHI AMA: Post Sludge, Neurosis
Post metal dalla Grecia? Certo che si può, e a pensarlo sono gli Allochiria, band ateniese che giunge al debutto sulla lunga distanza con 'Omonoia', album uscito nei primi giorni di questo 2014 e segue a più di tre anni l'omonimo debut EP. Il lavoro ha colpito la mia attenzione per la sua intrigante cover, con la fotografia di un vecchio uomo dalla barba lunga con impressi sul volto disegni stilizzati di un qualche dispositivo meccanico. Passando ad un livello più profondo di valutazione, diciamo che la band esordisce con “Today Will Die Tomorrow”, una song lisergica, in cui una bombastica produzione ne amplifica esageratamente il risultato finale. La prima parte del brano è completamente strumentale e abbraccia prettamente l'ambito post rock, prima di abbandonarsi ai caustici vocalizzi della brava Irene, che declama nelle liriche 'The Garden of Proserpine' di Algernon Charles Swinburne. Si, avete letto bene, una dolce fanciulla che imprime il suo marcescente marchio vocale, una sorta di Steve Von Till al femminile. “Oppression” è invece un fulgido esempio di suoni post sludge, di quelli che generano tachicardia e lentamente fanno arrancare, fino a piegarsi sulle ginocchia. É breve per nostra fortuna, altrimenti il rischio di soccombere già alla seconda traccia si profilava assai elevato. “Archetypal Attraction to Circular Things” è una lunga traccia liquida, che mi dà l'idea di nuotare nelle viscere marine percependo i suoni dei cetacei che mi circondano. In sottofondo anche il canto delle sirene con un'atmosfera rilassatissima che in realtà solo presagio di una condizione mutevole. Non tarda ad arrivare infatti l'onda anomala ad agitare il mio mare, cosi come il canto angelico di quelle donne mezzo umano mezzo pesce, lascia il posto al growling incattivito della vocalist ellenica. La musica però, sebbene il ritmo si sia nel frattempo inasprito, si mantiene melodica e venata di striature malinconiche, prima di sopirsi nel finale. Notevole. “We Crave What We Lack” è una traccia ben più canonica che segue i classici dettami di Neurosis e compagnia, che vive il suo massimo spunto nella seconda metà, ben più calibrata e che non trascende livelli di ferocia inaudita. Un breve intermezzo ed è il turno di “K.”, song ritmata, quasi marziale con le vocals di Irene in primo piano; il pezzo vive il suo sussulto nella tribale parte centrale che evoca quegli assoli di tamburi che ogni tanto si vedono ai concerti dei gods di Oakland. Niente male. Brano dopo brano rimango sempre più affascinato dalla proposta del combo greco, che pensa di chiudere il platter con i dodici minuti abbondanti di “Humanity is False”. Un incipit notturno dischiude le porte al riffing possente e distorto del duo composto da John K. e Steve K.. Ma è sempre il drumming tribale di Ilias ad avere il ruolo da protagonista indiscusso di questo eccellente album, che lo candida inaspettatamente a porsi tra i miei album preferiti di questo 2014. Granitici. (Francesco Scarci)

(Self – 2014)
Voto: 75

http://allochiria.bandcamp.com/releases

domenica 28 aprile 2013

Blizzard at Sea - Invariance



#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge/Stoner
Recensiti un paio di mesi fa col loro ultimo lavoro, torno indietro nel tempo per affrontare il debut EP degli statunitensi Blizzard at Sea, uscito nel luglio del 2011. Poco importa se si tratta di un cd di quasi due anni fa, l’importante a questo punto è non lasciarselo scappare, e ora che lo sapete, andateli pure a cercare sul loro sito bandcamp. La proposta logicamente non si discosta poi di molto dall’ultimo “Individuation”. Sarà pertanto assai semplice per me parlarvi della opening track “Islands of Stars” e delle sue intense e sospese sonorità post, con un giro di chitarra che entra nella testa e non ci lascia più, in grado di sfociare in deliranti fughe math e in una splendida chiusura di chiara rock. Il suono è sempre avvinghiante per ciò che concerne le rarefatte atmosfere, ma sa anche sprigionare una bella dose di inaspettato e impastato stoner rock, come si evince dalle note di “Closed Universe”. Le vocals si mantengono sempre costantemente incazzate, con un growling di casa Neurosis su cui giri di chitarra ci sorprendono con un’altalenante girandola emozionale, in cui fanno anche la comparsa dei sorprendenti chorus. “Simulacra” attacca in modo ubriacante con un riff magnetico e magmatico, che evolve verso suoni più sludge/stoner oriented. L’incedere di “Invariance” è ben poco lineare in tutti i brani, fino all’ultima “Action at a Distance” con le ritmiche e le chitarre più in specifico, ad alternare sapientemente riffoni che indistintamente traggono la loro origine da suoni post, sludge, stoner e math. “Invariance” non fa altro che confermare pertanto che la band di Iowa aveva le idee chiarissime anche all’esordio. Un invito obbligato quindi a dargli un ascolto. (Francesco Scarci)

martedì 12 febbraio 2013

Blizzard at Sea - Individuation

#PER CHI AMA: Post Sludge?
Lo so, avrei dovuto recensire prima “Invariance”, EP del 2011, ma troppa era la voglia di ascoltare questo secondo lavoro degli statunitensi Blizzard at Sea, datato dicembre 2012. Per chi non li conoscesse (faccio tanto il figo io, ma li seguo giusto da un paio di mesi), la band è un trio di Iowa City, che se n’è uscito appunto con 2 EPs in digipack, a distanza di un anno l’uno dall’altro, davvero assai intriganti. Il genere? Apparentemente, si tratta di un melmoso sludge/post metal, segno del dilagante imperversare di questa tipologia di suoni. L’album apre con “Accelerating Returns”, song in cui accanto ai chitarrismi asfissianti tipici, vede affiancarsi anche tortuosi e tecnici giri di chitarra, che rendono il tutto molto particolare, in quanto si discosta non poco dai dettami classici di Neurosis e soci. La band macina pesanti riffoni, si lascia andare in pregevoli break atmosferici, graffia con incursioni stoner. Strane però poi alcune scelte armonico-melodiche, decisamente fuori dagli schemi, disarmanti addirittura nella schizofrenica “The Technological Singularity”, il che mi induce a non bollare immediatamente la band come mero clone di Isis, The Ocean o Cult of Luna. I Blizzard at Sea prendono le distanze da tutto e tutti, suonando quello che gli pare e piace, reinventando totalmente un genere, che se non mostrerà una qualche evoluzione nell’immediato, rischia seriamente di vedere un veloce declino. Fortunatamente però sono arrivati Jesse, Steven e Pat a dire la loro e nei 18 minuti della conclusiva “Longevity”, arrivano quasi ad abbracciare sonorità ambient/drone nella sua prima metà, introducendo un cantato pulito e litanico (abrogato quello caustico delle prime due tracce), per poi lasciarsi andare ad una seconda metà di brano dotata di suoni ipnotici e tribali, che mettono in mostra le doti notevoli, dietro alle pelli, del bravo drummer Pat Took ed in generale di una band, dotata di una inventiva davvero invidiabile, che arriva anche a strizzare l’occhiolino agli immensi Tool. Definiti da più parti come post sludge, io mi limito a dire che questi Blizzard at Sea sono una band davvero potente e sorprendente. Nuovo crack in ambito post? Voi che ne pensate? (Francesco Scarci)