Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Nu. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Nu. Mostra tutti i post

sabato 27 gennaio 2024

Colour Trip - Kill my Super-Ego

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Death/Hardcore
Solito incrocio nu-metal/old school-thrash mescolato a moderno hardcore che probabilmente accontenterà le nuove leve che maneggiano indistintamente, con noncuranza, Nuclear Assault e NOFX, Kreator e Strong Out. Nonostante i nostri Color Trip siano degli ibridi metalcore, devo riconoscere che musicalmente se la cavano. A parte la classica voce urlata “da stitico”, gli arrangiamenti e l’esecuzione dei brani sono buoni; forse mancano un po’ di originalità, non penso però causata dalla mancanza di temi del genere da loro proposto. Forse sono io che non li capisco, ma giunto alla settima traccia, non mi è rimasto impresso niente delle prime sei. Una batteria ben fatta, chitarre taglienti; tutto ben ritmato e abbastanza pesante, ma che manca di personalità e di tracce che possano lasciare il segno nella memoria finito l’ascolto. La produzione è buona (Siggi Bemm ai WoodHouse Studios). Se volete ascoltarlo, non andate però oltre la mera esecuzione musicale.

(Arctic Music Group - 2001)
Voto: 65

https://www.metal-archives.com/bands/Colour_Trip/

sabato 2 dicembre 2023

Elfman - Common Sky

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Nu Metal
Dall’Austria un gruppo alquanto indefinibile: a volte metal o quasi, a volte rap-nu-metal, in altri momenti propongono arpeggi acustici di vaga provenienza. Indubbiamente buona la produzione quanto inutile, almeno per il sottoscritto, la partecipazione di un DJ per i sampling e rumori elettronici vari. Abbastanza simili ai Fear Factory per l’uso delle chitarre ruvide ma che non dicono molto e inusuali nell'uso della voce. Fino a quando questa viene usata in modo pulito e melodico, risulta espressiva; quando s'insinuano sentori rap (vedi la traccia quattro, "Glory D."), allora fa cadere le braccia e non solo. In questa traccia, gli Elfman creano delle parti che faranno felici i seguaci delle sonorità nu-metal, non chi vuole ascoltare metal. A loro favore tuttavia c’è sicuramente l’originalità, pur essendo fuori dal seminato di qualcosa che si possa chiamare lontanamente metal. Non bastano due chitarre distorte per autodefinirsi metallari, alcune loro parti potrebbero essere infatti suonate in una discoteca e nulla più. Fanno sorridere i loro effetti elettronici e i vari loop di tastiera (vedi la quinta "By Myself"). Chissà se avranno successo. Ma forse nel pop, non certo nel metal: qui c’è già troppa merda. Se alle loro indubbie capacità compositive, unissero un minimo filo conduttore sensato, eviterebbero di unire un Kurt Kobain effettato che canta pop a una base musicale alquanto trendy. Non ho parole né voglia di ascoltarli.

lunedì 10 dicembre 2018

Shuffle - #WontTheyFade

#FOR FANS OF: NuMetal/Alternative Rock, Linkin Park, Incubus
After the 2015’s convincing debut album 'Upon the Hill', this nu-metal youngster quintet releases another raw diamond: '#WontTheyFade'. Everybody would initially spot this band somewhere in the USA, the sound takes us to the late '90s college rock but: first of all, these guys come from France (Le Mans) and second, they re-adapted a 20 years old sound to the XXI century’s second decade with modern lyrics and much more groove. I enjoyed this album a lot and I’m looking forward to monitor the bright future they’re promising, they have everything necessary to break trough the scene and already shown maturity in this latter release comparing it to the first one. The composition, the arrangements, the riffs and the melodies deserve more than a superficial glance, delicacy and brutality are perfectly merged together, I mean, if you are under 30 you have no reason to avoid this album, if you are over 30 and still able to dream, you also have no reason to leave this work un-downloaded. Shuffle is a wonderful reality made of young hungry guys ready to slap your face from the earliest live guitar plug, I’m already checking if they’re planning a gig in Italy! The ingredients of Shuffle are compliant for a world explosion, “Spoil the Ground” and “Faded Chalk Lines” will stay for a long time in my playlists and I will definitely let my girlfriend listen to “Oh Glop D’eternitat”, '#WontTheyFade' has songs for everybody. Emerging or not, material about this band can be found easily with a quick research and what really emerge are their passion and dedication. If the improving path won’t meet distractions, we will here about these guys very, very soon. (Pietro Cavalcaselle)

martedì 26 giugno 2018

Evanescence - Synthesis

#PER CHI AMA: Gothic Rock
L'affaticato intrecciarsi di efferate orchestrazioni gonfie di pathos e un drum n' bass drammaturgico proposto nella programmatica "Never Go Back" in apertura, sintetizza appropriatamente intenti e conclusioni evolutive di un album progettualmente confuso e straordinariamente povero di idee. Al di là dei pochi, maldestri tentativi di ricontestualizzazione (nell'epocale "Bring me to Life", ora dotata di una base elettronica che pare scritta da Michael Cretu in persona, ci si limita a rimuovere maldestramente il controcanto rap. Perché poi? A voi dispiaceva così tanto?), piuttosto che usare l'orchestra per fare quelle cose per le quali di solito ci si procura un'orchestra, per esempio esplorare un po' la dinamica verticale delle armonizzazioni (canzoni come "Going Under" avrebbero in questo senso un potenziale vertiginoso), si preferisce attenuare tutto e limitarsi conferire preminenza alle evoluzioni ipereuclidee dei vocalismi (sovente troppo) Turuniani di A-L (la scialba "Hi-Lo" o "Lacrymosa"). "Imaginary" è pasticciata fin oltre l'orizzonte variopinto del ridicolo e, sempre a proposito di ridicolo, l'inedita "Imperfection" sembra scritta da Janet Jackson. La creatività della band che ha (forse involontariamente) riscritto l'estetica del nu-goth appare sempre più evanescente, e la band medesima sembra più interessata a dollarose reunion e a fluttuare nell'iperuranio dorato delle band-ahimè-diventate-troppo-famose-troppo-presto-per-combinare-qualcosa-di-diverso-da-un-bell-accidente-di-niente, che a suonare per davvero. (Alberto Calorosi)

(Sony Music - 2017)
Voto: 45

http://www.evanescence.com/

giovedì 3 maggio 2018

Clawfinger - Life Will Kill You

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative/Nu/Rap
A distanza di due anni dal fortunato e incazzato 'Hate Yourself with Style', i leggendari nu/rap metallers svedesi Clawfinger hanno rilasciato il settimo album della loro discografia. Come sempre ci hanno abituato, il trio scandinavo ci spara un lavoro in grado di miscelare suoni provenienti da più disparati ambiti sonori, sempre capace di shockarci con la loro proposta fuori dal comune, per la presenza del cantato rap, che li ha resi famosi nella scena metal mondiale. Continuando il discorso intrapreso nella precedente release, che rappresentò il debutto per la potente Nuclear Blast, 'Life Will Kill You' contiene 11 arroganti e irriverenti songs, che non potranno non piacere ai fan di sempre della band, e potranno anche catturare l’attenzione di nuovi adepti e curiosi. L’album si apre con “The Price We Pay”, esaltante nel suo incedere, grintosa, melodica; bella song davvero, caratterizzata anche dalla presenza di archi. Segue la rappeggiante title track, forse il pezzo più ballabile dell’album, in grado di scatenare con il suo ritornello una delirante danza selvaggia. Il sound del combo, lungo gli 11 pezzi, si dimostra sempre sperimentale nella sua proposta, ed è bello constatare che dopo vent’anni di onorata carriera, la freschezza e l’entusiasmo dei nostri, si sia confermata al top anche in quello che è rimasto l'ultimo full length della loro discografia, ormai datato 2007. Zak, Bard e Jocke ci regalano alla fine ottimi brani, sempre orecchiabili (“Prisoners” e “It’s Your Life” sono le song che preferisco), tosti, talvolta danzerecci (ma nel senso che vi si può scatenare un pogo violentissimo sopra); samples elettronici, vocals femminili, influenze grunge e hardcore, completano un lavoro multi sfaccettato che mi sento di consigliare un po’ a tutti, dagli amanti del rock più classico ai metallari estremisti più incalliti. Le liriche trattano, al solito, temi scottanti quali la politica e il razzismo. 'Life Will Kill You" è un melting pot di stili, musica heavy metal a 360° di cui se ne sentiva la mancanza. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2007)
Voto: 75

http://www.clawfinger.net/

martedì 29 agosto 2017

Il Confine – Il Cielo di Pryp’Jat

#PER CHI AMA: Hard Rock/Nu/Alternative
Mi ci è voluto un po' per digerire il secondo album dei pugliesi Il Confine, sebbene il titolo del lavoro inducesse in me una forte curiosità, visto il richiamo a Pryp’Jat, la città ucraina fantasma abbandonata a seguito dell'esplosione nucleare nella limitrofa Černobyl nel 1986. Il genere proposto dal quintetto brindisino è un ruffiano alternative rock che già a partire dalla opener, "Eccedere e Cedere", mette in luce tutti gli ingredienti, i punti di forza e debolezza, della band nostrana. L'ensemble si affida ad un sound di matrice hardrock su cui poggia la voce mainstream del frontman, accompagnato qui da riffoni più pesanti che chiamano in causa realtà americane Nu metal e che poi nel finale offre addirittura un cantato rappato che mi fa storcere il naso. Un modo di cantare che mi indispone anche all'inizio della seconda "Tentacoli", un'altra song che lascia sicuramente intravedere le potenzialità di una band che si muove con grande disinvoltura nell'utilizzo di testi in italiano, ma anche una certa abilità nei cambi di tempo e nel miscelare l'hardrock con effettistiche elettroniche. Ahimè quello che fatico a digerire è l'utilizzo delle voci abbinate a dei chorus forse un po' scontati e ad un proposizione talvolta elementare delle ritmiche. La title track, 'Il Cielo Di Pryp’Jat', si palesa con il suo sound oscuro allineata nel testimoniare gli edifici abbandonati della città ucraina attraverso però l'uso di testi un po' banalotti; di contro la sua musicalità si mostra assai efficace nel modularsi tra chiaroscuri sonori. La sensazione persistente che avverto durante l'ascolto del disco è però quella che non sia cosi chiaro per i nostri cosa voler fare da grandi: imitare qualche band mainstream americana con la variabile del cantato in italiano, oppure voler seguire le orme dei conterranei Negramaro, come nella semi-ballad "Abissi", nella più movimentata e punkeggiante "2103", nell'irrequieta "Vitrei Dedali" o ancora in "La Sintesi", pianistica song che vede un inedito duetto vocale tra una voce rock e una lirica maschile che sicuramente regala un maestoso effetto conclusivo, ma che pone nuovamente seri dubbi sull'identità dei nostri (influenze da Il Volo forse?). Il disco riserva qualche altro spunto interessante, tra cui vorrei segnalare la bonus track, "Il Concetto di Dose", che vede la presenza di Annaclaudia Calabrese in un ruolo più predominante dietro al microfono, per un'ultima arrembante traccia che ha modo di strizzare l'occhiolino anche agli Evanescence. Disco piacevole ma credo ancora transitorio. (Francesco Scarci)

(Alka Record Label - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/ilconfineband/

domenica 16 luglio 2017

New Disorder - Deception

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La fuorviante taitoltrac "Disorder" in apertura, vi collocherà mentalmente dalle parti di un certo melodic nu-metal old-school feat. clean vs. scream più orsacchiottosi interludi growl appiccicati con l'uhu, ma mentre ve la svignate a gambe levate, percepirete la piacevole sensazione tipo di essere inseguiti da un pitbull, mentre ascoltate in cuffia un pezzo degli Hardline (uh, anche la conclusiva "A Senseless Tragedy", in un certo senso). Subito dopo, rutilanti riff death-alley-rainbow con tanto di innesti tukutuku-power ("Love Kills Anyway", eh già) e barra o repentini no-funk-gnagnagna (con tanto di "Tarjanata" conclusiva in "Straight to the Pain", già apparsa insieme ad altre sette tracce, nell'album precedente). Nel prosieguo, i suoni rimangono scolasticamente compressi, come si conviene sì, ma sottocutaneamente Frontiers-oriented, classici, rassicuranti, metallosi e trasparenti, come la custodia di un cd dei Talisman. Ci si diverte, l'avreste detto? Ci si diverte sul serio, soprattutto quando si system-of-a-gigioneggia (in "Never Too Late to Die"). Datemi retta: ascoltate questo disco, e poi riascoltatelo ancora. Perché a voi quel metal nu-riverente anniduemila incessantemente trainato dal zigzagante ma perentorio T' (ti-apostrofo) di grancassa, non lo ammettereste mai, ma vi piace un casino. Mi sbaglio forse? (Alberto Calorosi)

(Agoge Records - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/newdisorderband/

giovedì 23 marzo 2017

God's Empire - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post, The Gathering, Tool
È sorprendente come due individui, appartenenti a due generi fondamentalmente distanti anni luce tra loro, si siano incontrati dando vita ad un terzo genere, che con i due precedenti non centra ancora una volta assolutamente nulla (o quasi). Stiamo parlando dei francesi God's Empire, duo formato dal chitarrista Jérôme Colombelli (membro di Uneven Structure e di Cult Of Occult, altre due band agli antipodi, una djent e l'altra al limite del funeral doom) e Anne-Sophie Remy (Room Me), una vocalist cresciuta ispirandosi a Patti Smith e PJ Harvey. Questo è il loro EP omonimo uscito da poco autoprodotto, che consta di cinque tracce che strizzano l'occhiolino al versante più alternative della musica rock. Lo si evince già dall'opener "Pleasure" e dal suo rifferama cosi nevrotico che chiama in causa Tool e Deftones, che poco convince però a livello di batteria, sul finire un po' troppo caotica e che mal si inserisce nel contesto musicale creato. L'inizio di "Nightmare" non può non far pensare ai System of a Down, anche se poi l'incedere si fa più cupo e minaccioso, con in primo piano un riffing tosto e ritmato e la voce di Anne-Sophie convincente, ma che lascia ancora intravedere ampi margini di miglioramento. In "Mirrors" si palesa a livello della sei corde un retaggio djent proveniente dagli Uneven Structure, anche se poi quando la vocalist prende la scena, il volume della chitarra sembra abbassarsi, per dare modo ai vocalizzi di Anne-Sophie di elevarsi su tutto il resto, mentre nei cori torna ad irrobustirsi la porzione ritmica dei nostri. "Coma" apre timidamente con la voce di Anne-Sophie che sembra rievocare quella di Anneke Van Giersbergen, ex front-woman dei The Gathering, nei pezzi più malinconici della band olandese; ed è proprio in questa veste più calda che la performance della cantante transalpina si fa ancor più convincente, cosi come la song, decisamente più malinconica delle precedenti. Seppur i due non inventino nulla di che, alla fine è il pezzo che preferisco, perché riesce a bilanciare perfettamente l'aspetto più atmosferico e decadente dei nostri con un riffing a tratti votato al post rock e in altri frangenti, assai più tensivo. Si arriva alla traccia più lunga del disco, "Dark Passenger", ove sono ancora atmosfere rilassate a governarne l'andamento di un brano che, complice una chitarra in tremolo picking, risulterà mostrare un carattere nostalgico e tormentato. Insomma una prima prova quella dei God's Empire che tra luci ed ombre, riesce a mostrare una certa personalità, volubile, eclettica, a tratti indomabile, che comunque potrà convincere quella fetta di fan più aperta a sonorità alternative volte a varie forme di contaminazioni. (Francesco Scarci)

lunedì 27 febbraio 2017

Assent - We Are The New Black

#PER CHI AMA: Death/Metalcore/Nu Metal
Continua l'ondata di band provenienti dalla Francia, tant'è che si potrebbe parlare quasi di una vera e propria "New Wave of French Heavy Metal". Gli ultimi, cronologicamente parlando, che hanno bussato alla porta del Pozzo dei Dannati sono i parigini Assent, un duo arrivato al debutto a dicembre 2016 con questo 'We Are the New Black'. Il genere proposto dai nostri, lungo le sei tracce di questo EP, è una mistura di death e metalcore, tinto però di sonorità prog e nu metal, in un pout pourri che potrebbe inglobare anche gothic, punk e molto altro. Non sempre però convogliare decine di generi musicali in un album può risultare vincente. Qui le cose, dopo la solita intro strumentale, divengono già assai complicate col pastone affidato alla title track, dove in un inizio da ninna nanna, ecco collidere subito screaming vocals con voci pulite. Sghembe linee di chitarra melodica di natura progressive avanzano in un pezzo che soffre di una certa carenza di fluidità, sebbene si percepisca che ci siano buone idee di base, ma semplicemente mal assemblate. Proviamo ad andare oltre per provare a capire di più degli Assent: l'inizio di "Reaching Out" suona in stile Pantera, un cantato in screaming rappato converge successivamente il sound della band verso lidi nu metal che non mi fanno troppo sorridere, anche se l'utilizzo quasi tribale della batteria, devia la mia attenzione a livello dei singoli strumenti, perdendo per un attimo l'attenzione dal flusso sonoro che persiste nel balbettare. "A Part of Me" risente ancora di influssi americani in stile nu e metalcore, sebbene provi a percorrere territori alternativi che finiscono ahimè per creare sonorità a tratti confusionarie, che faticano a rimanere impresse nella testa. Un bel piano apre "Remain in Darkness", poi un cantato in growl prende possesso della scena e finalmente i nostri mi sembrano per la prima volta convincenti nel loro incedere da gothic metal opera, anche se la ripetuta alternanza vocale, non agevola l'esito conclusivo, ancora carente in fatto di fluidità. È forse con la conclusiva "Insomnia" che il duo riesce a strappare una sufficienza risicatissima, merito di una song più lineare, orecchiabile e carica di groove. Gli Assent non mi hanno convinto granché, conto di capirci qualcosa di più con la prossima release. (Francesco Scarci)

martedì 20 settembre 2016

Fallen Eight - Rise & Grow

#PER CHI AMA: Metalcore/Nu metal/Alternative, Disturbed
I Fallen Eight vengono da Parigi e non propongono metal estremo. Questa è già una novità per chi come me, è abituato a frequentare band black o death d'oltralpe. Il quintetto, al debut con questo 'Rise & Grow', propone un heavy metal contaminato assai potente, in un 6-track ben confezionato e (self)prodotto. "Reborn", "Come From the Sky", "Final Shot", "Breath of the Ages", "Light" e l'ultima "Worst Nightmare", scorrono via veloci, miscelando un ruffiano metalcore con una forma più moderna di Nu metal, che assai spesso tende ad indurre un feroce headbanging, come se nel vostro stereo stesse ancora scorrendo un pezzo dei Pantera del 1992 o un qualcosa di più alternative in stile Disturbed. Ecco l'effetto Fallen Eight, proporre song dirette, vocals incazzate, ma quasi mai in versione growl e chorus catchy. Un plauso va poi alla sezione ritmica grazie ad un riffing metallico, ben calibrato che incorpora al suo interno sia la cattiveria del heavy metal più intransigente anni '80 che di sonorità decisamente più mainstream, stile Linkin Park o Avenged Sevenfold. Per quanto non sia un un fan del genere, un ascolto disinteressato a 'Rise & Grow', lo concederei anche. (Francesco Scarci)

domenica 18 settembre 2016

Lucy's Doll - Formula for Hate

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative Thrash, Machine Head
No, no e ancora no... ma chi sono questi? Il claim pubblicitario dell'epoca affermava che la band arrivava dall’Australia per conquistare l’Europa; francamente, ne potevano fare a meno. Il trio australiano propone infatti un sound alternative, che mischia, in modo ridicolo, il thrash con il crossover, con un cantato molto vicino a Rob Flynn dei Machine Head. La musica dei nostri vorrebbe rifarsi ai grandi del genere ma, anche copiando, il gruppo non riesce a cavarne un ragno dal buco. Sono scontati, noiosi, privi di verve e idee originali: non riesco veramente a salvare nulla di questo disco. Mi spiace, perché amo quella terra e le idee molto spesso originali partorite in quel continente, ma qui proprio non ci siamo. Anche quando i nostri abbandonano il loro banale thrash e si lanciano nella riesumazione del grunge sono da dimenticare. Da denunciare. (Francesco Scarci)

(Twilight-Vertrieb - 2006)
Voto: 40

Dive Your Head – Le Prix Du Sang

#PER CHI AMA: Hardcore/Metalcore
La band francese dei Dive Your Head s'incastra alla perfezione in un limbo sonoro tra metal, nu metal, hardcore e metalcore senza imitare nessuno, pur restando fedele ai canoni stilistici dei suddetti generi. La commistione sonora è lanciata in orbita da una prova canora decisamente esaltante ed esplosiva del vocalist Luca Depaul – Michau, un vero creatore di rabbia urlata al vetriolo. Alla prestazione vocale sopra le righe aggiungiamo anche che Luca canta in lingua madre e questo rende la storia molto intrigante e personale, nel ricordo di grandi band conterranee come FFF o Noir Desir che in ambiti musicali diversi, hanno avuto il coraggio di sostituire il classico inglese con il francese, ottenendo ottimi risultati. La band suona secca e precisa, dominata da riff aggressivi e un drumming tesissimo, per cui tutto il carico del suono è spalmato in brani velocissimi e sempre in tiro, mostrando tutta la loro potenza in composizioni che arrivano al massimo intorno ai quattro minuti. Niente fronzoli e tanta rabbia, da ascoltare e da saltare, con parecchi watt da vendere e quel tocco modernista alla Of Mice & Men che non guasta in una band così giovane, essendosi formata nel 2012. Buona la tecnica di tutto l'ensemble, con poco spazio concesso ad inutili virtuosismi, un'attitudine hardcore, un velato amore per i ritmi alla Slipknot ma anche una propensione all'orecchiabilità, che non vuol dire per forza perdita di coerenza e potenza ma al contrario, così sparsa tra un brano e l'altro, fa in modo che l'album risulti assai trascinante e di facile accesso, in grado cosi di soddisfare anche i più esigenti a riguardo del genere. Si percepisce la voglia di farsi largo tra i tanti progetti esposti in questo campo, spingendo al massimo l'acceleratore su ritmi incalzanti dal sapore metal e dal piglio hardcore, omogenei e pesanti sulla scia di band come August Burns Red, e i già citati Of Mice & Men, qualche nevrosi alla Cursed, anche se non in chiave così sotterranea, e un accenno di folle tecnologia metallica virata verso gli ultimi Fear Factory, che esalta l'impeto di un drumming mozzafiato. Ottima l'apertura affidata a "Les Rois Perdus" o l'incedere lento, teso e futurista di "Luxuria" con le sue sferragliate al veleno che non lasciano il tempo di riprendere fiato (il mio brano preferito) o ancora "Post Mortem" così grooveggiante (in alcune parti di voce pulita immaginate di sentire i geniali Helmet cantati in francese!) e isterica da non riuscire a stare fermi (esplosiva e perfetta per l'headbanging!). Alla fine, la band transalpina con questo album non potrà che ottenere buoni consensi, ed anche al di fuori dei confini nazionali, il cantato in lingua madre potrebbe risultare come una novità e riscuotere un ottimo riscontro di pubblico. Ascoltate e riascoltate senza remore questo album, non ve ne pentirete! (Bob Stoner)

martedì 30 agosto 2016

Vert - Accepting Denial

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Lost Prophets, Incubus
Dall’area di Wolverhampton (UK), nel 2007 saltò fuori quella che sembrava la new sensation del momento, i Vert. Francamente mi trovo di fronte ad una delle tante band che popolavano il mercato discografico in quel periodo, con il conseguente rischio di saturarlo, a causa della loro proposta musicale non del tutto originale. Il quartetto inglese, accostato più volte dai magazine ad Incubus e Lost Prophets, propina un sound energico e robusto fatto di chitarre non troppo pesanti, ma abbastanza veloci, cariche di una certa attitudine punk, che fanno il bello e il cattivo tempo, lungo le 10 tracce di questo 'Accepting Denial', primo e unico full length per la band britannica (nel 2009 lo scioglimento inevitabile). La voce di Steve Braund oscilla tra momenti malinconici ad urla cariche di rabbia. La musica dei nostri, mai troppo cattiva, anzi piuttosto ruffiana, paga dazio, in diversi pezzi, alle band succitate, come pure in alcuni frangenti sono udibili reminiscenze metalcore. Qui trovate dell’easy music che avrà fatto sicuramente la gioia degli amanti di sonorità nu metal/rock. Egregiamente prodotti ai MCC Studios da Andy Giblin (Slipknot, I-Def-I, Kill 2 This), i Vert non fanno altro che svolgere il loro compitino raggiungendo una stringatissima sufficienza, mixando sonorità catchy a vocals da MTV. Il disco non mi ha mai convinto appieno, però non è neppure da stroncare; mi è rimasta solo la curiosità di sapere dove i nostri potevano andare a parare in una successiva produzione. (Francesco Scarci)

martedì 23 agosto 2016

Devon - S/t EP

#PER CHI AMA: Post Rock, Alternative, Red Sparrowes, Deftones
Gli svizzeri Devon si affacciano al mercato attraverso l'instancabile Cold Smoke Records e durante il 2015 rilasciano questo EP dall'omonimo titolo, composto da quattro brani influenzati da post rock, postcore e alternative rock. Il risultato è un suono frastagliato e muscoloso che non affonda sulle usuali dinamiche del post rock ma ne usa solo le atmosfere più rarefatte e intense per incrociarle con quel tipo di attitudine sonora alla Deftones degli ultimi lavori. Il brano d'apertura, dal titolo "Tulsa", con il suo incedere ipnotico e maestoso, mostra subito l'attitudine modernista della band alpina, scodellando una carrellata di riff acidi e psichedelici senza traccianti vintage o stoner, dalla spinta poderosa che ammicca anche al nu metal e a certe sonorità colte volte ai Kinski o agli Arbouretum. "Krash" apre ad una breve traccia dal sapore quasi post grunge, dove compare anche la voce, prima narrante e vissuta, poi sofferente, e sfocia successivamente in un finale carico di rabbia postcore, che unito al modo particolare e potente della band di intendere il post rock, permette al quintetto svizzero di avvicinarsi di molto al concetto sonoro dei conterranei Ogmasun. Sicuramente il tono drammatico, rude e potente in stile Isis/Neurosis del cantato, dona parecchio spessore alla musica della band elvetica, cosa che rende ancora più appetibili i movimenti in chiaroscuro delle composizioni, che nei brani "Ij" e "Tattoo" assumono connotati ben definiti grazie anche a delle chitarre più velatamente romantiche, soniche, sferraglianti e ricche di pathos che aprono ad un finale esplosivo, degno di band prodigiose quali Defeater, Cheatahs e gli immortali Jesu. L'organico sonoro di questo disco non è facile da catalogare, meno potenti dei Neurosis ma sicuramente più dinamici dei languidi e formidabili Mogwai, i Devon sanno anche proporre un hardcore alternativo come quello dei francesi Sofy Major, immaginandoli calati in una cover dei Red Sparrowes, tutto questo in sole quattro tracce ben suonate e di buona qualità. Aspettandoli al traguardo dell'album completo per avere ulteriori conferme su di una band molto preparata e tutta da seguire, gustatevi intanto questi quattro pezzi. (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 70

https://soundcloud.com/cold-smoke-records

lunedì 11 luglio 2016

Vita Museum – Frozen Limbo Zero

#PER CHI AMA: Alternative/Electro Rock/Gothic/Indie
Con un artwork sinistro e alquanto gotico, si presenta egregiamente al pubblico questo quartetto italo-britannico di base a Londra che, formatosi nel recente 2014, senza perdere tanto tempo e cavalcando l'onda della creatività più immediata, nel 2015 ha fatto uscire il suo primo lavoro, distribuito dalla visionaria Sliptrick Records. Stravagante e contraddittorio sono i due termini che potrebbero definire questo 'Frozen Limbo Zero' a cui aggiungerei anche astuto e coraggioso. In realtà la band sa perfettamente dove andare con la propria arte anche se lo fa in tutte le direzioni musicali possibili, pur di farsi notare. Diciamo che al primo ascolto, si rimane leggermente disorientati dal sound del quartetto che non si riesce bene a mettere a fuoco, inquadrandolo in un genere ben definito. Fin da subito però, si ha l'idea di aver a che fare con una musica ricercata, piena di ambiguità e assai creativa. Non è un tabù per questa band parlare di glam rock moderno, in sintonia con i migliori Sixx:A.M., con quel sound carico di pop ma pur sempre legato all'hard rock tossico e malato quanto lo poteva essere Marilyn Manson ai tempi di "Sweet Dreams", irradiato dal nu metal tecnologico dei Linkin Park, da soluzioni elettroniche di certe frange più morbide dell'EBM e del rock trendy dei 30 Seconds to Mars. Un mix di generi rivisitati da un'angolatura spigolosa e alternativa come lo è ad esempio la musica dance punk dei Death From Above 1979. "Somebody to Destroy" è il singolo perfetto corroborato da un video immerso in un'ambigua oscurità che inganna e attrae la vista dell'ascoltatore, una musica pop dal ritornello rock carico di groove che ammicca alla gettonata "Souljacker" degli Eels ma che potrebbe essere un brano dei T-Rex passato tra gli acidi dei Primal Scream di 'Riot City Blues' o tra il rock elettronico dei Manic Street Preachers di 'Futurology'. Il brano "Alive" macina i contesti musicali dei Paradise Lost, epoca 'One Second', in una veste elettro wave alla IAMX, scatenando la mia incomprensione, ma facendosi comunque apprezzare per il gusto e le qualità non superficiali con cui la band si dedica a brani radiofonici, creando delle vere hit da classifica. "Leave Me" delizia con ricordi semiacustici del rock da incubo del buon vecchio Manson, cosi come la seguente "Never Be the Same", anche se qui manca il peso della sua perversione e i Vita Museum finiscono per assomigliare a degli Stone Temple Pilots ultimo periodo, filtrati da un effetto pregevole stile radiolina anni sessanta, quello della partita della domenica pomeriggio per intenderci. Da qui il sound si fa sempre più sintetico e la rarefatta malinconia di "Alone", introduce la triste cadenza alternativa di "Another Time, Another You". A cavallo tra svariati generi e sfacciatamente senza remore verso i puristi del rock, i Vita Museum sfoderano dodici brani tutti da cantare a squarciagola, contribuendo alla contaminazione del rock a tutto tondo. Incuranti delle etichette e apertamente predisposti allo star system più scandaloso e glamour, i Vita Museum scardinano i canoni del classic rock e del metal, abbracciando indie ed elettronica di varia natura, addirittura il pop nella sua forma migliore, dando vita ad un album intelligente e motivato, anticonformista (non certo innovativo) ma sicuramente personale e curato. Da ascoltare e gustare a più non posso. (Bob Stoner)

domenica 3 luglio 2016

Ragin' Madness - Anatomy Of A Freaky Party

#PER CHI AMA: Southern Hard Rock
Farsi rapire da una band al loro primo live senza averli mai sentiti, non è una cosa scontata, ma per i Ragin' Madness (RM) è stato sin troppo semplice. Ma andiamo con ordine. Il quintetto nasce nelle terre padovane attorno al 2014 e raccoglie musicisti che hanno militato in varie band della zona. I RM si buttano a capofitto nella composizione di brani propri e dopo neppure un anno, danno alla luce il loro EP di debutto. Visto che il feeling era tanto e il riscontro del pubblico è stato immediato, in poco tempo arriva anche il full length 'Anatomy Of A Freaky Party', quattordici brani di ottimo hard rock misto ad un southern/metal che rappresentano appieno il modo di essere della band. Infatti, durante il loro concerto all'Isola Rock Winter Edition 2016, complice anche la location, il live set dei nostri ha letteralmente infuocato il pubblico, soprattutto grazie alla loro presenza scenica su di un palco parecchio figo. L'energia scorre a fiumi quando sono on stage, in parte grazie alla vocalist che sembra una scheggia impazzita, salta e balla come non ci fosse un domani, ma anche il resto della band non è certo da meno. Ma parliamo della loro musica, altrimenti rischio di fare un live report piuttosto che una recensione. Il CD apre con "The Guys are in Da Club", un pezzone classic hard rock con le chitarre solide e pregne di groove, e una batteria che conduce con linearità, ma si tratta puramente di una questione stilistica. Fin da subito spicca la gran voce della cantante, Giulia Rubino, dotata di una timbrica potente e modulata che certe colleghe si sognano solo di notte. Cosciente di questo, la cantante gioca letteralmente con i vocalizzi e le linee melodiche, facendo capire che ritmiche veloci sono il suo pane quotidiano. Le due chitarre se la spassano come due compagni di giochi che condividono una giornata insieme, il tutto condito da un basso pulsante e arrogante quanto basta. Un perfetto equilibrio di carezze e schiaffoni, ecco come potrei riassumere questi duecento secondi di rock, un'alternanza di melodie e ritmiche facilmente individuabile, la colonna sonora perfetta per una personalità bipolare. "Never Say no to Manta" la ricordo chiaramente durante il live, in quanto la band ha inscenato una sorta di siparietto dove appunto Manta (il bassista) veniva adorato per placare la sua collera. Un'altra calvacata rock dove basso (5 o 6 corde, non ricordo) in compagnia del bravissimo batterista, hanno srotolato BPM come se i cavalieri dell'apocalisse avessero finalmente dato fiato alle trombe. Di pari livello i due chitarristi che si alternano tra sezioni ritmiche e assoli degni del buon vecchio Slash. "Down in the Hole" è una song fortemente nu metal che vede la collaborazione di un secondo vocalist che duetta alla grande con la nostra beniamina, il tutto sempre condito dall'autoironia dei RM che avrete ben modo di apprezzare ben presto. L'intervento del sax sdogana un altro strumento non propriamente rock, anche se band come gli Shining (norvegesi) ne hanno fatto il simbolo della propria musica. Parecchi altri pezzi sono inclusi in questo 'Anatomy Of A Freaky Party', tutti veloci e potenti, tranne "We Can be Heroes", una straziante ballad ove pianoforte e voce, duettano come fossero un'unica entità. Questo a dimostrare che la band si diverte un sacco, ma sa anche concedersi i giusti momenti di raccoglimento ed introspezione. Bell'album, forse non sarà una produzione che brilla in fatto di sperimentazione e creatività, ma qui abbiamo cinque musicisti di alto livello che hanno sicuramente capito che il pubblico vuole sia un bello spettacolo che della gran musica, senza tralasciare il puro divertimento rilasciato dai Ragin' Madness. E noi non possiamo far altro che apprezzare e portare a casa. (Michele Montanari)

mercoledì 29 giugno 2016

Everything Behind - Man From Elsewhere

#PER CHI AMA: Metalcore/Alternative
Il metalcore è un genere tosto. L'ho dato per morto una miriade di volte in quanto svuotato da ogni tipo di significato poichè consumato, usurato, esaurito in fatto di contenuti. Eppure, ogni volta si rialza, si reinventa e ha sempre modo di proporre una variazione al genere, magari contaminandolo con altre sonorità. Un plauso va quindi ai francesi Everything Behind che nel loro 6-track, sono riusciti a buttare dentro alla loro proposta metalcore, un qualcosa di hardcore, un pizzico di heavy metal, una spruzzata di rock e addirittura una glassa di elettronica (e "Welcome to the End" ne è un bell'esempio e anche la mia traccia preferita). Il risultato è questo dischetto intitolato 'Man From Elsewhere', uscito a dicembre 2015 che tra lo scetticismo generale, compreso quello del sottoscritto, è riuscito a sorprendermi non poco. Chiaramente, come detto più volte, c'è ben poco da inventare in questo ambito, ma forse è un discorso che potrebbe essere esteso a tutto il metal in generale. Tornando agli Everything Behind, l'alternanza tra i classici riffoni sincopati, qualche break math o qualche accenno alternative, nonchè la buona prova del vocalist soprattutto a livello di clean vocals, mi fanno considerare questo lavoro un buon lavoro. Per carità, talvolta suonerà ruffiano, inutile nasconderlo, perchè anche voi percepirete in "Will You Let Love" un po' di quella puzza Nu Metal, però 'Man From Elsewhere', nel proseguio del mio ascolto, continua ad essere sempre più piacevole e addirittura imprevedibile. Onirico nella strumentale "13.11.15", feroce e un po' più banale in "Reborn", una traccia che tuttavia vive di saliscendi ritmici e che, nel su spettrale finale, ci introduce alla title track. Quest'ultima song rappresenta un po' la summa di quanto ascoltato fin qui nei 30 minuti di questo secondo lavoro firmato dalla band parigina. C'è sicuramente ancora da lavorare per identificare una propria identità ben definita, smussare gli spigoli e le banalità in cui facilmente l'act transalpino cade per inesperienza (come ad esempio una orribile cover cd); malgrado questo le potenzialità sono assai elevate. Li aspetto al varco, attenzione a non deluderci con il prossimo passo... (Francesco Scarci)

mercoledì 13 aprile 2016

Demons of Old Metal - Dominion

#PER CHI AMA: Thrash/Heavy/Nu, Pantera, Slipknot, GWAR
Una macabra intro in stile King Diamond, apre il nuovo album dei britannici Demons of Old Metal, band grottesca nel look (in stile GWAR, tanto per intenderci) ormai in giro dal 2010, che con 'Dominion' giunge al traguardo della quarta uscita discografica. 'Dominion' è un disco di heavy metal corrotto, che nei suoi 11 pezzi vanta richiami a varie band del più recente passato. Le danze si aprono con il martellare grooveggiante di "Fakesin", una song che sembra miscelare il mosh di Exodus e Pantera con il Numetal degli Slipknot e sonorità un po' più classiche a la Megadeth e Anthrax. La ritmica arrembante non lascia scampo e l'assolo conclusivo rende più appetibile un brano che vivacchia nel limbo del "già sentito". Un bel riffone contaminato (una costante per il disco), accompagnato dalle vocals altrettanto sporche di Tombstone Cowboy, ci guida in "You Version 2.0", altra song che preferisco ricordare più per l'aspetto solistico che per quello ritmico, troppo tributante a Slipknot e a tutti coloro che cercano di donare un aspetto tribale al proprio sound. "Dance of the Damned", 'la Danza dei Dannati", probabilmente si addice con la filosofia del nostro sito, tuttavia un riffing troppo sincopato con flares elettro-industriali, lo rendono poco affine ai miei gusti. Chi invece ama sonorità rabbiose e al tempo stesso ruffiane, avrà di che divertirsi con questo pezzo. Si rimane nei meandri della contaminazione pesante con "Open Wide and Scream", un brano che sebbene un cantato "alternative", mi piace per quel suo intrigante e malsano feeling di fondo. Con "The Quiet Ones" solchiamo i territori di un rock oscuro e malmostoso, che se non fosse per quel vocalist che fatico a digerire, risulterebbe come mia song preferita, soprattutto per la thrashettona ritmica infernale che si scatena nella sua seconda parte. Non male, ma questo cd poteva essere affine ai miei gusti 20 anni fa, per questo genere non c'è più spazio nella mia collezione. Qualche altro brano interessante in 'Dominion' c'è ancora: la "panterosa" "Behind the Mask" ad esempio, però a non convincermi è la solita timbrica del vocalist. "The Star of Your Nightmare" è una traccia dove mal si adatta l'utilizzo delle tastiere in background e dove le chitarre sono forse un po' troppo leggerine e si riprendono solo nella fase solistica. Il disco volge al termine con "See How They Die" e "Get Outa Dodge", in cui  il quintetto britannico continua con un sound carico di groove, scomodando i System of a Down nella prima traccia e offrendo un'inutile forma di heavy southern rock'n'roll nella seconda. 'Dominion' alla fine è un lavoro che vive tra le ombre di un passato che fu e di un presente a cui nessuno sembra più essere interessato. Rinnovarsi please. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 60

venerdì 25 marzo 2016

Evenline - Dear Morpheus

#PER CHI AMA: Alternative/Nu Metal, System of a Down, Alter Bridge
L’invocazione all’onirico è chiara nel nome del disco ma in realtà, oltre ai sogni, gli Evenline hanno una forte componente emozionale che è descritta in modo lucido, teatrale ed espressivo. La formazione parigina è composta da quattro elementi, voce chitarra basso e batteria, in attività dal 2009 e con alle spalle l’autoprodotto EP del 2010, 'The Coming of Life'. 'Dear Morpheus' esce nel 2014 ma quello che ascoltiamo oggi è la versione Deluxe che presenta, oltre ad un cd aggiuntivo, una copertina nera con un simbolo simmetrico dal sapore vagamente esoterico, che alla vista risulta elegante ed essenziale. La stessa cosa non si può dire a proposito della cover originale nella quale vi era un richiamo alla stanza, del film Matrix, ove Morpheus offre a Neo la scelta tra rimanere addormentato e venir catapultato in una realtà che molto probabilmente non sarà di suo gusto. Ora se il riferimento è effettivamente al film, è un buono spunto per chiedersi che pillola sceglieremo noi se ci venisse offerta la cover originale che somiglia piuttosto allo studio di un telegiornale. Ma ora è il momento di affidarsi totalmente al tasto play e lasciar andare i sensi. La musica inizia con il suono di un carosello antico, riesco quasi a vedere la ballerina giocattolo senza un occhio e con la gonna mezza staccata che gira mestamente. D'un tratto un assalto crossover mi risveglia dal sogno e mi trasporta all’esasperato e toccante ritornello di “Misunderstood”. A sentire le chitarre mi vengono in mente i Korn e i System of a Down, suoni propri del nu metal che contrastano in modo piacevole con le linee vocali di Arnaud, anche se spesso le melodie si avvicinano più alle linee degli Alter Bridge e Staind. Da sentire almeno una volta è la title track dove Arnaud dà prova della malinconica e decadente espressività della sue linee vocali. L’apice del brano tuttavia è raggiunto nella disperata invocazione di un qualcosa che sia in grado di liberare l’anima dal dolore, concretizzato nel verso “Purge my soul from this growing pain”. Questa breve parentesi tocca alte vette di piacere, una mitragliata di fango, liberatoria come nessun'altra nel disco. Il brano fa riferimenti alla natura e in particolare all'acqua ma anche ai ricordi, si percepisce un’aria di melanconia cupa e romantica, forse il sentimento che ha dato origine e che più è descritto in 'Dear Morpheus'. I testi sono una parte importante dell'opera che denota una forte predisposizione al cantautorato, con la voce chiara e molto presente per l'intera lunghezza del disco. Le immagini che le parole ci regalano sono eterogenee e non sempre collegate tra loro. A volte si sente che la lingua utilizzata nel cd non corrisponde a quella con cui sono stati pensati i testi: lo si può intuire dalla sintassi e dalla pronuncia che, seppur molto buona, lascia trasparire la bandiera dei quattro musicisti transalpini. Veniamo ora al secondo cd di questa Deluxe Edition che reca il titolo 'In the Arms of Morpheus'. Si tratta di una raccolta di canzoni presenti nella versione studio ma qui suonate dal vivo in un set acustico. Il primo impatto è che i pezzi in questa dimensione trovino una forma che meglio si addice rispetto all’elettrica. I testi hanno modo di stendersi e rendere le immagini in essi contenute più libere di prendere forma nella mente dell’ascoltatore. In particolare la versione acustica di “Hard to Breathe” è quasi più riuscita della versione elettrica: si tratta di un blues diabolico con un ritornello cristallino e lucente, trademark a cui gli Evenline ci hanno abituato. Nel set acustico, anche il basso suonato in slap e la batteria leggermente più tappata rispetto all’elettrico, riescono a sostenere i pezzi in modo da conservare quella spinta rock che li ha generati, ma allo stesso tempo non vanno a invadere i testi e le melodie; qui l’equilibrio viene sicuramente raggiunto. La chiusura del disco è affidata a “Already Gone”, voce e piano, un commiato da accendino acceso, lacrime e cuore infranto. Pare che qualcuno sia stato lasciato e che non riesca ad accettare la vita senza la sua metà. Triste si, ma non mi faccio troppo coinvolgere dalla malinconia, sono sicuro che grazie a questo pezzo Arnaud non avrà nessun problema a trovare un'altra ragazza! (Matteo Baldi)

(Dooweet - 2015)
Voto: 75

martedì 9 febbraio 2016

Vinnie Jonez Band - Supernothing

#PER CHI AMA: Stoner/Post Rock/Heavy
La via dello stoner continua ad abbracciare nuovi proseliti e altre band si aggiungono al già nutrito stuolo nazionale e non. I Vinnie Jonez Band (VJB) sono un quartetto romano (Palestrina per la precisione) nati dalle ceneri di band locali, che nel corso del 2015 hanno fondato la band e registrato questo EP. Cinque brani per raccontare la loro storia che si ispira a mostri sacri come Queens of the Stone Age, Mastodon, Deftones, ma anche a Mogwai, God is an Astronaut, Karma to Burn e Tool, con il mix che ne esce alquanto variopinto. A livello compositivo i ragazzi ci sanno fare, giocando spesso su cambi di ritmica, riff potenti e break che mantengono abbastanza alto il livello di attenzione dell'ascoltatore. Dico abbastanza perché spesso alcuni arrangiamenti sono frettolosi e il livello di qualità risulta scostante, una cura maggiore avrebbe sicuramente alzato il tiro e regalato un EP degno di nota. "Rose" ha la responsabilità di essere la prima traccia e porta con sè quanto detto fino ad ora. Il sound ricorda il grunge e l'alternative rock con un'attitudine punk, un mix che può convincere se sviluppato con cognizione, in realtà nei centocinquanta secondi il quartetto mette troppa carne al fuoco, come quell'assolo tipicamente heavy finale. Dopo questo turbinio un po' confuso passiamo a "To the Mountains" che ha un forte sapore Southern rock, che poi si appesantisce con sfumature metal e ritorna all'alternative sentito in precedenza. Il vocalist affronta la sfida, cerca di superare i propri limiti, l'esito è poco convincente. Gli strumentisti sono invece all'altezza anche se si sente la mancanza di un leader che mantenga le fila della composizione musicale in sede di scrittura. Il finale del dischetto conclude invece alla grande e fa dimenticare le precedenti incertezze. "Bleach" è la cavalcata finale che sale e scende, scorre fluida e si fa ascoltare con piacere con una chiusura prog/nu metal che stuzzica l'orecchio e conferma che i VJB hanno le capacità per fare buone cose, ma devono maturare una maggiore coscienza in se stessi che gli permetta il salto di qualità a cui sembrano mirare e che possono meritare. Ultima nota per la qualità audio dell'EP, discreta, non sacrifica né esalta le doti della band; piacevole anche la copertina che mostra uno stralcio del satellite lunare in un gradiente di giallo un po' vintage. Ora attendiamo fiduciosi il full length. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 65