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Visualizzazione post con etichetta Phonosphera Records. Mostra tutti i post
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sabato 25 novembre 2017

Void Generator - Prodromi

#PER CHI AMA: Psych/Stoner/Krautrock
I prodromi sono delle avvisaglie, dei fenomeni che costituiscono un segno premonitore; mi piace come parola e la trovo azzeccatissima per essere il titolo della quarta fatica dei Void Generator, band nostrana che conferma il buon stato di forma della scena psych-stoner italica e che verosimilmente preannuncia la crescita esponenziale di un movimento musicale sempre più in fermento nel nostro paese. Il disco include quattro song monumentali, di cui solo la prima non sfiora il quarto d'ora, ma si assesta su un più umano sette minuti di durata, il cui sound anticipa il carattere quasi da jam session di questo 'Prodromi'. La song in apertura, "40 Kiloparsecs", mostra immediatamente il carattere cosmico psichedelico del disco, con suoni che sembrano provenire dallo spazio profondo e una musica che potrebbe essere l'ideale colonna sonora per un viaggio intergalattico, con i suoi riverberi, i rumori e le voci rarefatte in sottofondo, ove pulsano anche un basso propulsivo e un drumming serrato, pronti a fiondarci nell'iperspazio. Cosi si entra in quello spazio avente un numero di dimensioni geometriche superiore a tre, perdendo i sensi in "Sleeping Waves", un brano che ci culla nella spedizione interstellare attraverso un wormhole che ci porta in quadranti diversi della nostra Galassia a saggiare suoni e colori di mondi alieni e sconosciuti, che fatichiamo probabilmente a comprendere, ma che evocano vibrazioni, sentori, pulsazioni, elucubrazioni, sperimentazioni che in passato sulla Terra, hanno appartenuto a band come Pink Floyd o alle improvvisazioni cosmico-minimaliste dei Tangerine Dream. Difficile spiegarvi come il disco dei Void Generator riesca ad evolvere nelle successive song, se non sono ben chiare nella vostra mente le origini di un genere, etichettato semplicisticamente come space-krautrock. Dovete aprire le vostre menti, prepararvi ad un incontro con suoni non convenzionali, perché raggiunto l'altro capo della Galassia, sarà impossibile far ritorno sulla Terra, a meno che non si entri in un tesseract, ove modificare il tempo e lo spazio per tornare a ritroso attraverso il tunnel spaziale, sperimentando la ridondanza di suoni che martellano il cervello e ci spingono fino all'ultimo baluardo da superare prima del collasso definitivo all'interno del buco nero generato dal suono dei Void Generator. Tutto più chiaro ora? Se non lo fosse, cosi come credo, sappiate che le elucubrazioni di questa recensione, sono il frutto dell'ascolto ad elevato volume di questo lisergico disco; provare per credere. (Francesco Scarci)

(Phonosphera Records - 2017)
Voto: 85

domenica 23 luglio 2017

Da Captain Trips - Adventures in the Upside Down

#PER CHI AMA: Space Rock/Jazz/Psichedelia
Non amo particolarmente le band strumentali, si sa. I Da Captain Trips lo sono ahimè interamente e questo è un bel problema per il sottoscritto ma soprattutto per la band che con me ha pensato bene di condividere il proprio album. Tuttavia, il loro stralunato modo di suonare supplisce egregiamente all'assenza di un cantante, fortunelli. 'Adventures in the Upside Down' d'altro canto è un lavoro tutto strano già dalla sua copertina, da quella figura sottosopra allo stesso titolo capovolto, che ancor oggi quasi mi sfugge quale sia realmente il lato giusto per guardare la cover del cd, infine ad un sound tutto particolare contenuto in questa seconda fatica della band italiana. "The Calm And The Storm" apre il disco con la sua musica liquida e lisergica con evidenti richiami agli anni '70, ovviamente riletti in chiave moderna, contaminata da una forte componente space rock liberata nei synth che riempiono la seconda parte del brano. "Manta" è la seconda tappa del viaggio ma anche il pesce protagonista della copertina dell'album dal momento che costituisce un tutt'uno con quell'uomo in procinto di affrontare il suo avventuroso viaggio. La musica strizza in modo più o meno evidente al krautrock e alle suggestioni elettro prog che ne hanno caratterizzato il genere negli anni d'oro. Si prosegue con "Revelation", song più vellutata che riprende visioni cosmiche e suoni ancestrali che sentii per la prima volta nel debut album degli australiani Alchemist, 'Jar of Kingdom', con sonorità che sembrano evocare il canto delle balene, complici i meravigliosi passaggi jazzati affidati al suono del sax di Lee Relfe, guest dei gallesi Sendelica. I suoni proseguono nella loro inebriante delicatezza ed eleganza, con il battito di "Dear Zahdia", song dal mood sicuramente vintage, dinamica e melodica nel suo incedere affidato ad un grande lavoro di sintetizzatori, prima della più lenta e suadente "Trepasses Bay". La traccia non è affatto male, però è sicuramente quella che ha scaldato meno il mio cuore, al contrario della successiva "Peaceful Place", song incollata alla precedente ma assai più piacevole e virtuosa grazie al suo sound riverberato e alle sue splendide atmosfere psichedeliche, con dei tratti che mi hanno ricordato addirittura i The Doors nelle loro visioni più caleidoscopiche. In chiusura ecco il brano più lungo del lotto, "Mother Earth": una chitarra acustica dal vago sapore folk apre il pezzo, seguita da percussioni tribali. La sensazione è quella di essere lontani da casa, magari sulla spiaggia a contemplare le stelle di notte, mentre un fuoco regala il suo bagliore nel buio della notte.

(Phonosphera - 2017)
Voto: 75

https://dacaptaintrips.bandcamp.com/

sabato 14 maggio 2016

Warchief - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Sludge
Phonosphera Records ci sta viziando non poco: oggi parliamo di un altro interessante Lp dell'etichetta nostrana, il S/t dei finlandesi Warchief. Il 12 pollici è esteticamente una perla, partendo dalla cover art che raffigura un astronauta esausto che si lascia trasportare da un cavallo per una landa deserta dove sullo sfondo si stagliano arcaici edifici. Un'opera in stile sci-fi che ha lo scopo di attirare l'occhio e ammagliarlo con il suo look onirico. Il vinile è poi di un rosso brillante, quasi a raffigurare un sole incandescente che brucia alto nel deserto, in un cielo che potrebbe essere quello terreste in un prossimo futuro oppure quello di un altro mondo. Anche per i Warchief la stampa è stata fatta su 180 gr. di PVC, una garanzia di qualità per la lettura sul nostro fido giradischi. Il quartetto spazia tra sonorità stoner, sludge e rock, che unite alla loro buona attitudine, regalano quattro brani curati e dall'ottimo groove. Il disco inizia a girare, la puntina si abbassa sul fido piatto della Technics e la traccia di apertura, "Give", riempie la stanza. Un mid-tempo dal mood spirituale ed epico, dove i riff di chitarra sono una goduria per le mie orecchie, grazie anche a distorsioni grosse ma non troppo esasperate, il giusto per lasciar trapelare molte armoniche. Tramite il vinile sembra di accarezzare velluto di ottima fattura. Gli intrecci di basso e di batteria rispecchiano quanto di meglio l'hard rock abbia insegnato durante le decadi d'oro e i Warchief sembra ne abbiano fatto buon uso. La classica alternanza strofa-ritornello crea un ottimo equilibrio tra potenza e introspezione. Il cantato ha un ruolo molto importante nella song perché la sua cadenza e la sua timbrica regalano un non so che di epico, simile ad un canto primitivo che si alza per farsi udire da un dio che non ascolta. "Life Went On" è un'opera rock di nove minuti abbondanti, tramite la quale, la band attraversa varie evoluzioni stilistiche. La parte iniziale è caratterizzata da una ritmica lenta e ossessiva, con un soffice riff distorto di chitarra che cerca di ipnotizzarvi per portarvi nelle lande perdute del subconscio. L'esplosione non si fa attendere, con il vocalist che sale di tonalità fino a toccare le stelle, poi la calma torna improvvisa e si ricomincia daccapo con una variazione semplice ma efficace del tema. Mentre il basso tesse una trama di sub frequenze che smuovono il nostro io interiore, l'esplosione torna e ci investe, forse in modo un po' prevedibile. La psichedelia deriva più dalle ritmiche e dai semplici riff che dai classici assoli. L'influenza dei Truckfighters e affini si percepisce facilmente, ma il cantato e gli arrangiamenti aiutano i Warchief a scrollarsi di dosso questa pesante somiglianza. Il disco chiude con "For Heavy Damage" a cui è dedicato l'intera side b, quindi circa ventuno minuti che sembrano riprendere il tema della precedente traccia, quasi ad esserne essa stessa un'evoluzione. I riff si fanno più cadenzati e sporchi di sonorità blues, ma allo stesso tempo si sente parecchia influenza rock anni '70 che tanto sembra cara alla band. Gli stacchi e le riprese compongono i dieci minuti della prima parte e aiutano a non abbassare mai il livello di guardia, grazie ad allunghi che ci lasciano godere con calma ogni singola sfumatura prodotta dalla puntina del giradischi. Un assolo alla Electric Wizard ci dimostra che la sezione delle chitarre se le cava bene anche sotto quest'aspetto, poi il quartetto si fa prendere da un'isteria musicale e continua con la propria evoluzione. Il brano chiude con un campionamento vocale di qualche film di vecchia data, sempre di grande effetto, anche se un po' troppo di moda nell'ultimo periodo. 'Warchief' alla fine è un buon esordio che mette in chiaro le doti della band finnica, sebbene in un panorama musicale, lo stoner rock/sludge, decisamente affollato; credo tuttavia che grazie ad un ottimo cantato e all'ottima capacità compositiva, i Warchief saranno in grado di ritagliarsi la loro fetta di notorietà. Facile intuire, che questa crescerà proporzionalmente con l'impegno e il sacrificio. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 75

venerdì 22 aprile 2016

Temple of Dust - Capricorn

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Blues Rock
Oggi, con estremo piacere mi accingo a parlare dell'edizione in vinile di 'Capricorn', debutto degli italianissimi Temple of Dust, uscito per l'etichetta Phonosphera Records. Il trio monzese nasce nel 2013 e debutta l'anno successivo con la versione EP di 'Capricorn', ovvero due brani in meno pubblicati su cd e in digitale. I Temple of Dust si caratterizzano per un blues pesante contaminato da sonorità stoner, doom, noise e post rock, ovvero una mazzata dritta allo stomaco che vi farà ricordare gli Hawkwind e la loro psichedelia acida. Il disco è stato stampato in trecento copie e si contraddistingue per il colore bianco del PVC e l'artwork ben fatto, quindi un bel pezzo da collezione per gli amanti del suono meccanico. Il lato A apre con la title track e veniamo accolti subito dalle note di basso che escono piene e suadenti dalle casse dell'impianto mentre il disco (180 gr.) gira in maniera perfetta sul mio piatto. Le chitarre entrano di prepotenza ed oltre a creare il classico muro sonoro, creano in sottofondo una linea melodica distante, in puro stile post rock. Poi è la volta dell'effetto phaser applicato alle sei corde, tipico dello stoner e del rock psichedelico che crea un turbine di suoni pronto a trascinarci negli inferi. Ritmica pesante e cadenzata, quasi a volere dettar legge su quali siano i giusti bpm che regolano i ritmi circadiani della nostra esistenza. La voce ha subito un processo di distruzione sonoro e successivo ricomponimento con l'aggiunta di una buona dose di effetti. Se tutto questo è stato fatto per regalarci qualcosa di diverso dal classico cantato, non possiamo che apprezzare. La miscela è ben riuscita e dona una carattere evocativo a tutto il brano mantenendo un elevato impatto. "Requiem for the Sun" accelera rispetto a quanto sentito fin'ora e acquista parecchio in groove, con i riff di chitarra belli spavaldi anche se qualche arrangiamento ha quel non so di già sentito che permane nella nostra testa. L'assolo aumenta lo stato di ansia già di per sè elevato del brano, insieme a un cantato che è molto più comprensibile, ma sempre carico di riverbero e/o delay. Un brano che vi farà dondolare la testa anche se non vorrete, è assicurato. "Szandor" chiude il lato A del disco ed è un diamante parzialmente grezzo: la ritmica di basso è molto new wave e i tocchi di chitarra vi faranno attraversare mondi lontani dove la sabbia del deserto è blu e il cielo verde. Per tutto il brano è presente il campionamento di un monologo dalla provenienza non meglio precisata, una scelta già fatta da altri, ma comunque azzeccata. Un'ottima colonna sonora dove le chitarre liquide della band vi faranno compagnia per oltre sei minuti. Del side B, vorrei segnalarvi "Goliath", probabilmente il brano che preferisco, infatti in poco più di cinque minuti, il trio mette in piazza il meglio del loro repertorio. Un classico blues imbastardito da una sezione ritmica accattivante ed un fantastico riff di chitarra che come un mantra si ripete all'infinito, ipnotizzandovi in un piacevole stato di meditazione. L'alternarsi del riff principale, in versione pulita e distorta, permette al brano di avere una sua dinamicità e verso la conclusione si aggiunge anche una lieve linea di synth che da un tocco sci-fi che non guasta. 'Capricorn' alla fine è un LP ben fatto, sia musicalmente che a livello di registrazione e post produzione; il feeling del vinile è indiscutibilmente un orgasmo per le nostre orecchie martoriate da migliaia di file mp3 che hanno la dinamica di un manico di scopa. Lunga vita alla buona musica prodotta altrettanto bene. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 80

https://templeofdust.bandcamp.com/album/capricorn-lp