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venerdì 16 febbraio 2024

Esoteric - Epistemological Despondency

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Funeral Doom
Sono passati 30 anni, ben tre decadi dall'uscita di questo memorabile lavoro che risponde al nome di 'Epistemological Despondency', atto primo dei britannici Esoteric. Era peraltro sempre la Aesthetic Death a far uscire una release che torna oggi in digipack, edizione limitata e rimasterizzata, un evento che celebra la storica uscita di un doppio cd che probabilmente ha fatto la storia in ambito funeral doom e, al contempo, inaugura la Vynil Series dell'etichetta inglese. E allora che dire di nuovo di un disco che già il fatto che duri ben 88 minuti per sei brani, rappresenta già il manifesto programmatico della band originaria di Birmingham. Ah Birmingham, quante ne hai viste, dai Judas Priest ai Napalm Death, passando per i Black Sabbath, fino ad arrivare agli Esoteric appunto. Esoteric che con questo lavoro pongono una pietra miliare di un genere, cosi come avevano fatto i loro illustri concittadini. E allora, se ancora non conoscete questo ambizioso e mastodontico album, non potete far altro che lasciarvi avvinghiare dalla morsa mortifera dell'allora sestetto (dotato di tre chitarristi) guidato da Greg Chandler. Vi accompagnerà già dall'introduttiva "Bereft" (20 minuti!!) in un viaggio nel profondo della vostra psiche, tra chitarre ultra ribassate, atmosfere super psichedeliche condite da voci che rimbalzano come l'eco contro le pareti, mentre le chitarre producono caleidoscopici e camaleontici riff. La musica vi entrerà cosi dentro, arrivando a toccarvi direttamente le budella, estraniandovi dal mondo che vi circonda. Vi renderete presto conto che questo sarà uno dei tanti effetti psicotropi in grado di generare questo disco, visto che la successiva "Only Hate (Baresark)" potrebbe sembrarvi semmai un tributo ai Napalm Death di 'Scum', visti i soli due minuti e 40 a disposizione, affidati a ritmiche incendiarie grind e vocalizzi animaleschi. Esperimento stravagante che serve forse a spezzare la monoliticità dell'opener prima di affidarvi ai 19 asfissianti minuti di "The Noise of Depression", una song che si affida nuovamente ad atmosfere iper dilatate, almeno per i primi cinque minuti, per poi sfociare in territori che potrebbero evocare un altro (capo)lavoro uscito un anno prima, 'Transcendence into the Peripheral' dei Disembowelment per poi sprofondare nuovamente in lugubri e pachidermiche atmosfere funeral. "Lamented Despondency" apre il secondo terzetto di brani con suoni peculiari in sottofondo, ma quando attaccano le cavernose vocals di Greg, vi renderete ben presto conto di essere stati catapultati in un altro incubo a occhi aperti. "Eradification (of Thorns)" suona più ruvida, forse perchè sembra mostrare un retaggio ancorato al death doom dei My Dying Bride degli esordi, con qualche ammiccatina anche ai Cathedral di 'Forest of Equilibrium', anche se le demoniache vocals del frontman sembrano distanziarci un po' dai due colossi inglesi. Chiusura affidata ai 26 minuti (si avete letto bene) di "Awaiting My Death", una maratona vera e propria, una song che da sola avrebbe potuto costituire un disco a sé stante, una traccia ancor più liquida delle precedenti tra partiture arpeggiate, un'effettistica ricercata, echi e riverberi ancor più forti, derivanti dalla psichedelia dei famigerati anni '70, che fanno forse ricadere la band nel funeral forse solo per le growling vocals. Non temete perchè l'ossessività del doom farà breccia nelle vostre anime ormai straziate anche nel resto della song, che vanta peraltro un fantastico assolo che chiude un super pezzone per un disco quasi unico nel suo genere, che merita di stare nella collezione di tutti gli appassionati di queste sonorità. (Francesco Scarci) 
 

domenica 11 febbraio 2024

Suffer Yourself - Axis of Tortures

#PER CHI AMA: Funeral/Doom
Quel che si suol dire un facile album da recensire... Si perchè qhuello degli svedesi (ma in realtà originari di Kiev) Suffer YourSelf, è un'angosciante proposta di un'ora tonda tonda di funeral death doom. 'Axis of Torture', quarta opera del quartetto, è un disco di quattro pezzi più intro e outro, quindi potrete immaginare come quella da affrontare sia in realtà una staffetta di quasi 15 minuti per ognuno dei pezzi inclusi, fatta di suoni soffocanti, annichilenti la mente e l'anima grazie a sonorità che, già dall'iniziale "Axis Insanity", ci stritolano nella morsa di un plumbeo funeral doom che vede alternarsi a violente schitarrate death, mentre la voce cavernosa del frontman, affronta altrettanto leggere tematiche legate alla sofferenza, al dolore e alla disperazione. Lo ribadisco, un disco facile facile, anche nell'ascolto. Ovviamente, continuo a essere ironico, però i Suffer Yourself (un nome, un programma) ci mostrano come oggi sia ancora possibile proporre funeral doom, senza scadere nel problema del "già ascoltato". Questo perchè i nostri sono abili costruttori di ossessive partiture al limite della tensione emotiva, a cui accostare quelle accelerazioni death che strizzano l'occhiolino indistintamente a Incantation o Disembowelment, mentre tutto il disco potrebbe rievocare i fasti funerei dei primissimi My Dying Bride. La differenza con questi ultimi sta però in una maggiore classe dei nostri che si declina in più raffinate partiture atmosferiche e in una maggiore cura dei suoni. La prima traccia (anzi la seconda per diritto di cronaca) quindi supera di sicuro la prova, lasciando il campo poi ai 17 minuti di "Axis Despair", che risulta essere ancor più asfissiante nel suo monolitico incedere che si dipana attraverso un incipit che sembra stringerci al collo, generando pensieri negativi e mortiferi, con quelle stridule chitarre in sottofondo, raddoppiate da un altro strato di suoni che non possono far altro che produrre incubi a livello subconscio. E pian piano, i nostri aumentano i giri del motore, mentre le voci si fanno più demoniache, il suono ancor più mastodontico tra un rifferama compatto e profondo, e una serie di assoli alla sei corde, a rendere il tutto più convincente e accattivante. Ma i Suffer Yourself non sono certo dei pivelli e la loro esperienza maturata attraverso 13 anni di vita e quattro album, nonchè il mastering di Greg Chandler (Esoteric, Lychgate), li consacra a essere una valida alternativa ai mostri sacri del genere, e penso a Evoken o My Shameful. E arriviamo ai dieci minuti e mezzo di "Axis Pain", che sembrano quasi una passeggiata rispetto alle due precedenti mostruose tracce, complice anche una maggior ricercatezza sonora, almeno nelle linee iniziali della song, prima di perdersi nei labirinti psicotici di un death metal poco affabile, direi sghembo e malato, che si saprà alternare a porzioni atmosferiche e melodiche per un risultato di sicuro valore. "Axis Time" si apre con il cantico del soprano Kateryna Osmuk che, non solo è responsabile delle backing vocals growl del disco e della batteria, ma ci delizia per alcuni secondi con la sua magnifica e raffinata ugola. Poi il canovaccio non muta poi di molto nel resto della traccia, se non per proporre qualche parte di tastiera più spettrale, cosi come stralunate linee di chitarra o eleganti arpeggi che confermano l'ottimo lavoro dei nostri. Ora spetta a voi armarvi di santa pazienza e affrontare questa indolente discesa verso gli abissi dei Suffer Yourself. (Francesco Scarci)

sabato 16 settembre 2023

Blasphemous Fire – Beneath the Darkness

#PER CHI AMA: Death/Doom
I portoghesi Summon hanno cambiato la loro denominazione per problemi di omonimia e si presentano oggi con un nuovo nome, un nuovo logo ed un nuovo album che, a mio avviso, merita il massimo rispetto, visto il salto di qualità sfoderato all'interno del disco. Senza togliere ai precedenti lavori della band di Lisbona, il nuovo corso a nome Blasphemous Fire, risulta essere decisamente più claustrofobico e mai come in questo caso il titolo, 'Beneath the Darkness', fu meglio indicato per esporre i belligeranti e oscuri intenti del combo lusitano, verso il pubblico metal più estremo. Il suono è cavernoso e odora di reminiscenze occult doom, al contempo offre un death metal che non si risparmia in sfuriate e cambi di velocità e si avvale di una certa maestria molto vicina alle doti di Mortician, Mortiferum e Ulcerate, nelle loro opere più buie. Usando chitarre affilate come lame di rasoio, i nostri riescono a dipingere tele macabre e lugubri, atmosfere surreali nerissime, servendosi di un drumming potente che colpisce fin dal primo brano, "The Eclipse and Birth". Tutto il corpo sonoro è pulsante, splendidamente naturale, rude e drammatico ed affascinante al tempo stesso, la sua putrida indole è un'anima che caratterizza l'intero album. Un disco, carico di malsana atmosfera, che sviscera istinti animaleschi e oscuri, (come poteva essere nel suo genere 'Casus Luciferi' dei Watain), un sound grave, perfettamente interpretato da una performance vocale eccellente, gutturale e realisticamente sinistra. Le chitarre sono magistralmente suonate in una forma sonica che dona un'atmosfera plumbea ed omogenea, ed è sufficiente ascoltare l'inizio di "The Pale Colours", con le sue sei corde elettriche urlanti in sottofondo, per capire come la band abbia le carte in regola per ritagliarsi un posto ben in vista nel panorama della musica estrema che conta. La claustrofobia ed un sound pesantissimo e altamente percussivo, donano all'opera un'identità assai originale e ricercata dove ci si può perdere in un viaggio nell'oscurità più profonda. Nessuna lacuna frena il procedere del disco, che trova in "Allowed Wishes", un'ottima cadenza doom, intervallata da elaborate evoluzioni compositive, e cambi di tempo che mi ricordano il mitico album 'As Heaven Turns to Ash' dei Warhorse, anche se, per i Blasphemous Fire, la scelta stilistica è meno sludge e più heavy, pregna di un'aura devastatrice primordiale. Il corso del disco è scritto nel suo titolo (anche l'artwork di copertina è molto bello) e fin dal brano iniziale, si percepisce che si è di fronte ad un'opera nera, che offre un ascolto al di sopra della media, per intensità, cura e dinamica dei brani, il cui suono, con mio immenso piacere, risulta ricercato, reale e caldo, in grado di mantenere un'attitudine infernale inalterata e costante per tutta la durata del disco, mostrandosi così lontanissimo da certe scelte sonore più mainstream che si possono trovare in lavori anche più celebri e blasonati. Devo dare grande merito a questa band, che con un sound che premia la qualità ma che non si slega dalla sua appartenenza all'underground più profondo, ha forgiato con la giusta alchimia un album intenso, potente, elaborato e cupo come pochi altri, di cui è assolutamente consigliato l'ascolto. (Bob Stoner)

martedì 23 maggio 2023

Mesmur - Chthonic

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Il funeral è già un genere piuttosto complicato da digerire. Se a suoni catacombali e voci cavernose aggiungiamo poi delle dissonanze abbastanza allucinate, potrete immaginare come l'approccio a simili sonorità possa risultare alquanto ostico. È il caso del nuovo album dei Mesmur, una realtà internazionale (U.S., Italia e Australia) che conosciamo assai bene qui sulle pagine del Pozzo, che torna con il quarto capitolo della loro discografia, 'Chthonic'. Il lavoro dura 48 minuti e consta di sole cinque tracce. Se considerate che il preludio e la coda fanno sette minuti, sarà facile intuire quanto possano durare le altre tre, circa 41 minuti di suoni estenuanti, di cui la sola "Passage", ne occupa 19. Quello che subito balza all'orecchio, è una proposta che si conferma abbastanza ancorata al passato, con un death doom che ammicca palesemente agli esordi dei My Dying Bride e dei primissimi Anathema, ma anche ai mostri sacri del funeral, quali Esoteric e Skepticism. Quello che mi spiace tuttavia constatare è una certa staticità a livello di suoni, che non preludono a nulla fuori dall'ordinario almeno nelle due tracce "Refraction" e "Petroglyph", forse eccessivamente ortodosse nel loro approcco al genere; e per questo intendo le classiche chitarre abissali, le atmosfere lente, lugubri, asfissianti e claustrofobiche, con i tipici vocalizzi growl di Chris G a condire il tutto. Quello che regala un tocco di fascino all'album rimangono però le partiture tastieristiche a cura di Jeremy L che, insieme a qualche breve galoppata black, ne movimentano l'ascolto, conferendo quel pizzico di dinamicità ad un disco che forse alla lunga rischierebbe di annoiare. E la già citata "Passage", con la sua durata davvero al limite dello sfibrante, giunge in supporto regalandoci fraseggi atmosferici che alterano il ritmo fin troppo cadenzato di 'Chthonic'. Per il resto, vorrei dirvi di andarvi a leggere le mie precedenti recensioni alla, il canovaccio musicale infatti di quest'album lo troverete piuttosto simile ai vecchi lavori, inclusa la presenza di viola e violoncello, qui a cura di Brianne Vieira, senza dimenticare poi gli organoni sublimi di Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap). Per il futuro mi aspetto però qualcosa di più, che sappia catalizzare maggiormente la mia attenzione. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2023)
Voto: 70

https://mesmur.bandcamp.com/album/chthonic

mercoledì 1 febbraio 2023

Harvest Gulgaltha - Ancient Woods

#PER CHI AMA: Death/Black/Doom
Da Phoenix Arizona è in arrivo una tempesta di sabbia nera come la pece, pronta a oscurare il cielo. Colpa dell'enigmatico terzetto degli Harvest Gulgaltha che pur essendo in giro dal 2012, ne ignoravo l'esistenza. 'Ancient Woods' è il loro secondo album che esce a distanza di cinque anni da 'Altars of Devotion' e di otto da una compilation uscita nel 2014. La proposta dei tre misteriosi musicisti statunitensi è all'insegna di un black/death dalle forti tinte funeral doom che non inventa, al solito, nulla di nuovo, ma lascia lividi sul viso e anche nell'anima, complici cupe e dannate sonorità che s'insinuano profonde pronte a scavarci e alimentare paure ed insicurezze. Mi sarei aspettato un simile album rilasciato dalla Sentient Ruin Laboratories e vederlo per la Godz ov War Productions, non può che farmi piacere, essendo l'etichetta polacca per lo più attenta a sonorità tipicamente death/black. Il lavoro si snoda poi attraverso sette mefitiche tracce che dall'iniziale "From the Depths of Acosmic Light" arrivano alla conclusiva "Chaos Among the Dead (Will of the Flame Pt. 3)" in un percorso articolato, claustrofobico, negromantico e sepolcrale, che non vi lascerà ahimè scampo. Complice poi una registrazione lo-fi, voci che sembrano provenire dall'oltretomba, delle chitarre scarne ma profonde, 'Ancient Woods' potrebbe essere la colonna sonora ideale per un tour sull'Acheronte con il traghettatore di anime Caronte come vostro ospite. Mortiferi. (Francesco Scarci)

(Godz ov War Productions - 2022)
Voto: 70

https://godzovwarproductions.bandcamp.com/album/ancient-woods 

mercoledì 7 dicembre 2022

Estrangement - Disfigurementality

#PER CHI AMA: Experimental Death Doom
Ci hanno messo ben otto anni gli australiani Estrangement a far uscire il loro album di debutto su lunga distanza dopo un demo e uno split album usciti rispettivamente nel 2013 e 2014. Lo stravagante quartetto di Sydney capitanato da JS, esce quindi con questo 'Disfigurementality', un concentrato di stralunato death doom che esordisce con "Destitution Stench", una breve intro che ci prepara all'originale forma musicale espressa dalla successiva "Detritivore". Citavo il death doom, ma potremmo aggiungere anche il funeral in alcune linee pesantissime di chitarra (e nelle durate estenuanti dei brani) o ancora nelle profondissime growling vocals, ma quello che colpisce nella proposta dei nostri è l'inserimento di alcune partiture neoclassiche, ma anche jazzy o addirittura scorribande black come accade nella seconda parte del brano. Tutto questo oltre a regalare una grande dinamicità al disco, prospetta grandi speranze per un genere che ultimamente avevo avvertito come spento o con ben poco da dire. E invece la band australiana si gioca molteplici carte di improvvisazione che rendono anche le successive tracce molto più palatabili. Passando da un breve intermezzo acustico, si arriva a "The Light Unshown", una song che sembra votata a quel mood struggente di My Dying Bride o dei primissimi Paradise Lost e non posso far altro che applaudire, per quanto il sound possa risultare obsoleto. Ma l'uso di contrabbasso, flauto e violino, che già avevo apprezzato in "Detritivore", cosi come un favoloso break acustico dal sapore spagnoleggiante, corredato poi da una cascata di note di chitarra e atmosfere epiche e struggenti, regalano una proposta che in termini di freschezza, sembra non aver uguali. Dopo un iniziale cerimoniale esoterico, prende piede "Fire Voice", con una sorta di assolo di flauto a cui fa seguito un'altra chitarra flamencata a testimoniare, se ancora ce ne fosse bisogno, l'originalità dei nostri. "Clusters" è puro caos sonoro che trova comunque il suo perchè in un lavoro unico e complicato come questo. " Womb of Worlds" è un altro tassello di follia di questi quattro musicisti tra sonorità doomish catacombali e altre derive psicotiche, con un violino nel finale a rimembrare i fantastici esordi dei My Dying Bride. "Asleep in the Vineyard" è un altro interludio atmosferico che ci conduce a quello che è il brano più lungo del lotto, i tredici soffocanti minuti della schizoide "Doppelganger", la summa di tutto il male, la genialità, la malinconia e la follia di questi Estrangement. Bel debutto, complimenti! (Francesco Scarci)

sabato 8 ottobre 2022

Nortt - Graven

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black/Funeral Doom
Questa è un’opera di inestimabile valore! Così grande è questo lavoro che è difficile trovare parole che riescano ad eguagliare la stupefacenza di questo 'Graven'. Abissale extreme doom con una chitarra dal grezzissimo suono black che crea immagini di immobilità eterna. Questa è musica che trasuda dolore e disperazione per cui non esiste via d’uscita, rimane solo il suicidio. Questo disco (peraltro uscito in versione demo nel 1999, picture disc nel 2002 e recentemente ristampato dalla nostrana Avantgarde Music) è semplicemente la fine.

(Maggot Records/Avantgarde Music - 2002/2020)
Voto: 88

https://avantgardemusic.bandcamp.com/album/graven

lunedì 19 settembre 2022

Ablaze in Hatred - Deceptive Awareness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Funeral Doom
Un po' di sano doooom per le nostre orecchie, di quello maggiormente orientato al funeral e l’apocalittico, di quello nordico e ben fatto. E i nostri esecutori sono i finlandesi Ablaze in Hatred, band lappone, formatasi nel 2004, che giunse al tanto sospirato debut in un paio d'anni grazie alla Firebox Records. 'Deceptive Awareness' raccoglie sette brani dal sound funesto, marziale e devoto alla pesantezza più totale. Sette lunghe track, che demoliranno i nostri padiglioni auricolari, con il loro incedere malinconico e mortale, che preannuncia inevitabilmente la fine dell’umanità. A differenza dei compagni di scuderia, i Doom:Vs, il quartetto di Helsinki è forse meno atmosferico, più diretto e brutale, pur proponendo un sound che comunque si avvicina al side project di Johan Ericson dei Draconian. 51 minuti di musica deprimente, caratterizzata dai riff lenti, mastodontici e al tempo stesso melodici delle due asce, dal growling cupo e minaccioso di Mika Ikonen e dalle ariose tastiere atte ad impreziosire il sound dei nostri. La band finlandese si rifà agli insegnamenti dei Katatonia (era 'Dance of December Souls'), per quel suo abbinare tragiche melodie al tetro death doom. “When The Blackened Candles Shine” è il brano meglio riuscito del lotto, con i suoi nove minuti e passa, capace di coniugare egregiamente la lezione impartita dai maestri del passato, My Dying Bride e gli stessi Katatonia, al sound di Swallow the Sun e Daylight Dies in primis. 'Deceptive Awareness' non mi fece sicuramente gridare al miracolo, ma lasciava ben sperare in un futuro prossimo, che dopo 'The Quietude Plains' nel 2009, ahimè non ha più visto i nostri affacciarsi sulla scena. Gli Ablaze in Hatred hanno concepito un lavoro intenso, energico e cupo di funeral doom che potrà soddisfare tutti gli amanti di questo genere di sonorità e non solo. Un ascolto consigliato a tutti. (Francesco Scarci)

(Firebox Music - 2006)
Voto: 66

https://www.facebook.com/ablazeinhatred

lunedì 21 marzo 2022

Gangrened - We Are Nothing

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Risale ad un anno fa (era l'aprile del 2021) l'ultima release dei finlandesi Gangrened intitolata 'Deadly Algorithm' che rappresenta il debutto su lunga distanza per la band originaria della terra dei mille laghi. Tuttavia, oggi ci apprestiamo a recensire un lavoro rilasciato ben più indietro nel tempo, quel 'We Are Nothing', uscito sul finire del 2014 per la Bad Road Records. Il quartetto finnico ci presenta un trittico di pezzi per 25 minuti di musica tondi tondi (niente male per un EP) all'insegna di un melmoso sound che parte dai lunghi riverberi iniziali della soffocante "Lung Remover", con quel suo doom claustrofobico a metà strada tra funeral e sludge, tanto per capirsi. Quindi preparatevi ad un incedere lento e pesante tra harsh vocals, riffoni flemmatici come un bradipo nano e atmosfere plumbee da giorno dei morti. Insomma, nulla di nuovo all'orizzonte in un paese come la Finlandia dove band quali Skepticism, Shape of Despair e Thergothon sono stati grandi precursori del genere. E gli oltre 12 minuti dell'opening track sono difficili da digestire se non siete dei grandi fan di questo stile musicale che in taluni passaggi mi ha evocato anche un che dei primissimi My Dying Bride. Spoken words aprono la seconda "Them", una song più graffiante per quel che concerne la porzione vocale, quasi prossima all'hardcore, mentre la musicalità della band si perde in un riffing capestro che non apporta nulla ad un genere che penso sia stato ormai perlustrato in lungo e in largo. La seconda parte della song peraltro si trasforma in un attacco frontale all'arma bianca che ha ben poco da mostrare di cosi rilevante. In chiusura "Kontti", nei suoi quattro minuti scarsi, ci dà l'ultima caustica botta di questo insulso lavoro sebbene mi metta una certa curiosità nell'ascoltare la nuova release, annunciata da più parti come più sperimentale rispetto a questo lavoro. Dategli un ascolto e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

(Bad Road Records - 2014)
Voto: 58

https://gangrened.bandcamp.com/album/we-are-nothing 

mercoledì 9 marzo 2022

Crawl - 30 Year Suicide

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Ancora suoni marcescenti, un altro 7" con cui giochicchiare nel mio giradischi, un'altra band dagli US e un'altra manciata di pezzi marchiati Bad Road Records. Questo giro ce ne andiamo ad Atlanta a conoscere i Crawl e il loro '30 Year Suicide' del 2017. Dicevo della marcescenza della proposta e il side A del dischetto propone la funerea "Pornography of Grief": ritmica doomish, lenta e ossessiva, sorretta da uno screaming bestiale per un sound minimalista almeno fino a quando a scoccare la freccia è un brillante assolo che rende il tutto quasi più accattivante e digeribile. Sul lato B, la title track e una chitarra super riverberata apre un'altra indolente discesa negli inferi, con il Caronte di turno (e una voce qui dalle sembianze gutturali) a guidarci nel viaggio. Il tutto è davvero flemmatico e poco avvincente a essere onesti, fino al quinto minuto quando finalmente la ritmica aumenta il passo quasi a deflagrare, ma siamo ormai a poco più di un minuto dalla fine. Troppo tardi e un'occasione sprecata, considerata l'esigua (11 minuti) durata del disco. (Francesco Scarci)

sabato 9 ottobre 2021

Funeral Chasm - Omniversal Existence

#PER CHI AMA: Epic Funeral Doom
L'etichetta inglese Aesthetic Death continua a scrutare nel sottobosco death doom per trovare nuove band da inserire nel proprio rooster. Quest'oggi si fa tappa in Danimarca per fare conoscenza di questi "neofiti" Funeral Chasm al loro primo album, 'Omniversal Existence', sebbene esista anche un EP uscito lo scorso anno. La musica proposta, come anticipato, si muove nella sfera di quel death doom emozionale che fa di Swallow the Sun o Ahab, alcune delle migliori band in circolazione. L'incipit, affidato a "Embellishment of Inception", mette in mostra la capacità del duo danese di muoversi tra un death doom, sottolineato dal growl possente di Danny Woe (uno che abbiamo apprezzato anche nei Woebegone Obscured e milita pure in parecchie altre band) e da chitarre più o meno pesanti, e parti più ariose, dal taglio epico, a tratti sinfonico, con tanto di voci pulite. Le cose si fanno tuttavia più cupe con la successiva "The Truth That Never Was" che nei primi 120 secondi ci conduce verso le viscere dell'Inferno, da cui presto sembra sia possibile risalire con un'inversione di marcia e decadentismo. Le cose però spesso non sono quello che sembrano, e si ripiomba in un vertiginoso e malato sound a cavallo tra funeral e depressive, con alcune porzioni più malinconiche (con tanto di clean vocals annesse) a smorzare quel senso di negatività che pervade la song. "Mesmerising Clarity" ha un incedere musicale alquanto lisergico, a quanto pare giustificato dai musicisti dall'assunzione di funghi allucinogeni per alleviare i sintomi di insonnia e depressione descritti nelle precedenti song. E quel senso di temporaneo annebbiamento lo si ritrova nelle note di questa song, una sorta di trip mentale che va puntualmente a sfociare nei meandri del death doom più intransigente, laddove il growl si fonde con il cantato pulito e l'atmosfera si fa nebulosa e difficile da mettere a fuoco. Forse risiede in questo il punto di forza dei due artisti nordici, che pur non proponendo chissà quale originalità nella propria proposta, in realtà combinando funeral con partiture eteree, finiscono per essere fin troppo convincenti con un flusso musicale vario, melodico, accattivante, senza tralasciare le brutture scatenate da quei suoni d'oltretomba. Come quelli che irrompono in "Extracting the Flesh from the Gods", forse il pezzo più intransigente del lotto perchè esclusivamente radicato nel funeral doom. Con "Sunrise Vertigo" infatti le cose tornano a viaggiare sul doppio binario funeral/psych con richiami evidenti qui alla darkwave grazie all'uso di synth dal sapore ottantiano e vocals che ancora una volta mutano dal growl più ostico a voci ed atmosfere più rasserenate che edulcorano non poco l'ascolto, anche se francamente gli acuti in chiusura di brano vanno rivisti. Ci sono ancora un paio di pezzi a cui prestare attenzione: "The Skeleton Secret" che per la prima volta parte da quella porzione più riflessiva del sound dei nostri, quella più epica per poi inabissarsi nel death doom e poi perdersi in un groviglio di suoni più astratti, quasi surreali, con la voce pulita qui davvero convincente. Ed un ultimo atto affidato ad "Astral Reality" che chiude questa mia prima positiva esperienza in compagnia dei Funeral Chasm, una band sicuramente da tenere d'occhio in proiezione futura. (Francesco Scarci)

lunedì 4 ottobre 2021

Suffer Yourself - Rip Tide

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Nati originariamente come la one-man band di Stanislav Govorukha, i polacchi Suffer Yourself sono diventati una band a tutti gli effetti, con una line-up stabile e ben delineata in questa nuova terza release, intitolata 'Rip Tide'. Un trittico di brani che partono dalla monumentale "Spit in the Chasm" (20 minuti e mezzo) e proseguono attraverso "Désir de Trépas Maritime (Au Bord de la Mer Je Veux Mourir)" e la strumentale "Ugasanie - Submerging" per 33 minuti di suoni pesanti, asfissianti e plumbei, insomma adatti all'incombente stagione autunnale. Funeral doom per chi non l'avesse ancora capito che ci investe come al solito in questo genere, con pezzi di una lunghezza quasi estenuante, voci cavernose, ma anche delle spettacolari melodie che rendono l'ascolto dell'opener ancor più entusiasmante, soprattutto laddove vi si possano trovare forti richiami a 'Gothic' dei Paradise Lost (grosso modo tra il minuto 5.30 e 6, giusto per darvi una indicazione di massima) per poi lanciarsi in accelerazioni più devastanti e death oriented. Il risultato è sicuramente apprezzabile, alla luce dei molteplici cambi di umore e di tempo della lunga song d'apertura, che ha ancora modo di deliziarci con aperture acustiche di scuola Mournful Congregation, regalate da quello che credo sia un violoncello che verso l'undicesimo minuto, ha il pregio di procurarmi brividi di emozione. Il brano ha comunque ancora molto da regalare, tra accelerazioni death (manco fossero i Morbid Angel), funerei rallentamenti alla Evoken, dove il gorgoglio del vocalist non suona proprio cosi rassicurante. Poi ancora da scorgere c'è qualche riferimento ai My Dying Bride verso il diciottesimo minuto e direi che la song ha coperto un po' tutto lo spettro dello scibile funeral death doom conosciuto. Il secondo pezzo ha un'apertura più sommessa, con ancora strumenti ad arco a solleticare i sensi, ad emozionare, a scandire il tempo che ci sottrae dalla morte con una melodia estremamente malinconica e soffusa che trova una variazione al tema verso il terzo minuto con uno squarcio ritmico nefasto, sbilenco, lugubre. Una manifestazione di tremebondo decadimento con echi che ci conducono nuovamente al gotico incedere degli esordi di Nick Holmes e compagni. Una voce non proprio delle più limpide si issa poi con un declamato in francese mentre la ridondante porzione ritmica prosegue nel suo ipnotico incedere verso un finale dal taglio cinematico sperimentale (quasi scuola ulveriana). Gli ultimi tre minuti e 40 ci regalano suoni ambient noise di cui avrei fatto francamente a meno, prediligendo semmai un'altra composizione che desse ulteriori indicazioni di questo collettivo internazionale che include membri da Ucraina e Svezia. (Francesco Scarci)

lunedì 26 aprile 2021

Mourning Dawn - Dead End Euphoria

#PER CHI AMA: Death/Doom
Avevo bisogno di sonorità un po' mortifere in questo periodo cosi allegro delle nostre vite. Giungono in mio aiuto in tal senso i francesi Mourning Dawn, con la loro quinta fatica, 'Dead End Euphoria', nella loro classica commistione di death e doom con frangenti black e funeral. Mi lascio cosi inglobare dalle sonorità decadenti dell'opener "Dawn of Doom", un nome un programma, per una traccia che mostra la classica veste death mid-tempo, da sempre DNA del terzetto parigino, tra le cui pieghe si infilano rare e destabilizzanti strutture black, con quel piglio disarmonico dei Deathspell Omega e qualche vocalizzo urlato. Ecco sfornato quindi il tipico prodotto dei Mourning Dawn. La matrice è infatti quella di sempre, anche nella successiva "Never to Old to Die", un pezzo che richiama nelle sue sconfortanti melodie, le prime cose dei Katatonia nei loro costrutti malinconico disperati, a metà strada tra 'Dance of December Souls' e 'Brave Murder Day'. E la lunghezza drammaticamente lunga dei brani, che troverà la sua massima espressione nei 26 minuti di "The Five Stepts to Death", contribuiscono a creare quel senso di inappropriatezza nell'anima, già di per sè inquieta, di chi ascolterà il disco. Un lavoro sicuramente assai solido ma che forse percepisco in alcuni frangenti eccessivamente monolitico, sebbene i transalpini cerchino qualche variazione al tema, in certi cambi di tempo, a dire il vero, un po' telefonati, o nella ridondanza di certi passaggi ritmici, che magari avrebbero dato maggiore dinamicità ai brani. La title track in questo mi colpisce molto per quel suo forte struggimento nella linea delle chitarre, ma anche dei chorus, che la rendono forse il brano più accessibile dei sei, anche perchè il più breve ("solo" sei minuti). A seguire infatti arriva "Conclusion" che per un attimo mi aveva illuso di essere già giunti alla fine di 'Dead End Euphoria', ma in realtà non siamo nemmeno a metà, vista la lunghezza estenuante del disco. E il quarto pezzo prosegue non aggiungendo granchè al sound dei nostri, qui decisamente più votato a scorribande black e ad un cantato quasi salmodiante, per lo meno una variazione alla graffiante ugola di Laurent "Pokemonslaughter". Il brano tuttavia ha ancora modo di stupire con un'effettistica alla sei corde alquanto stralunata, che si dipana tra accelerazioni da verbo nero e rallentamenti che rasentano il funeral, quasi a prepararci alla montagna prossima da scalare. Siamo arrivati infatti ai 26 minuti di "The Five Stepts to Death" e l'inizio non può essere più impervio. La parete da affrontare è infatti più scoscesa che mai con quelle sue trame funerarie, lente, ossessive, angoscianti, a tratti sfiancanti (26 giri di orologio sono lunghi da affrontare), soprattutto quando la band spegne la luce, va in letargo e prova poi a ridestarci con lunghi intermezzi acustici di scuola Opeth, prima di capovolgimenti di fronte che ci spingono a sfuriate post black. Non è una passeggiata, lo ribadisco, serve essere davvero dei grandi fan del genere per spingersi ad ascoltare un disco a tratti cosi catartico (e al tempo stesso efferato) nei suoi contenuti. In chiusura, gli oltre dieci minuti (di cui solo la metà suonati, il resto silenzio) di "Adieu", il colpo di grazia che serviva, costruito su un muro di chitarre suonate su un'unica nota, corroborate da una percussione lenta e psichedelica e dal vociare disperato di Laurent. Abbiamo atteso quattro anni per ascoltare la nuova release (nata in realtà sotto i non migliori auspici) e francamente, mi aspettavo qualcosa di più alto livello che un lavoro di onesto ma poco intellettuale death/black doom. (Francesco Scarci)

mercoledì 7 aprile 2021

Woe Unto Me - Spiral-Shaped Hopewreck

#PER CHI AMA: Death/Doom, Swallow the Sun
In attesa di ascoltare un nuovo full length, tornano i biellorussi Woe Unto Me con un EP, 'Spiral-Shaped Hopewreck', che conferma che la band è viva e vegeta, in forma e pronta ad accompagnarci al camposanto con quel loro sound pregno di malinconia e disperazione. Il nuovo lavoro, targato BadMoodMan Music, contiene sette tracce, anche se quattro di loro non raggiungono i due minuti e due sono delle cover di Meshuggah e Klone. Un'inquietante intro apre il dischetto prima di affidarci alla title track che inaspettatamente mi consegna un sound che ammicca alle ultime produzioni dei Katatonia, fatte di atmosfere nostalgiche, voci pulite, suoni non più sepolcrali, come invero mi sarei aspettato. I Woe Unto Me hanno cambiato pelle virando la propria proposta verso lidi più abbordabili anche a metallari meno estremisti, e con quale classe ragazzi. Ascoltare l'assolo al quarto minuto e mezzo per capire l'evoluzione del sestetto di Grodno, che nella seconda parte del brano cede al retaggio funeral doom del proprio passato, rivisto tuttavia con più grazia e sentimento, sulla scia dei Swallow the Sun. Un breve intermezzo strumentale e siamo a cavallo di "Sad and Slow", cover estratta dall'ultimo 'Le Grand Voyage' dei francesi Klone. Certo, la scelta è caduta forse su una delle tracce più soporifere del disco e l'ensemble sembra imitare pedissequamente l'originale con tutta la medesima forza emotiva e con un minuto e mezzo di musica addizionale. Il risultato non è affato disprezzabile anzi, quasi quasi l'ho apprezzata più dell'originale, soprattutto per l'utilizzo di una voce più rabbiosa nel finale. Ancora un break ambient ed è la volta di "Lethargica", song spettacolare dei Meshuggah estratta da 'Obzen'. Che la poliritmia non sia la specialità in casa Woe Unto Me è evidente sin dalle note iniziali e mi domando a questo punto perchè volersi fare tanto male a tributare una band difficile come quella svedese. Il risultato è discreto, lontano anni luce dagli originali, che per classe ed efficacia, credo non abbiano eguali. Queste esplorazioni alternative comunque riscontrono il mio appoggio in un EP di questo tipo, un po' meno se si fosse trattato di un platter a tutti gli effetti. I Woe Unto Me chiudono i battenti con gli sperimentalismi dell'atmosferica outro. In definitiva, 'Spiral-Shaped Hopewreck' è un discreto biglietto da visita che carica di una certa curiosità gli sviluppi compositivi futuri della band biellorussa. (Francesco Scarci)

giovedì 18 febbraio 2021

Oakmord - We Were Always Alone

#PER CHI AMA: Funeral Doom
La band di oggi è un duo tedesco-finlandese al loro debutto, con questo monicker. Si perchè gli Oakmord includono il batterista Juergen Froehling degli Absent/Minded (già incontrati più volte qui nel Pozzo), peraltro pure ex dei My Shameful, cosi come lo fu Sami Rautio, chitarra, basso e voce della band di oggi. 'We Were Always Alone' è quanto partorito dai due musicisti, un lavoro di quattro pezzi per oltre 30 minuti di tetre sonorità funeral doom. E con un background del genere cosa vi aspettavate? Non ci si stupisca quindi della criptica e deprimente melodia acustica che apre "I Pray to Unforgiving Skies", prima che il rombo di un riffone tonante irrompa nelle casse dello stereo, accompagnato da una voce al vetriolo. Giusto un paio di riff super dilatati, diciamo di un paio di minuti, e poi di nuovo un break acustico. E il gioco ondivago si ripete con un nuovo attacco distorsivo che ci riporta in un altro ipnotico e circolare giro acustico, con le voci a gracchiare in sottofondo. "Dilution of Pain" appare ancor più tormentata e malata nel suo lento incedere ma soprattutto in quel doppio cantato da incubo. Poi a prendere il sopravvento è una parte decisamente ritmata, prima di disturbanti suoni elettronici che ci catapultano nella seconda parte del brano dove le voci da orco tornano a dominare. Ancora un inizio tranquillo, quello proposto da "Deliverance", fatto di suoni lontani, corde pizzicate, landscape desolanti e voci sussurrate. Giusto un lungo e laconico antipasto dronico che ci porta nel fulcro funereo della song, cosi deprimente nella sua solitaria linea di chitarra e in quegli scarni vocalizzi in sottofondo. Insomma, se siete alla ricerca di una emotività sofferta e decadente, qui troverete quanto avete bisogno, confermato peraltro dalle note conclusive di " My Eyes Reflect Only My Death", l'ultimo bagliore di morte che si scorge nelle deprimenti note di questo 'We Were Always Alone'. Un lugubre addio affidato a cupe e sofferte parti atmosferiche che confermano le qualità di un nuovo gruppo affacciatosi nel mondo della musica del destino. (Francesco Scarci)

(Wroth Emitter Productions - 2020)
Voto: 72

https://oakmord.bandcamp.com/album/we-were-always-alone

lunedì 18 gennaio 2021

Shrines of Dying Light - Sadness

#PER CHI AMA: Death/Doom/Dark, Empyrium, Saturnus
Dal Canton Argovia in Svizzera, ecco arrivare nelle nostre case, il secondo lavoro degli Shrines of Dying Light, band death doom che francamente non conoscevo. 'Sadness' è il comeback discografico per i nostri che segue a due anni di distanza quello che era stato il loro convincente album di debutto, 'Insomnia'. La nuova release degli elvetici consta di nove pezzi, che includono uno spettrale preludio ("Entering Infinity"), un malinconico epilogo ("Solitude") ed un breve intermezzo strumentale ("Into Singularity"). Quando andiamo a dare un ascolto più attento all'opera del quartetto svizzero e ci soffermiamo su "Whispers (Sadness Part 1)", il secondo pezzo, possiamo ovviamente captare quel forte sentore di struggenza che ammanta l'intero disco. Il pezzo si apre con delle delicate plettrate acustiche ed un cantato baritonale (chi ha detto Type O Negative?) che evolverà, contestualmente con la chitarra elettrica, in un growling più sofferente. La band comunque non schiaccia mai sull'acceleratore, mantenendo una cadenza compassata, decadente e guidata quasi interamente da una chitarra strappalacrime. Ad alimentare il senso di impotenza dei nostri, ecco che in "Tragedy in the Woods" compare accanto al vocalist, anche il canto di una delicata sirena, l'ospite Sury che presta la sua delicata ugola per stemperare il senso di angoscia generato da Julian al microfono. Il sound dei nostri mi ricorda quello che amai in un disco quale fu 'For the Loveless Lonely Nights' dei Saturnus, mai fuori dalle righe, mai esageratamente pesante, ma semplicemente un inno al doloroso mondo interiore che molti di noi possiedono. E io che amo immergermi in questo genere di sonorità, non posso che godere nell'ascoltare composizioni come queste che sembrano evocare, anche nelle eleganti note acustiche di "Flowers", un che del mitico esordio 'A Wintersunset​.​.​.' dei teutonici Empyrium ma anche un che degli americani Wyrding. Insomma, mica male per i nostri amici svizzeri. Già detto dell'intermezzo strumentale, con "Saddest Man (Sadness Part 2)" comincia la seconda parte dell'album che sembra acquisire una maggiore robustezza a livello ritmico rispetto alla prima parte, con delle chitarre più violente che si sostituiscono all'arpeggiato che abbiamo ritrovato un po' ovunque nella prima parte. Anche la voce si rivela qui decisamente più aspra. La linea melodica rimane intanto forte e convincente, però il pezzo mi dà modo di assaporare una versione più aggressiva degli Shrines of Dying Light e non posso che esserne felice. E questa linea cosi oscura, un che di gothic e dark metal che si fondono insieme, si conferma anche nella successiva "Void", il pezzo forse più crudo e irruento di 'Sadness'. Con "Farblos"sprofondiamo infine in un death doom nero come la pece, coadiuvato da una ritmica più pesante e profonda, il tutto peraltro cantato in tedesco (farblos significa senza colore), con il vocione di Julian qui ancora più vicino a Peter Steel per quel che concerne la performance vocale. Il brano si assesta sui nove minuti che forse si rivelano un po' eccessivi per questa proposta musicale. Alla fine 'Sadness' è un disco intrigante, alquanto originale, collocandosi a cavallo tra più generi, death, doom, gothic, dark e funeral, il tutto letto peraltro assai spesso in chiave acustica. Sia chiaro, non si tratta di un album di facile ascolto, però sicuramente merita un'occasione. (Francesco Scarci)

giovedì 26 novembre 2020

Shattered Hope - Vespers

#PER CHI AMA: Death/Doom, Mourning Beloveth
Terza recensione per i greci Shattered Hope qui nel Pozzo dei Dannati. Dopo aver esaminato 'Absence' e 'Waters of Lethe', rispettivamente debut album e secondo disco, ecco che ci troviamo alle prese con il terzo lavoro, 'Vespers'. Il quintetto ateniese ci propone altre cinque tracce di death doom oscuro e minaccioso, che francamente poco aggiunge alle uscite precedenti dei nostri e apre semmai ulteriori dubbi sullo stato di forma di un genere musicale ultimamente privo di grandi spunti. Si parte con i 13 minuti di "In Cold Blood", fatta di sfuriate nella prima parte che rallentano paurosamente già dopo tre giri di orologio per sprofondare negli abissi di un funeral mortifero e angosciante che fondamentalmente non cambia di una virgola le mie parole del 2011. Alla faccia della coerenza musicale, ogni tanto una qualche variazione al tema ci starebbe anche bene, altrimenti il rischio di cadere nell'autoplagio si fa più concreto. Rispetto ai dischi precedenti continuo a non sentire davvero alcuna modifica al tema, se non qualche sporadica accelerazione death nella prima traccia, una forte vena malinconica nella seconda "Verge", che rientra comunque in tutte quelle peculiarità stra-abusate dal genere che sembra ormai essersi incagliato in una pericolosa involuzione di stile. In questa traccia molto atmosferica, c'è l'utilizzo di una voce pulita che va a controbattere il growling graffiante di Nick. La song poi inevitabilmente ammicca qua e là a gente del calibro di Saturnus e Mourning Beloveth, ricordandoci tuttavia che questo genere cosi suonato, risale ai primissimi anni '90 con Anathema e My Dying Bride. Quindi perchè non si prova a sperimentare un qualcosa di diverso che i soliti riffoni plumbei triti e ritriti a cui dare seguito con azzannate quasi post black come si sentono sempre in "Verge", dove addirittura fa la sua comparsa la voce di una gentil donzella sul finale. Si, apprezzabile, ma serve altro a far emergere queste realtà da un calderone infinito di band tutte simili le une alle altre. Un ottimo assolo potrebbe giovare ed eccomi accontentato; dai le cose sembrano risollevarsi. "Συριγμός" è un discreto tentativo di utilizzare il greco nelle liriche, ma poi a livello musicale, ci snteo ancora puzza di stantio con un sound che non accenna a decollare nè in una direzione nè in un'altra, non è apocalitticamente funereo, tanto meno devastante, lo trovo ripetitivo e qui nemmeno un bridge chitarristico riesce a risollevarmi dal torpore di un ascolto un po' piattino che ancora stenta a trovare un picco di interesse, se non a livello strumentale per il largo spazio concesso al sound del basso che a braccetto con un chitarrismo di scuola svedese disegna una ritmica truce, una sorta di Dismember sparati a rallentatore. Un fantastico violino si prende la scena per ben oltre due minuti in apertura di "Towards the Land of Deception", poi spazio ad un incedere lento e melmoso che ci conduce con una certa flemma alla conclusiva "The Judas Tree" che riprende ancora con delle splendide note di violino che rendono la song di ben 15 minuti decisamente più accessibile, con la voce del frontman che qui è drammatica e decadente e ben ci sta nel contesto generale di quello che alla fine sarà il mio brano preferito. Un lavoro onesto questo 'Vespers' che necessita ancora una maggiore dose di personalizzazione per il futuro. Per ora confermo quanto detto in passato. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2020)
Voto: 66

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/vespers

domenica 8 novembre 2020

Intaglio - S/t

#PER CHI AMA: Funeral Doom
A distanza di 15 anni dalla data del rilascio ufficiale del debut album dei russi Intaglio, la Solitude Productions ha pensato bene di tornare a riproporre quel lavoro completamente remixato, con un nuovo artwork, un interludio in più e i titoli delle canzoni tradotte in inglese (tanta roba insomma). Era il 15 ottobre 2005 allora, è il 15 ottobre 2020 oggi, quando la release ha spento le sue prime 15 candeline. Per chi non li conoscesse e per chi non avesse mai avuto a che fare con la label russa, beh sappiate che fra le mani abbiamo un discreto lavoro di funeral doom, che parte dalle abissali sonorità di "Dark Cherry Day" che per 12.57 minuti (13 secondi in meno della traccia originale), ci spingono nel profondo con le catacombali atmosfere create dal combo originario di Orël. Gli ingredienti inclusi in questo lavoro sono inevitabilmente i soliti, con le classiche ritmiche a rallentatore, le voci dall'oltretomba e qualche lungo frangente acustico che stempera una pesantezza a tratti sfiancante per quanto desolante essa sia. Il brano non disprezza nemmeno una certa vena melodica, chiaro che per chi non mastica il genere, non è che sia cosi facile avvicinarsi ad una proposta cosi conservatrice. "Interlude" lega con la sua placida malinconia strumentale il precente pezzo con "Solitude", per un'altra estenuante song di nostalgica battaglia interiore. Oltre dodici minuti di sonorità opprimenti che seguono sulla falsariga, quanto tracciato dal precedente brano, insomma la colonna sonora ideale per chi è rimasto recluso in casa in uno dei tanti lockdown sparsi nel mondo e stia vagamente pensando a farla finita. Ecco, "Solitude" credo che potrebbe dare la giusta spinta a tutti coloro che si trovano in tale situazione di equilibrio precario, quindi vi prego, maneggiate con cura e se non siete proprio dell'umore giusto, beh forse è meglio posticipare l'ascolto degli Intaglio a tempi migliori. Soprattutto perchè a rapporto mancano ancora gli angoscianti dieci minuti di "Wind of Autumn" (nella sua versione originale peraltro ne durava più di 17): la song parte piano con lievi tocchi acustici che lasciano ben presto il posto ad un riffing marcato, pesante, plumbeo quanto basta per darci il colpo di grazia definitivo e farci sprofondare nella disperata mediocrità della nostra vita. Amen. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Weird Truth Productions - 2005/2020)
Voto: 68

https://intaglio.bandcamp.com/album/intaglio-15th-anniversary-remix

domenica 23 agosto 2020

Рожь - Один сажень/Остов

#PER CHI AMA: Funeral/Black/Doom
Quella di oggi è una one-man-band proveniente dalla Carelia, quella regione russa al confine con la Finlandia descritta peraltro nel lavoro 'The Karelian Isthmus' degli Amorphis. A parte queste divagazioni geografico-musicali, la band si chiama Рожь che in italiano starebbe per segale, quanto meno stravagante come moniker. Detto questo, il lavoro contiene in realtà 'Один сажень' e 'Остов', i due EP del mastermind russo e sembra narrare una breve storia su un vecchio morto che nessuno sapeva chi fosse. Purtroppo la lingua cirillica non mi aiuta a capire molto di più, e allora meglio concentrarsi sulla musica. I primi quattro brani sono estratti da 'Один сажень' e si aprono con le soffocanti atmosfere di "Один", il cui sound sembra immediatamente delineare la direzione funerea intrapresa dal polistrumentista sovietico. Si, stiamo parlando di funeral doom, in una versione che si avvale di corpose e melodiche linee di chitarra che evocano il duo Draconian/Saturnus con dei vocalizzi growl che a malapena si percepiscono in background. Grande spazio è lasciato a lunghe pause ambient che caricano di una certa tensione l'aria già di per sè rarefatta del disco e così, di quasi 10 minuti di musica, quasi il 50% è affidata a queste minimaliste parti atmosferiche, in cui sembrano esserci eteree voci in sottofondo. Il risultato è convincente e mi spinge a volerne sapere di più e quindi affrontare con maggior spensieratezza le successive tracce. Ecco quindi susseguirsi la brevissima "Платье под железом", ponte per la più abrasiva "Головы", vera tormenta post-black che evolve in sonorità più black doom oriented. A chiudere il primo capitolo la ritualistica "Сажень", affidata al solo cantato del musicista russo e a delle spettrali tastiere in background. La seconda parte del disco include le tre song di 'Остов', aperte dagli archi di "Пасха", sicuramente un bel biglietto da visita per l'ascoltatore. L'introduzione è sempre abbastanza lunga e sembra essere la virtuale continuazione della precedente traccia, prima che inizi ad infuriare il mastodontico sound delle sei-corde (prima lento e poi impetuoso) e l'efferato screaming del vocalist, in un altro pezzo tipicamente post-black, sebbene il finale riservi curiose contaminazioni. La pseudo strumentale "Рукава и сажа" rivela le influenze per il nostro polistrumentista derivanti, a livello chitarristico, dallo sludge che ben si coniugano col doom e il post che spopolano un po' ovunque all'interno del disco. In chiusura, la title track, altri quattro minuti di non musica, fatta da voci evocative e parti ambient affidate agli archi che stimolano non poco l'immaginazione di chi sarà pronto e senza paura ad immergersi in questo viaggio targato Рожь. (Francesco Scarci)

martedì 9 giugno 2020

Diablerets - II: Scarborough

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
Non sono proprio un grande fan dei Diablerets e credo l'abbia inteso anche il mio interlocutore che mi ha inviato la loro ultima fatica, dicendomi "dagli un ascolto ma non è proprio necessario che tu lo recensisca". Credo che tema un altro giudizio caustico da parte del sottoscritto dopo aver bistrattato il 7" del 2015 e non aver certo avuto parole al miele per il loro atto I del 2014. Il duo elvetico torna con le stralunate atmosfere di 'II: Scarborough' e le conusuete demoniache presenze si palesano già dall'opener "Scarborough", ossia una località turistica della contea del North Yorkshire sulla costa est inglese che deve aver particolarmente ispirato il duo svizzero (visto che qui hanno anche registrato l'album). La proposta è nuovamente all'insegna del drone più minimalista e durante il suo ascolto solo gli incubi più reconditi potranno affiorare dalle vostre distorte menti. Se non sapessi che il disco è uscito nel 2019, avrei immaginato che fosse stato concepito nel periodo di lockdown e che tutti i pensieri più insani fossero stati partoriti dalle menti alterate di Liönhell e AsC13 durante la loro reclusione forzata. I quasi 13 minuti di "Ravenscar" (altra località inglese) sono quanto di più proibitivo io sia stato in grado di affrontare in vita con il morboso dronico incedere dei nostri che viene invaso da uno spaventoso rituale con tanto di voci raccapriccianti in sottofondo, sebbene ci sia una parvenza di musicalità in background rilasciata da un malefico organo. Poi solo suoni del mare forse registrati proprio sul litorale britannico a chiudere il pezzo. "Devil's Dyke" fortunatamente dura un po' meno sebbene il risultato non cambi poi molto, fatto salvo per l'apocalittica presenza al microfono di R.M. degli Urna. Sono comunque suoni solo per menti stabili, io che stabile non lo sono, ho rischiato di finire pazzo e schiacciato dalla delirante componente sonica di questi artisti strampalati. "Coffinswell" e "Leatherhead" sono gli ultimi due oscuri episodi di questa dannata e mortifera release, il cui target francamente, si mantiene relegato ad un ristrettissimo numero di fan, che ancora una volta, non include il sottoscritto. Malvagi. (Francesco Scarci)