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lunedì 15 gennaio 2024

Il Fiume - Brucia

#PER CHI AMA: Grunge/Indie
Diavolo, non la cosa più semplice da recensire da parte del sottoscritto. Quello de Il Fiume è infatti una versione italiana del grunge sporco e incazzato di primi anni '90. Ascoltando "Ancora", la traccia d'apertura di 'Brucia', ho sentito infatti forti influenze provenienti da 'Bleach', senza trascurare tuttavia un'aura malinconica che sembrerebbe derivare dai primi Smashing Pumpkins. Mi dovrà scusare la band se il mio background musicale in questo ambito non sia cosi esteso, e conosca solo i capisaldi del genere, ma quei mostri sacri che hanno scritto un'epoca, li ritrovo nello scorrere di queste sette tracce. Qualcosa di simile anche nella seconda song, la title track, in cui ancora l'eco di Kurt Kobain e soci, periodo 'Nevermind', si palesa nel refrain delle chitarre e in un cantato in italiano che ben ci sta in questo contesto indie-grunge rock. Graffianti le linee di chitarra di "Frustrazione", che mostra suoni più sghembi e distorti rispetto ai precedenti, ma la brevità dei prezzi, la linearità delle melodie, il cantato nella nostra lingua madre, rende comunque facilmente fruibile (e apprezzabile) l'ascolto di 'Brucia'. Certo, non siamo davanti a chissà quale capolavoro artistico, ma il disco de Il Fiume si lascia piacevolmente apprezzare in tutti i suoi brevi e immediati brani, di cui sottolineerei ancora la psichedelia di "Karma Armonico" e la robustezza ritmica di "Ne Porto il Ricordo", che ammicca, con i suoi suoni nudi e crudi, ad un mix tra punk e hardcore. A chiudere l'EP, la più intimista e straziante "Qualcosa" che delinea a tutto tondo la proposta musicale de Il Fiume. (Francesco Scarci)

mercoledì 27 settembre 2023

Three Fish - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grunge/Alternative
La balattonza-da-cucchiaino-in-mano "Solitude" in apertura (ma anche la riverbero-crepuscolare "Strangers in My Head" più avanti), senz'altro reminescente di certi intimismi psicotropi collocabili dalle parti dello Staley (stra)rarefatto dei Mad Season (ma là c'era Micino McCready au lieu di GeiGei Ament) prelude a una divagante e jammosa session di grunge funky (il cosiddetto grunk) composta da ben diciotto fottutissime canzoni (più o meno) agilmente reinterpretanti certi stilemi consolidati, perlomeno in quegli anni, perlomeno da quelle parti. Efficaci "vedderate" ("Laced" o la into-the-riverberante "Zagreb"), efferati muretti garden-sonori ("All Messed Up" e "Silence at the Bottom"), qualche strappetto fuzzy-indie d'ordinanza ("Song for a Dead Girl", la dainosour-grattugiosa "Secret Place") sono numerosi esempi di quel suono tanto ampio quanto inquieto che individuate a badilate nel coevo 'No Code' ("Here in the Darkness" o "Build"). Se potete sopportare la fesseria sufi dei tre pesci, orgogliosamente recitata da GeiGei in tre, dico tre, distinti momenti, il (ri)ascolto dell'album a quasi trent'anni dalla sua pubblicazione, vi risulterà strusciante e confortevole più o meno quanto un paio di mutande di flanella. (Alberto Calorosi)

domenica 15 gennaio 2023

Madness at Home - Shoelace

#PER CHI AMA: Grunge/Hardcore
L'ascolto di 'Shoelace' dei nostrani Madness at Home, è stato per me un salto indietro nel tempo di oltre trent'anni: tra influenze legate ai primi Nirvana e in generale al sound ruvido e sporco del grunge, sin dall'iniziale "Blue Dye Suicide" capisco come la band romana, nata nel 2019, sia stata abile nel rileggere le dottrine che affondano le proprie radici nell'hardcore. Dicevo dell'opener "Blue Dye Suicide" che mi ha evocato inequivocabilmente 'Bleach' della band di Kurt Kobain e soci. Andando avanti nell'ascolto del disco vengono poi fuori tutte le influenze del terzetto della capitale: nel singolo apripista "Waste", caustico, oscuro e incisivo quanto basta, ecco lo spettro dei Jesus Lizard, mentre nella successiva "Wet Room", emergono influssi punk/hardcore che puntano il dito verso l'ondata British di fine anni '70, sporcata comunque da un alone noise che rende il tutto decisamente interessante. "Bench" picchia che è un piacere, tra l'asprezza del grunge più ribelle, parti più atmosferiche, altre più hard rock oriented ed infine, una voce che si confermerà, dall'inizio alla fine dell'album, davvero convincente. Devo ammettere che quella dei Madness at Home è stata una piacevole sorpresa, per quanto io abbia abbandonato queste sonorità da un paio di decenni almeno. I nostri però sanno il fatto loro e, cogliendo anche qualche spunto dalla famiglia Tool/A Perfect Circle, si confermano bravi e capaci nell'accompagnarci nella loro personale rilettura di un viaggio per lo più sporco ed abrasivo ("Grillo"), ma che a tratti saprà essere anche psichedelico e decisamente malinconico ("Cathartic Fabric" e "Pater, Mate"). Laceranti. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 72

lunedì 22 marzo 2021

Squeamish Factory - Plastic Shadow Glory

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Stoner/Grunge
Riff grintosi e melodie accattivanti. Evidenti richiami a mostri sacri del rock pesante conditi con sperimentazioni sonore e spunti personali. Il secondo album degli Squeamish Factory è un interessante tavolozza di colori diversi, nonché una prova del buon percorso di maturazione della band. Il loro alternative rock, che si mantiene fieramente vicino al grunge degli Alice In Chains e allo stoner dei primi Queens of the Stone Age, ben si presta per una critica sociale come quella presentata in questo 'Plastic Shadow Glory', rilasciato lo scorso novembre per Overdub Recordings. Si parla infatti di alienazione, della doppiezza e dell’ipocrisia che sembrano essere diventate caratteristiche necessarie per avere successo nella vita e che condizionano ogni aspetto della nostra cultura. Su questa base, gli Squeamish Factory confezionano una bella serie di schiaffoni da distribuire a tutti i responsabili di questo degrado morale: pezzi come “Humandrome” e “Burn” sono schiacciasassi che uniscono la potenza dei Kyuss alle sferzate nu-metal dei Deftones, “Mirror Gaze” e “Suspended” esplorano territori più atmosferici giocando su passaggi psichedelici ed eco post-punk, mentre il grunge dei maestri Alice In Chains riceve un doveroso tributo in “Snufftshell”. Al di là delle distorsioni dispensate a piene mani, 'Plastic Shadow Glory' rimane un album ammantato da un sentimento di malinconia, come se alla rabbia provata dal quartetto nell’assistere impotenti al triste spettacolo offerto dalla nostra società, subentrasse la frustrazione: per quanto piene di energia positiva, purtroppo queste nove canzoni non basteranno per invertire questa triste tendenza. (Shadowsofthesun)

domenica 25 ottobre 2020

Watertank - Silent Running

#PER CHI AMA: Stoner/Shoegaze/Grunge, Torche, Quicksand
Se il nome della band a molti dirà poco, l’artwork (una specie di larva lovecraftiana che galleggia in mezzo all’etere) rivela ancora meno del contenuto di questo 'Silent Running'. Mi sembra chiaro che i Watertank da Nantes si trovino maggiormente a proprio agio imbracciando le chitarre e mostrando tutto il loro potenziale dal vivo, piuttosto che nell’attività di promozione. Sì, perché chi avrà il coraggio di andare oltre la copertina poco accattivante e addentrarsi nell’ascolto di questi dieci pezzi tiratissimi si renderà ben presto conto che la proposta di questo gruppo, ennesima freccia scoccata dall’arco dell’etichetta transalpina Atypeek Music, è di assoluto valore.

I primi brani "Envision" e "Suffogaze" ci presentano riffoni pesanti e ritmiche frastagliate, solide fondamenta sulle quali i Watertank costruiscono impalcature sonore fortemente melodiche, nelle quali trovano spazio elementi noise-rock, shoegaze e persino incursioni nel pop più intelligente. In queste trame, dove versi onirici e rilassati si alternano a ritornelli abrasivi, non è difficile cogliere l’influenza - talvolta fin troppo marcata - dei ben più noti Torche, oltre che ad un’infarinatura di Helmet, Quicksand e Foo Fighters. È soprattutto il cantato di Thomas Boutet a fare da collante nelle transizioni tra cavalcate impetuose e momenti più rilassati, la cui convincente interpretazione, mai sopra le righe, ma puntuale nel seguire ogni evoluzione dinamica della componente strumentale, offre all’ascoltatore un punto di riferimento costante.

Le canzoni godono di un approccio estremamente diretto e di una durata contenuta che limita divagazioni superlfue a quello che sembra essere l’obiettivo della band, ossia confezionare un lavoro di facile fruizione e allo stesso tempo mai banale. È quindi difficile non venire contagiati dai rimbalzi ritmici di "Burning World" e dai ritornelli energici della title-track, benché inevitabilmente il disco paghi dazio a livello di personalità. È anche vero che convincere il pubblico ad ascoltare un disco di sano rock underground stia diventando sempre più difficile e, in quest’ottica, la formula dei Watertank potrebbe rivelarsi vincente. (Shadowsofthesun)


sabato 22 febbraio 2020

Dos Cabrones - Accanimento Terapeutico

#PER CHI AMA: Stoner/Grunge Strumentale, Melvins
Ok, a parlarci chiaro ci si capisce meglio, utilizzando perfino le immagini ed i suoni di questo duo bolognese di sola chitarra e batteria che si definisce mescaline noise grunge, che ha un teaser video di presentazione pieno di scene forti, teschi, denti e quant'altro, che mostra un artwork di copertina con un prevedibile caprone dal tono satanico ma che con una strizzatina satirica ti sbandiera in faccia un titolo pesante e duro come 'Accanimento Terapeutico'. L'immagine della band attrae i fans dei Melvins più viscerali e a pensarci bene, questa manciata di tracce completamente strumentali, tranne qualche inserto sporadico di voci filmiche o rumori (molto belli peraltro), riecheggiano un che dei fasti migliori dei Karma to Burn e qualcosa pure dei primi due album dei 35007, nel modo di costruire quelle ritmiche circolari e trascinanti. Non mi trovo d'accordo con l'accostamento agli Helmets e mi piace quando nel terzo brano, "Cabron!" i Dos Cabrones si aprono ad un punk alternativo più scanzonato, sempre influenzato dal grunge e perchè no, da certo stoner rock, quello rimbalzante e meno fumoso. Tante belle idee che però, pur rimanendo interessanti, si manifestano a mio avviso solo a metà e avrebbero anche più possibilità se la band avesse un organico più ampio, con un basso e soprattutto una voce che darebbe al tutto molto più risalto. Comunque al netto della mia impressione, il disco è piacevole e diretto, a suo modo anche sofisticato nel riprendere il filo di musiche di confine, trattandosi di Shellac o Unsane, certamente ben realizzato e studiato a puntino, anche se, scusate se insisto, in "Hell of a Trip", mi mancano proprio un basso pulsante che ci starebbe divinamente sulle esplosioni di batteria e chitarra, ed una voce sulle parti più, diciamo, silenziose. Uscito per la DeAmbula Records, questo album si ricopre del fregio di album di nicchia, per amanti dei trend rock più sotterranei e sperimentali, coscienti del fatto che pur essendo oggettivamente piacevole all'ascolto, risulterà difficile l'apprezzamento totale del grande pubblico. Ben prodotto, con suoni azzeccati e caldi, l'approccio sperimentale e rumoroso sempre dietro l'angolo, una buona esecuzione per sei brani di media lunghezza di per sè molto ruvidi e sanguigni, polverosi e roventi. Una manciata di pezzi che faranno la gioia del pubblico più impavido e aperto ad altre, alternative, personali visioni del mondo rock. Un buon debutto per i "due caproni", scontroso e quanto mai coraggioso, un disco tutto da scoprire! (Bob Stoner)

(DeAmbula Records - 2019)
Voto:70

https://doscabrones.bandcamp.com/releases

domenica 2 febbraio 2020

Yatra – Behind The Great Disguise

#PER CHI AMA: Prog/Alternative Rock/Grunge
Viaggiare, esplorare, affrontare l’ignoto: una delle più antiche pulsioni dell’uomo, che ne ha plasmato l’evoluzione e che lo ha spinto a cercare costantemente nuovi traguardi. Ci troviamo però in un’epoca dove anche questa esperienza può essere comodamente soddisfatta con pochi clic del nostro, semplici gesti che bastano ad aprirci le porte delle destinazioni più esotiche, al punto che una foto scattata a Singapore o a Vancouver potrebbe non suscitare più entusiasmo di una vecchia cartolina da Alassio o Milano Marittima.

La nostra società sempre più dedita all’edonismo si è appropriata anche di questa esperienza, trasformandola da occasione di crescita interiore (tramite il superamento di difficoltà e il confronto con ciò che è estraneo) a mera occasione per collezionare souvenir e selfie, e forse è stata proprio questa riflessione ad aver ispirato il nome degli Yatra, parola sanscrita che indica il viaggio nella sua accezione più spirituale, vale a dire di “pellegrinaggio”. È infatti un percorso mutevole e impegnativo quello intrapreso dalla band emiliana, attiva solamente dal 2017 ma in grado di ritagliarsi in poco tempo una buona visibilità, un cammino che li vede esplorare territori musicali variegati e al tempo stesso maturare giudizi critici sul materialismo che domina le nostre vite, aspetti che contraddistinguono il loro primo full-length 'Behind the Great Disguise'.

Si tratta di un album squisitamente rock, definizione che potrebbe risultare ambigua considerato l’universo che si cela dietro questa etichetta, ma che ben riassume il contenuto di questi otto pezzi, nei quali il quintetto saggia le diverse inclinazioni del genere: la durezza del grunge e la raffinatezza del progressive-rock, suggestioni shoegaze alternate a poderose deflagrazioni metal-oriented.

L’opera è caratterizzata dalla continua alternanza di brani ad alto dosaggio di gain come “Unworthy” e “Awakening”, dominate dai riff distorti delle chitarre e da percussioni martellanti, e i momenti più intimi riscontrabili in “Ego Illusion” e “Struggle”, dove prevalgono cascate di arpeggi e ritmiche più ragionate, quasi a voler rappresentare con questo roller coaster di intensità un cammino aspro, pieno di ostacoli e momenti di riflessione sul mondo che ci circonda (come nella title-track, in cui viene stigmatizzata l’importanza dell’apparenza nella nostra società). Filo di Arianna che ci guida attraverso questa giungla sonora è senza dubbio la voce di Denise Pellacani, la cui carismatica prova al microfono è da lodare per la capacità di esprimersi al massimo nei contesti più disparati.

La formula proposta dagli Yatra, bisogna ammetterlo, non è particolarmente innovativa, così come la varietà di soluzioni sviscerata nei poco meno di quaranta minuti di 'Behind the Great Disguise' può rappresentare sia un elemento di forza che di debolezza: se da un lato strizza l’occhio ad una platea più ampia (obiettivo che, in questi tempi di magra per i musicisti underground, non è criticabile), dall’altro dà l’impressione che la band per il momento sia più focalizzata sul “viaggio” che sulla destinazione, ossia un equilibrio tra le varie spinte stilistiche (che per altro fa capolino in “Reborn, Rebuilt”, non a caso il pezzo più convincente del disco) su cui sviluppare un sound più personale.

L’esordio ad ogni modo è positivo e mette in mostra tutte le doti del gruppo: gli Yatra hanno tecnica, grinta e soprattutto un cammino ancora lungo di fronte a loro, pertanto vedremo in futuro quali strade decideranno di intraprendere. (Shadowsofthesun)

((R)esisto Distribuzione - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/yatradoom/

domenica 13 ottobre 2019

Vixa - Tutto a Posto

#PER CHI AMA: Crossover/Rapcore
Scrivo Vixa ma va letto vipera, sarà fatto e mi adeguo. 'Tutto a Posto' è l'album d'esordio di questo quartetto ferrarese che ammetto non incontrare proprio i miei gusti musicali, ma cercherò di essere quanto mai oggettivo nell'analisi del presente lavoro. Si parte col noise rock introduttivo di "Sbaglio da Me", una song che per almeno il primo minuto mi lascia ben sperare tra ritmiche cibernetiche ed un riffing compatto; quello che temevo era il cantato in italiano e le mie paure si tramutano in dura realtà, difficile da digerire perchè è il classico modo di fare degli artisti italiani che affidano interamente la scena al vocalist (non proprio un maestro nel canto), relegando in secondo piano gli altri strumenti, ma perchè? Molto meglio infatti la seconda parte del brano, quando voce e ritmica vanno a braccetto, anche se la performance vocale di Alen Accorsi lascia un pochino a desiderare. Ancora un buon inizio con "Borderline", tra l'altro il singolo apripista del quartetto, che si qui lancia in una commistione sonora tra crossover, rapcore e un roccioso rock, quasi un mix tra Rage Against the Machine, Faith No More ed IN.SI.DIA, il tutto condito da un colorito utilizzo delle liriche a base di "vaffanculo vari". Decisamente un passo in avanti rispetto all'opener. Con "Immobile", la sensazione, per lo meno iniziale, è di apprestarsi all'ascolto di un brano grunge, in realtà poi è un'alternanza ritmica adombrata a tratti, ancora dalla voce del frontman. E dire che la song si muove piacevolmente su coordinate stilistiche che evocano un che dei Deftones, ma ci sono ancora un po' di cosine da aggiustare, perchè la strada sembrerebbe quella giusta, soprattutto quando la performance vocale si amalgama in modo ottimale con gli altri strumenti. "Veleno (parte 1)" è un massiccio pezzo strumentale che si chiude con una sorta di parodia rap. "Riserva di Calma" è un altro brano che combina rap e rock, che forse poteva anche andare alle selezioni di X-Factor, pur di evitare di cadere tra le mie grinfie e dire che comunque a livello di testi, i Vixa sono anche interessanti (e socialmente attivi). "Veleno (parte 2)" è un brevissimo intermezzo che ci porta a "Illuso", il pezzo più oscuro del lotto soprattutto a metà brano dove c'è un bel rallentamento atmosferico e degli ottimi suoni, tra stoner e space rock, decisamente il mio pezzo preferito e anche quello più convincente, soprattutto per l'uso di voce e keys. "Lavoro di Stomaco" sembra aprire sulle note di uno dei primi pezzi dei Metallica per placarsi immediatamente e affidare lo stage ad Alen in un'evoluzione litfibiana del brano di cui sottolinerei il chorus, graffiante e accattivante quanto basta. A chiudere il disco ecco la nevrotica title track, schizoide nella sua natura ritmica e rapper nel cantato, infine detonante nella sua magnetica conclusione. Un lavoro per quanto mi riguarda interessante, che con qualche aggiustamento in più, potrebbe conquistare anche la fiducia di chi come me, non ama queste sonorità. (Francesco Scarci)

((R)esisto - 2019)
Voto: 67

sabato 12 ottobre 2019

Acid Brains - As Soon as Possible

#PER CHI AMA: Grunge/Punk Rock
Gli Acid Brains sono una storica band toscana, formatasi addirittura nel 1997 e dedita ad un alternative-punk rock, che torna a farsi largo sulla scena con questo nuovo sesto album dal titolo ben chiaro, 'As Soon as Possible'. Appena possibile quindi date un ascolto a questo lavoro che si muove dall'ipnotica opening track, "Our Future", giocata su profonde partiture di basso e voce, a cui segue una bella e potente linea di chitarra. Con "Go Back to Sleep", le carte sul tavolo si sparigliano e si torna a parlare di un classico punk rock, orecchiabile e canticchiabile quanto basta per farci venire voglia di saltare e urlare come pazzi, proprio come lo sguaiato urlo che il frontman riversa verso la fine del pezzo, mentre le ritmiche corrono arrembanti e ci conducono con furia a "Sinners". Il motivetto di chitarra e voce iniziali entrano nella testa e da li non se ne escono grazie a quella graziata ritmica che contraddistingue la song. Suoni leggeri che sfiorano addirittura la psichedelia in "Really Scared", un pezzo che mostra un'apertura quasi di scuola floydiana, prima che la song s'incanali in una linea melodica più lineare rispetto alle precedenti, sicuramente più seriosa e meno scanzonata, quasi a dire che gli Acid Brains vanno presi sul serio. Ma l'eterogeneità è parte del DNA dei nostri e allora in "Not Anymore", eccoli proporre un sound decisamente più roccioso e grunge oriented (penso ai Nirvana più rozzi e cattivi), e non a caso questa sarà anche la mia song preferita del lotto. C'è tempo ancora per un paio di canzoni cantate questa volta in italiano, "Capirai" e "Canzone di Settembre": la prima, nonostante il riffing bello compatto che chiama in causa i System of a Down, perde potenza quando si palesa il cantato in italiano. La seconda, è un esempio di pop rock che ho fatto più fatica a digerire, cosi lontana dai miei canoni sonori, ma ci sta considerata appunto l'ecletticità degli Acid Brains. Discreto ritorno, peccato solo che la durata del cd sia piuttosto risicata, avrei optato almeno per un paio di pezzi in più. (Francesco Scarci)

giovedì 10 gennaio 2019

The Entrepreneurs – Noise & Romance

#PER CHI AMA: Noise Rock, My Bloody Valentine, Sonic Youth
Musicalmente sono nato tardi e per molti anni non sono uscito dalla rassicurante galassia delle chitarre zanzarose e delle percussioni a mitraglia finché nel 2008 un amico mi consigliò di ascoltare 'Loveless' dei My Bloody Valentine e i miei preconcetti vennero spazzati via da quella marea di muri sonori. Ricordo ancora il rimpianto per aver perso gli anni dell’esplosione di noise rock, shoegaze, dream pop e post-punk, salvo poi scoprire che l’interesse per quei generi si stava rinnovando al punto da concedere una nuova giovinezza alle formazioni storiche e favorire la nascita di una schiera di epigoni. In mezzo a questa pletora di gruppi (non sempre in grado di offrire spunti memorabili) troviamo gli Entrepreneurs, formazione al debutto con l’album 'Noise & Romance', ben decisa ad uscire dalla periferia della scena alternativa: a differenza di molti colleghi infatti questo ambizioso terzetto di Copenaghen si sforza di proporre nuove sperimentazioni, pur con chiari omaggi ai pionieri del passato. È dunque la contrapposizione alla base di questo lavoro, non solo tra vecchio e nuovo, ma anche nell’alternarsi di esplosioni di rumore e distorsioni sferzanti con armonie piacevolmente pop e condite da testi romantici (da qui il titolo), contrasto reso anche in copertina dove un’intrigante ragazza è immersa in una vecchia vasca piena di liquido blu, immagine che peraltro sembra richiamare l’artwork di 'Around the Fur' dei Deftones, autori anche loro (pur in chiave più dark) di un efficace connubio tra musica estrema e melodie seducenti. Le dieci tracce che compongono l’album sono un caleidoscopio di stili diversi: si parte con i feedback a cascata e le basse stordenti di “Session 1”, una sorta di rivisitazione in chiave moderna "Only Shallow" dei MBV, per poi passare alla cavalcata psichedelica di “Say So!”, quasi isterica nei suoi continui cambi di dinamica e che ci lancia nel singolo “Joaquin”, una corsa scatenata in stile Sonic Youth, guidati dalla voce scanzonata del cantante. Le ritmiche pulsanti di “Sail Away” e gli intrecci sonici di “Be Mine” ci conducono ad “Heroine”, dove esplosioni di volume e riff pachidermici, fanno da contraltare a strofe colme di dolcezza: è l’apice del disco, in cui le diverse influenze del gruppo si fondono in perfetta armonia. I brani che seguono appaiono più crepuscolari, dando spazio al dream pop elettronico di “Ages” e alle schitarrate in stile Pavement di "Despair". In chiusura troviamo l’immancabile traccia acustica (“Morning Sun”) e la malinconica e quasi Radiohead “D Tune”, pezzi ugualmente intensi ma forse un po’ meno ispirati. Dunque, come valutare l’opera? Del buon revival per ascoltatori malinconici o una produzione matura e davvero indipendente? Gli Entrepreneurs strizzano l’occhio ai nostalgici riproponendo soluzioni le cui paternità sono evidenti, tuttavia la capacità mostrata nell’amalgamare omaggi al passato e spunti più moderni rendono 'Noise & Romance' una novità piacevole e tutt’altro che derivativa. La loro energia, abbinata ad una crescita nella stesura dei pezzi, potrebbe riservarci piacevoli soprese per il futuro. (Shadowsofthesun)

sabato 1 dicembre 2018

Kevlar Bikini - Rants, Riffage and Rousing Rhythms

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
Era da un po' che non ascoltavo del buon punk/hardcore e devo dire che l'ultima fatica dei croati Kevlar Bikini è arrivata a puntino. Nati come quartetto a Zagabria nel 2010, i Kevlar Bikini hanno prodotto un paio di buoni album e dopo essersi ristretti in un trio, hanno da poco pubblicato 'Rants, Riffage and Rousing Rhythms' grazie al legame con la Geenger Records. Il packaging non smentisce lo stile perpetrato dalla band, un jewel case con una grafica in stile collage che vede un ninja che stende a calci un avversario mentre un occhio gigante fa da sfondo e vigila sul combattimento. Ci troviamo di fronte a dieci brani brevi ed intensi, appunto una raccolta di sproloqui, riff e ritmi trascinanti, dove i primi sono caratterizzati dal cantato forsennato del vocalist che si fa gonfiare le vene del collo fino a farsele esplodere come in "Clerofashionistas". L'intro sommessa ed oscura lascia piano piano il posto al palm muting di chitarra che cresce fino all'esplosione ritmica, con un susseguirsi di riff rabbiosi e corposi che non hanno niente a che fare con lo stile minimalista e scarno di molte band del genere. Un brano che scorre in un attimo e lascia posto a "Nailbiter Blues" che per poche battute ci inganna spacciandosi per un pezzo black metal, ma l'illusione dura poco e si va nella direzione prestabilita, relegando questo omaggio a brevi break disseminati nei quasi quattro minuti di canzone. Lo stile dei Kevlar Bikini convince sempre di più, grazie anche agli arrangiamenti ben fatti e alle influenze noise/metal dei nostri. I pattern furiosi di batteria macinano battute su battute, mentre la timbrica del cantante assomiglia sempre di più a carta vetrata dalla grana grossa e urticante. L'esperienza dei nostri amici croati si fa sentire in ogni passaggio, break e allungo, mescolando sapientemente le loro idee e fregandosene delle influenze che si portano dietro come un cantastorie errante. Il miglior brano è sicuramente "Homo Rattus" che unisce desert/psychedelic/grunge rock in un'atmosfera da film western, dove il sole acceca e la sabbia si infila in ogni orifizio accessibile. La chitarra gioca su una melodia briosa alla maniera di Josh Homme, per poi allungarsi verso power cord onirici, poi il tutto si mescola e si rincorre, dando luogo ad una traccia quasi interamente strumentale lontana dall' hardcore/punk ascoltato fino ad ora. L'entrata del sax però spiazza tutto, esibendosi in un assolo al fulmicotone, semplice ma non toglie che sia un tocco da maestri. Tutto si chiude com'era iniziato, lasciandoci soddisfatti e allo stesso tempo stupiti davanti a cotanta bravura. Non sappiamo se tre è meglio di quattro, ma i Kevlar Bikini sono cresciuti alla grande e sono pronti per far parlare di sè. (Michele Montanari)

(Geenger Records - 2018)
Voto: 80

https://kevlarbikini.bandcamp.com/

venerdì 22 dicembre 2017

NØEN - Caraibi

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post Grunge, Nirvana
I NØEN vengono da una terra unica al mondo per la sua amena ed essenziale bellezza, dove dominano il paesaggio vigne a perdita d’occhio ed il sangue di antiche battaglie impregna ancora il terreno. È questa l’atmosfera che ha ispirato 'Caraibi', un disco d’esordio pieno di malinconia e rabbia, una prova che il rock può ancora regalare emozioni e fare bene all’anima. Sembra proprio sia questo ciò che il frontman Mattia Leoni vuole trasmettere nei suoi testi. Si tratta di sfoghi, pensieri, idee che non trovano manifestazione perché non esprimibili in un discorso oppure che non hanno la forza di rendersi reali perché troppo fragili nella loro pura magnificenza. Una difesa è quella dei NØEN, un fortino costruito con mattoni, sacchi di sabbia e lamiera, materiale preso in prestito da band come i Nirvana, gli Interpol e i Joy Division, impreziosito da una poetica che richiama i Verdena e il primo Vasco Brondi. 'Caraibi' inizia con “Hotel”, personalmente mio pezzo preferito dell’opera, un’implorazione ma anche uno sfogo di energie che esibisce la sua necessarietà con fierezza. La batteria di Federico Zocca è costante ed insistente, le chitarre sono dilatate in lunghissimi accordi distorti ed il basso di Stefano Melchiori sostiene con forza la struttura del pezzo, decorata con rugginosi sintetizzatori sottocutanei. Il giro armonico a tratti pare rassicurante a tratti pare invece sospeso, ne risulta uno strano effetto di trance e assuefazione. Completa lo scenario l’appassionata linea vocale con le sue distese e trascinate parole che sembrano tracciare delle lunghe scie bianche nel cielo. Un verso fra tutti “Fammi male, prova a insistere”. I brani scorrono piacevolmente grazie anche alla coproduzione di Enrico Bellaro, determinante nel suo ruolo di stregone del suono: i synth, gli effetti vocali e le scelte di arrangiamento, riescono ad esaltare la varietà delle composizioni aggiungendo sempre un elemento interessante ad ogni traccia. Due pezzi in particolare mi hanno colpito, “Mai’s” e “Vento”, dove le chitarre si scatenano e la rabbia esce prepotente. L’influenza dei Verdena è importante, i ragazzi avranno sicuramente ascoltato e amato 'Il Suicidio del Samurai', come, d’altronde, chi scrive. Ma solo di rabbia non si tratta, in “Mai’s” è apprezzabile una raffinata vena blues, opera di Davide Marotta (già membro della band stoner veronese Atomic Mold) che ha contribuito ai brani con le sue pirotecniche evoluzioni chitarristiche. A ben guardare, altri musicisti hanno partecipato alle registrazioni, in particolare Massimo Manticò alla chitarra in “Sola” ed Elena Ciccarelli al violino nello struggente pezzo di chiusura “Contro le Onde” che, come un paracadute, addolcisce la fine dei veementi assalti e dei tersi pomeriggi assolati di 'Caraibi'. I NØEN ci hanno regalato un disco d'esordio originale ed essenziale, seppur si percepisca una parte di personalità ancora nascosta che la band non ha ancora espresso e che sta cercando in tutti i modi di far emergere. Si vedono le potenzialità per riuscire a produrre musica ancor più particolare ed io sono certo che le verdeggianti valli di Sona con il loro retaggio di guerra, religione e storia, saprà guidare i ragazzi verso mete soniche lontane ed inesplorate. Nel mentre, ringraziamo per l’ottimo 'Caraibi' che consiglio di godersi in un momento di relax, a lume di candela ed abbinato ad una bozza di Custoza. (Matteo Baldi)

(Röcken Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/noenbandvr/

sabato 11 novembre 2017

Gunash - Great Expectations

#PER CHI AMA: Alternative/Grunge
I Gunash nascono in Piemonte nel 2003 da un’idea del cantante e chitarrista Ivano L. Zorgniotti e del batterista Danilo Abaldo, la line-up si completerà poi nel corso del tempo. Gunash è un gioco di parole tra Ganesh (la divinità indiana con la testa d’ elefante), Gunas (le quattro fasi della materia in trasformazione dell’alchimia indiana) e le parole inglesi Gun (pistola) e Ash (cenere). Una contrapposizione importante tra religione e materialismo, due estremi che rappresentano il dualismo insito nella vita ma anche nella band piemontese. La discografia della band include il loro album di debutto alla fine del 2005 e pubblicato dalla New LM Records e 'Same Old Nightmare', un concept album uscito nel 2012 con la partecipazione di Rami Jaffee, tastierista che milita tra gli altri in Foo Fighters e nei The Wallflowers. Questo terzo album 'Great Expectations' è stato prodotto dalla GoDown Records proprio con Rami Jaffee come produttore (peraltro anche tastierista nella release), quindi un po' di hype è d'obbligo. Il sound dei Gunash è tosto, un mix tra grunge ed alternative rock come quello che si riscontra in "Need to Bleed", song che colpisce per la timbrica vocale che vagamente ricorda gli Offspring e la parte strumentale in stile Seattle anni '90. Roccia dura e polverosa, come il suo riff di chitarra, mentre la sezione ritmica accompagna gli stacchi solisti del vocalist per dare enfasi ai vari stop & go che spingono il brano verso un headbanging da rocker stagionato. La title track addolcisce i toni e ci regala una ballata rock coinvolgente, fatta di chitarre acustiche che s'intrecciano in modo armonioso, cori e assoli lisergici. A conferma che il grande rock non è solo ritmi serrati e riff distorti, ma anche un brano strumentale che si adatta ai vari stati d'animo di chi ascolta e assapora il momento. Dopo l'energia e l'autocontemplazione, arriva il momento più malinconico e rabbioso, ovvero "Mean", brano dal testo graffiante e beffardo, dove la band dà prova della sua bravura nella scrittura dei brani. I Gunash infatti riescono sempre ad unire melodia ed energia senza cadere mai nella banalità, grazie ad arrangiamenti e scelte stilistiche che partono dalle loro influenze, ma che sanno reinterpretare in maniera convincente.Un brano lungo, dinamico, che progredisce solido e vibrante verso la meta. Nota particolare va a "Gunash Blues", un traccia strumentale dal sapore mediorientale, dove sitar e percussioni etniche ci trasportano a miglia di distanza in luoghi carichi di storia e cultura. Nel corso del brano si aggiunge la sezione elettrica per una perfetta fusione tra tradizione e modernità. Una perla strumentale che travolge con il suo flusso melodico che scorre nelle vene come ritrovasse un antico sentiero tracciato nella notte dei tempi. Un album notevole, maturo e dal respiro internazionale, non solo per la produzione e la collaborazione citata in precedenza, piuttosto per lo spessore artistico della band e la loro convinzione nel voler fare musica di qualità. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2017)
Voto: 85

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