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sabato 25 novembre 2023

Hence Confetti - S/t

#PER CHI AMA: Math/Djent
I più attenti che seguono il Pozzo dei Dannati da parecchio tempo, si ricorderanno che abbiamo recensito un paio di dischi dei Mish. Ecco, il frontman di quella band, Rowland Hines, ha pensato di fondarne una tutta nuova durante la pandemia. I nostri, che rispondono al buffo nome Hence Confetti, debuttano quindi per la Bird's Robe Records (la stessa etichetta dei Mish) con questo EP autointitolato che sembra ammiccare al poliritmico sound dei Meshuggah, un genere, il djent, che avevamo comunque apprezzato anche in 'Entheogen' e 'The Entrance' dei già pluricitati Mish. Quindi, facendo tesoro di quell'esperienza, il buon Mr Hines coniuga alla grande le sonorità djent con il math, come palesato nella seconda "Buttons", tra chitarroni pesantissimi e suoni obliqui, il tutto corredato da un growling furibondo e opprimente. Non mi sono dimenticato dell'opener "New Homes" ovviamente, dove gli australiani fanno confluire un che di Devin Townsend nelle note più crepuscolari di un pezzo comunque interessante, una sorta di apripista per un disco che sembra comunque rimanere senza contorni stilistici ben definiti. Questo perchè "Rorschach" (chissà se c'è un qualche riferimento al test psicologico per l'indagine della personalità) si palesa come un delicato pezzo strumentale che poco ha a che fare con i brani precedenti ma sembra piuttosto un lungo e forse tedioso bridge per la seconda parte dell'EP. E "Ovation" e "Bandages", sebbene una introduzione più meditabonda la prima, tornano a impressionare con ritmiche violente più in linea con "Buttons" e parti atmosferiche, che mi hanno evocato in ordine i Lingua, i Tool e nuovamente il folletto canadese. La conclusiva "Bandages", nella sua dirompente violenza sonora, pur peccando a livello produttivo, quasi fosse stata registrata in modo completamente diverso dalle altre tracce, si dimostra la song più diretta, solida, Tool-oriented e ipnotica del lotto. Insomma, quello degli Hence Confetti (peccato solo che questo moniker faccia perdere un filo di credibilità ai nostri) si dimostra un buon biglietto da visita che auspico possa concretizzarsi in un più curato e lungo album futuro. (Francesco Scarci)

martedì 24 ottobre 2023

Meshuggah - ObZen

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Djent/Techno Death
Dai riff nodosi alle complesse indicazioni di tempo, 'ObZen' dei Meshuggah, spinge i limiti del metal estremo. Pubblicato nel 2008 (e recentemente ripubblicato in occasione del suo quindicinnale), l'album fonde abilmente brutalità ed eleganza, segnando una nuova era per il genere. La traccia di apertura, "Combustion", dà il tono all'album, intrecciando intricati e dissonanti schemi poliritmici in una potente dimostrazione di aggressività. "Bleed", probabilmente la traccia migliore, mostra la meticolosa magia tecnica del batterista Tomas Haake mentre comanda i ritmi intricati che sono alla base della voce gutturale di Jens Kidman. "Pravus", un'altra traccia chiave, vede la band manovrare brillantemente attraverso progressioni di chitarra dissonanti e indicazioni di tempo complesse, conducendo gli ascoltatori in un viaggio caotico ma intrigante. Nella traccia finale, "Dancers To A Discordant System", la band scandinava sperimenta abilmente con il groove, mostrando un lavoro di chitarra strabiliante che oscilla tra dissonanze stridenti e versioni melodiche. La traccia finale, "Pineal Gland Optics", lascia gli ascoltatori su una nota cruda e viscerale, riecheggiando l'intensità complessiva dell'album. Le complesse strutture ritmiche abbinate a voci minacciose creano un paesaggio sonoro avvincente che sfida lo status quo. Per ogni fan del metal tecnico e progressivo, 'ObZen' è un must da non farsi scappare, un lavoro di incrollabile intensità che integra efficacemente l'abilità tecnica della band con la loro caratteristica brutalità sonora. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast/Atomic Fire Records - 2008/2023)
Voto: 90

https://www.facebook.com/meshuggah

martedì 8 agosto 2023

Kodiak Empire - The Great Acceleration

#PER CHI AMA: Math Rock/Prog
Gli australiani Kodiak Empire tornano sul luogo del delitto con un nuovo e breve (mezz’ora tonda tonda) quarto album, sotto la super visione della Bird’s Robe Records. ‘The Great Acceleration’, un concept album che affronta i temi della crisi climatica e dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, si presenta come un mix di rock progressive, post-rock, ambient, math e sperimentalismi vari. Il disco si caratterizzata sin dall’iniziale “The Difference”, da melodie evocative e influenze che chiamano sicuramente in causa i conterranei The Mars Volta e gli ultimissimi Tesseract, con un fare a tratti un po’ troppo pop per i miei gusti. A far da contraltare a queste sonorità un po’ ruffiane, ci pensano però giri di chitarra ipnotici, che sembrano trarre linfa vitale dal math rock ma qualcosina anche dal djent, cosi come pure quei lunghi e poderosi assoli dall’elevato tasso tecnico, tengono la band di Brisbane ancorata a un rock decisamente robusto. E “Within the Comfort” non fa altro che ribadirlo, con quel suo inizio tumultuoso e super distorto, anche se non appena entra la morbida voce del vocalist, il suono diventa decisamente più mellifluo. Non temete comunque, visto che nel corso del brano ci sarà un’alternanza di tempi, sorretti da ritmiche sostenute, sghembe ed imprevedibili che indirizzano i nostri nuovamente verso lidi math. E questa fondamentalmente sembra essere la forza dei Kodiak Empire, ossia accostare l’irruenza del rock progressivo (che tende talvolta a sfociare nel metal) con il pop. Certo, qualcuno storcerà il naso alla parola pop (me compreso), ma questa è la peculiarità del quintetto australiano. Un pezzo come “Animist” mette in luce un’anima più alternativa, ma la cosa che più mi ha colpito qui è in realtà un drumming estremamente fantasioso coniugato ad un intrigante gioco di atmosfere guidate da un synth dai tratti malinconici. “Maralinga”, complice la sua breve durata, la leggo più come un ponte tra “Animist” e la conclusiva “Marcel”, anche se nei suoi 141 secondi, condensa il lato più sperimentale della band, tra sinuose partiture atmosferiche, turbamenti noise e schitarrate metalliche. In chiusura, la già citata “Marcel” si srotola lungo i suoi quasi nove minuti, attraverso atmosfere suffuse, ammiccamenti pop (complice anche qui il cantato eccessivamente ruffiano del frontman), cambi di tempo bizzarri e gagliarde accelerazioni, peraltro in combinazione con un inatteso growling, che alla fine spariglia completamente le carte in tavola e ti spingono a volerne di più. Invece, il disco si ferma qui, come se voglia ingolosire gli ascoltatori in vista di un nuovo travolgente lavoro dei Kodiak Empire. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records – 2023)
Voto: 73

giovedì 3 agosto 2023

Aeffect – Theory of Mind

#PER CHI AMA: Techno Death
Dopo una demo di soli due pezzi rilasciata nel 2022, tornano i britannici Aeffect con il loro album d’esordio che ingloba anche gli stessi due brani che li aveva visti debuttare. La proposta del duo inglese (che vede peraltro come precedenti band i Sarpanitum e gli Xerath) è un qualcosa che va vicino alle proposte delle vecchie band, ossia un death metal super ritmato che vede un utilizzo di super tonanti chitarra fin dall’iniziale “Patronage”, song che lascia intravedere anche i Meshuggah come principale fonte di ispirazione per i due musicisti, Mark Broster (basso, chitarra e voce) e Mike Pitman (il possente batterista ex Xerath appunto). Il sound è davvero pesante e distorto, mai veloce e costantemente supportato da un growling profondo. Impressionante sicuramente il lavoro dietro le pelli (Mike è mostruoso, ma questo già lo sapevo), e notevole è anche il lavoro un po’ sbalestrato delle linee di chitarra. Mi piacciono, hanno le palle, per quanto siano un po’ ostici da digerire, almeno al primo ascolto. Ci provano infatti a gestire la difficoltà di assimilazione, infarcendo il tutto con continui cambi di tempo e qualche melodia, ma in generale la musica inclusa in questo ‘Theory of Mind’ è davvero spigolosa. Forse ancor di più man mano che l’ascolto procede attraverso pezzi claustrofobici, a livello ritmico, come possono essere “Retraction”, spaventosa in quel suo ridondante ma ipnotico muro ritmico. Cosi come pure la successiva “Emergent Behaviour” che mostra una certa asperità nella sue sghemba intelaiatura metallica, in un sound in cui a mettersi in luce sono le sinistre parti atmosferiche che provano ad attenuare quel vigore metallico di cui è comunque intessuto il brano. Quello che emerge dopo aver ascoltato i primi tre pezzi, è sicuramente una notevole compattezza ritmica unita ad tecnica musicale sopraffina che si dipana attraverso una ridda di riffoni matematici come accade in “Leading to Decay”, un altro esempio di metallo ribollente che ha probabilmente il difetto di peccare in un’eccessiva ricerca di ritmiche scardinanti, quasi cervellotiche, sfumate qui da un semplice arpeggio che allenta quella tensione che fino a qui ha annichilito brutalmente i nostri sensi. La title track prosegue in quest’opera di stritolamento ritmico, guidato da un caustico moto sonoro, in cui emerge forte l’energico lavoro di basso, batteria e chitarra a creare un’architettura sonora, il cui effetto conclusivo sarà di privarci del tutto del respiro, quasi come se qualcuno ci avesse tirato un pugno sullo sterno che si riflettesse in una totale mancanza di fiato. “Manifest” è il pezzo forse più facile a cui accostarsi, complice una maggiore dose di melodia e una più ricercata costruzione delle atmosfere, anche se qui non mancano delle accelerazioni più furibonde che da altre parti, e la band non rinuncia a quel rifferama marcatamente obliquo e ai vocalizzi gutturali del frontman. Uno stridulo riffing iniziale apre invece “Acceptance”, un altro pezzo sghembo nel suo incedere ma soprattutto violento nelle raffiche di mitragliatrice sferragliate dalla batteria, che quasi va ad offuscare il cantato di Mark. Poi un bel po’ di atmosfera e via per l’ultimo giro affidato a “Dematerialise” e ad un incedere slow-motion orrorifico che non ha più niente da chiedere e niente da dare. Quella degli Aeffect è alla fine una buona prova, da masticare e digerire in più riprese, ma che lascia intravedere grandi potenzialità per il futuro, se la band sarà in grado di vedere al di là dei propri schemi precostituiti. (Francesco Scarci)

giovedì 8 dicembre 2022

Behind Closed Doors - Caged in Helices

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal
È un trio internazionale quello dei Behind Closed Doors (stravagante questo moniker), formato da prodi menestrelli provenienti da Germania, Paesi Bassi e Svezia, che si sono trovati per rilasciare questo affascinante affresco di post metal strumentale. Sapete quanto storca il naso a non avere un cantato eppure questo 'Caged in Helices' riesce a superare egregiamente la prova del fuoco anche senza un vocalist. Questo perchè i nostri non sono certo degli sprovveduti, avendo arricchito la propria proposta metallica di archi (tra cui Ben Mathot degli Ayreon) che vanno a colmare il vuoto lasciato dalla voce. Questo quanto si può ascoltare già nell'iniziale "The Anti Will", che nei suoi otto minuti ne fa proprio di tutti i colori, attraversando un corridoio fatto di post-rock, post-metal, suoni cinematici e ancora math rock, progressive, musica classica e potrei continuare all'infinito, aggiungendo anche soundtrack e djent, con quella granitica chitarra in chiusura, una vera mazzata nei denti. Spettacolo puro. "Kaleidoscope Antlers" riparte da questo potpourri di generi e stili, da un bel chitarrone avvolto dagli archi che potrebbero evocare in un qualche modo i Metallica ai tempi dell'esperimento sinfonico di 'S&M'. Tecnica squisita, eleganza musicale e ricerca per la melodia contraddistinguono questa e le song a seguire, di cui sottolinerei le due maratone affidate a "Black Pyramid" e "Ad Aspera Adastra, But Why And For What?", due pezzoni tra i nove e i dieci minuti che sottolineano, manco ce ne fosse bisogno, le eccelse qualità compositive della band. La prima delle due peraltro sfoggia una linea di basso davvero da urlo che entra nel cervello e da li non ne esce più. Questa poi è la canzone dove forse la componente orchestrale è meno invasiva e il sound decisamente più incisivo, anche se un paio di break atmosferici ne bilanciano l'irruenza ritmica. In "Ad Aspera..." viola, violino e violoncello tornano a far danni, insinuandosi nelle trame sofisticate di una song dal piglio decisamente minaccioso. Peccato per un lunghissimo break centrale che renderà il brano più suscettibile allo "skip". Il pezzo che poi in realtà ho maggiormente apprezzato è "The Essence of Doubt", con quella sua chitarra orientaleggiante e la sua coda djent, ipnotica quanto basta per tenermi agganciato ad un lavoro che, per quanto privo di un cantante, ha tutte le carte in regola per spaccare culi a destra e a manca. (Francesco Scarci)

domenica 15 maggio 2022

Barús - Fanges

#PER CHI AMA: Prog Death/Sludge
Ricordo di aver positivamente recensito i Barús in occasione del loro EP omonimo nel 2016, bollandoli come una versione più violenta dei Meshuggah. La band che ritrovo oggi mostra un rinnovato spirito che probabilmente è passato attraverso il claustrofobico esordio su lunga distanza rappresentato da 'Drowned' e che arriva oggi a questo nuovo e particolare EP di due pezzi intitolato 'Fanges', che mi restituisce, come dicevo, una band assai diversa rispetto al passato. Si perchè la title track che apre il disco, nei suoi 19 minuti, mostra un piglio decisamente compassato (in alcuni frangenti addirittura ambient) per quasi nove giri d'orologio, con un incedere ipnotico che trova sfogo in un post death metal a tratti sghembo e questo rappresenta un po' il punto di forza del quartetto originario di Grenoble. Le vocals si muovono poi tra equilibrismi death e altri più puliti, mentre le melodie oscillano tra ammiccamenti ai The Oceans e ingarbugliamenti catramosi che evocano Ulcerate e gli stessi Meshuggah d'inizio recensione. Il brano si arresta un paio di minuti prima dell'epilogo, lasciando spazio ad una parte acustica di cui francamente non ho ben capito la funzione, ma andiamo avanti e facciamoci investire da "Châssis De Chair", un pezzo decisamente più old style, essendosi affidato a sonorità più death oriented. Ma i nostri oggi amano contaminare il proprio sound con suoni più atmosferici, sludgy, riflessivi, storti e distorti, senza tralasciare il fattore imprevedibilità, tutte caratteristiche che eruttano nel corso del quarto d'ora affidato alla seconda song. I riffoni, di scuola polifonica, rimbombano nelle nostre casse con un'intensità ed una violenza davvero poco rassicuranti. I riff si confermano, anche nei momenti più ragionati, tortuosi dall'inizio alla fine della bagarre e vanno ad accompagnare le oscure growling vocals di Mr K. Insomma tanta carne al fuoco per sole due song a disposizione credo possa essere presagio di grandi cambiamenti in casa Barús. Staremo a sentire cosa ci riserva il futuro con maggiore curiosità. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2021)
Voto: 75

https://barus.bandcamp.com/album/fanges-ep

venerdì 15 aprile 2022

TesseracT - Regrowth

#PER CHI AMA: Djent
La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina spaventa il mondo. Le iniziative a sostegno dell'Ucraina però si stanno moltiplicando a vista d'occhio, anche in ambito musicale. Gli ultimi a darne esempio sono i TesseracT che hanno annunciato l'uscita di 'Regrowth', uno speciale "double A-side", come da loro definito, per raccogliere fondi per aiutare la gente ucraina e non solo, anche altre crisi umanitarie in giro per il mondo. E allora, anche se i brani sono solo due, ma è in arrivo un nuovo full length da parte dell'act inglese non temete, perchè non dare intanto una mano, contribuendo al sostegno della causa, e nel frattempo vi godrete un paio di pezzi nuovi in classico TesseracT style, ossia un djent di buonissima fattura, il cantato inconfondibile di Dan Tompkin, quel basso tonante scatenato in "Hollow" che avevo amato fin dal debut 'One', e quelle chitarre liquido-eteree che si palesano in "Rebirth". I TesseracT rimangono dei fighi, una versione decisamente più catchy dei Meshuggah, ma comunqueuna band che oltre ad essere fenomenale musicalmente parlando, ora si conferma anche estremamente intelligente. Ma non ne avevo dubbi. (Francesco Scarci)

sabato 26 marzo 2022

Once Human - Scar Weaver

#FOR FANS OF: Groove Metal
This album didn't strike me initially as something pivotal in the groove metal scene, but it kind of wore on me. I have utmost respect for the band and their music, it's just not my favorite genre. They firstly sounded a bit metalcoreish but they're not. The music is quite good, reminds me a little of Pantera's 'Far Beyond Driven' with differing vocals. The songs are slow and catchy and the vocals are decent. It's female vox on this one and she does quite a good job in that department. This album also reminds me a little bit of Djent style riff-writing, but not quite there. Not to be confused with Meshuggah-esque type of guitar playing.

I dug most of this release minus the fact that they're a little atypical for my taste. The guitars (aside from Djent) were pretty catchy and noteworthy. I didn't have much of a negative thing to say about them. They're just weird, I suppose. I like the clean vocals when they exhibited them though both formats they were good! The production quality was also good, too. This band is just an acquired taste. I only took off points when I felt that the music seemed to get way "out there." But for the most part, I enjoyed this.These guys make quality groove metal. Some songs remind me (again) of Pantera's song "Shedding Skin."

Why am I giving this a "B-" then if I'm speaking so highly of their performance? I'm not liking the music as much as I should I suppose. There aren't many leads (if any) and the music could've been a little better. The rhythms seem to go on for an eternity nothing really happens and then BOOM! The next song plays. I think though the vocals went in tandem with the music. That's the good part of the album. They really did a good job with keeping it groovy and shouting vocals in agreement with the songs. I would definitely refer listeners to hearing this if they're open minded about different genres of metal.

Overall, I like this band. I'm not sure how much of them are coming out with more new releases in the future but I sure hope so! They are a talented band and I'm sure it took a while to formulate music for this release. And make it into their own despite the similarities to Pantera or not. The vocals are outstanding and the music is better than average. I think that if they can bump it up in the music department then I would've given this a better rating. All in all, it was a good purchase for me and my collection. I'm looking forward to many a more albums in the future by them to own! Take a listen! (Death8699)


(earMUSIC - 2022)
Score: 75

https://oncehumanofficial.com/

mercoledì 14 luglio 2021

Mish - Entheogen

#PER CHI AMA: Post Metal/Djent
Tra le uscite discografiche della label australiana Bird's Robe Records, volte a celebrarne i 10 anni di attività, figura 'Entheogen', secondo album dei loro connazionali Mish, originariamente uscito nel 2017. I Mish li avevamo già conosciuti all'epoca del loro debut, 'The Entrance', nell'ormai lontanissimo 2011. In questo secondo lavoro i nostri si ripresentano con un sound sempre robusto, a cavallo tra djent, post metal, math e qualche digressione in territorio post rock. Si parte discretamente con la feroce opener "Artax", ma è in realtà con la successiva "Red Fortune", che i nostri riescono meglio a mettersi in mostra, sia a livello tecnico (li definivo chirurgici in occasione della precedente release e non posso far altro che confermarne il concetto) che a livello melodico e in termini di originalità. Se dovessi pensare ad un qualche confronto da fare con altre entità del panorama musicale, penserei ai Meshuggah che si mescolano con un che degli Isis e con i loro compagni di scuderia Dumbsaint, in una proposta ove a mettersi in luce è anche il graffiante growling del frontman. La breve "Lyre Bird" si presenta come espressione musicale di violenza inaudita, con linee di chitarra ipnotiche, a tratti ridondanti, ma sempre belle possenti. Da li in poi, in corrispondenza della title track, il sound del combo australiano sembra virare drasticamente verso lidi post rock, grazie ad un arpeggio aggraziato in apertura e delle atmosfere quasi eteree a richiamarmi gli *Shels. Il brano è il primo di una serie in cui la band sembra mostrarci l'altra faccia della loro medaglia e lo fa con melodie, atmosfere e vocalizzi (puliti) completamente differenti dalla prima parte del disco, quasi stessimo ascoltando un'altra realtà musicale. E alla fine sapete che non ho ancora ben capito se apprezzo maggiormente questo lato più sognante della band (che tornerà anche nelle successive "Socrates", strumentale caratterizzata da un piglio stile ultimi Isis, nella lugubre melodia di Lung" o nella litanica conclusione affidata a "Thylacine") o quello più abrasivo che ha ancora modo di palesarsi nell'acidissima "Pinata" e nella schizoide "Verterbrae" (in realtà quest'ultima un mix tra le due facce della medaglia Mish). In attesa di capirne qualcosa di più, vi lascio all'ascolto di questa stravagante creatura australiana, forse alla fine potreste darmi una mano a comprendere meglio quale dei mondi targato Mish risulterà essere il più intrigante. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2017/2021)
Voto: 74

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/entheogen

venerdì 16 aprile 2021

Caelestra - Black Widow Nebula

#PER CHI AMA: Post Black/Melo Death
È un death black dal forte impatto emotivo quello della one-man-band britannica Caelestra che nel debut 'Black Widow Nebula' ci delizia con sette pezzi e poco più di mezz'ora di sonorità estasianti. La musica di Frank Harper, polistrumentista di Bristol, scivolano via che è un piacere a partire dalla stratosferica opening track "Solaris", che evidenzia tutte le qualità dell'artista inglese, che tra post black e oniriche parti atmosferiche, screaming e sofisticate clean vocals, mi dice che quello che ho fra le mani è uno degli album più interessanti dell'ultimo anno. Nella prima parte di "The Astral Sea" siamo nei paraggi di un prog metal delicato e soffuso, nella seconda più vicini alle sonorità cinematiche dei Fallujah, in un pezzo a dir poco celestiale. Ma l'apice a mio avviso lo tocchiamo in "Cassiopeia", cosi ricca di groove che permette al mastermind di oggi di scrollarsi definitivamente di dosso la scomoda etichetta black. "In Utero" è un intermezzo ambient noise che ci introduce ad "Everglow", dove ad aspettarci c'è un'altra intro vocale davvero spettacolare, ricca di malinconia e che evidenzia ancora le sorprendenti qualità vocali del frontman, con parole dapprima sussurrate alla musica che va via via crescendo in intensità senza mai realmente minacciare di sfociare in una vera baraonda sonora. Arriva ahimè troppo presto l'atto conclusivo di 'Black Widow Nebula' affidato a "Caelum", emozionante nel suo incipit atmosferico, più tormentato nella sua grinta black che si affianca a fantastiche melodie progressive di scuola Opeth, che chiudono in modo esaltante questo sorprendente lavoro dei Caelestra, band da ora in poi, da tenere assolutamente nei vostri radar. (Francesco Scarci)

venerdì 28 agosto 2020

Meshuggah - Catch Thirty Three

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Swedish Death/Djent
Avevo 16 anni, quando acquistai nell’estate del 1991, il primo Lp dei Meshuggah, 'Contradictions Collapse', un album che era pesantemente influenzato dai primi lavori dei Metallica. Dopo 14 anni, 6 album e 4 EP, all'uscita di 'Catch Thirty Three', il combo svedese era già diventato una delle più importanti e influenti band in ambito estremo, e questo album avrebbe dovuto consacrare definitivamente il quintetto scandinavo. Tuttavia (e qui i fan più accaniti forse verranno a cercarmi a casa), quel lavoro mi deluse. Di primo acchito, ci si rende subito conto che per assimilare i 47 minuti che compongono l’album, servono molteplici ascolti. La musica poi non differisce più di tanto dai precedenti dischi: si rende solo più arzigogolata e schizzata, talvolta snervante al punto tale da farmi spegnere lo stereo e riprendere fiato. E ancora, in altri frangenti (quando la band si ferma, e per minuti si intestardisce a ripetere gli stessi accordi) risulta noiosa e ridondante. Sicuramente questo è l’album più sperimentale dei cinque ragazzi di Stoccolma: allucinati riff di chitarra in primo piano (chitarre a 8 corde, accordate bassissime) sorreggono una batteria totalmente impazzita (ottimo come sempre l’apporto di Tomas Haake dietro le pelli, a conferma del fatto che sia uno dei migliori batteristi in circolazione), e poi i classici controtempi su controtempi tipici dei Meshuggah, i ritmi spezzati, con il cantato urlato di Jens Kidman sopra. Concludendo, non posso dire assolutamente che questo 'Catch Thirty Three' sia un brutto album, però all'epoca mi aspettavo qualcosina in più. Ma d'altro canto, lo sapete anche voi, i Meshuggah si amano o si odiano, voi da che parte state? (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2005)
Voto: 67

https://www.facebook.com/meshuggah

venerdì 5 giugno 2020

Insidual - Pure Hate

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore
Il deathcore in US è diventato quasi un fenomeno sociale, ovunque le band suonano questo genere o suoi affini (metalcore, screamo, nu, etc). L'ultima band in cui mi sono imbattuto è rappresentata da questi Insidual, originari di Spokane nello stato di Washington, cosa alquanto inusuale visto che da quelle parti è invece il post (Cascadian) black a governare. Comunque 'Pure Hate' è un EP di tre pezzi che include anche il singolo uscito nel 2019, l'apripista "Shock Therapy". E il sound che si sente sin dalle prime battute è un deathcore fortemente ritmato, venato di influenze djent nella poliritmia delle sue chitarre e sporcato pure da una componente nu metal che per certi versi mi ha evocato un che degli Slipknot. La proposta è pertanto abbastanza corposa, con le solite chitarre decisamente ribassate, una voce growl che sembra quasi rappare, e il resto degli strumenti che donano ulteriore compattezza ai nostri. "Evisceration" continua su questa scia, con un sound disturbante, fatto di una sovrapposizione vocale psicotica, un riffing sincopato, un drumming rutilante, un'effettistica in background costantemente presente ed una serie di cambi di tempo e ritmo che sembra quasi di ascoltare tre canzoni differenti in una manciata di minuti, in cui compare anche il featuring di Sam Stickel. Molto interessante la conclusiva title track, vista la sua forte aura spettrale, e quei vocalizzi isterici che ben si amalgamano con una musica qui più ispirata che altrove, dotata sia di ottime atmosfere che di altrettante accelerazioni e frenate improvvise. Niente di nuovo sotto il sole alla fine con questa breve release degli statunitensi Insidual ancora legati ad alcuni stilemi del genere, ma vogliosi di imparare ed emergere. Sentiremo in futuro che cosa i nostri hanno imparato da questa prima esperienza. (Francesco Scarci)

domenica 17 maggio 2020

Jake Howsam Lowe - Oh Earth

#PER CHI AMA: Math/Djent strumentale
Dura ahimè solo una quindicina di minuti l'EP dell'australiano Jake Howsam Lowe, chitarrista dei The Helix Nebula e live-session dei Plini. Il musicista di Sydney è un funambolo della chitarra e la title track di questo 'Oh Earth', posta in apertura, me lo conferma, soprattutto perchè per una volta tanto riesco a concentrarmi molto di più sulla musica che sull'assenza di un vocalist. E quindi mi lascio trasportare dai giochi matematici diretti dalla magica chitarra di Jake che si lancia anche in furiose ritmiche che guardiano sia a Between the Buried and Me che ai Fallujah. Il gioco prosegue anche nella seconda brevissima "Breath", in cui il mastermind incanala tutta la sua energia in un caleidoscopico e ubriacante lavoro ritmico, lanciato davvero a tutta velocità, non una velocità fine a se stessa, nemmeno uno sterile esercizio di stile, ma con un tentativo volto a trasmettere delle emozioni attraverso un flusso quasi isterico di note che trova pace nella quiete solitaria del basso fluttuante (opera del jazzista australiano Callum Eggins) di "Another World". Una pausa per tornare più roboanti e isterici che mai in "Caverns", dove fa la sua comparsa un altro ospite alla chitarra, Stephen Taranto dei The Helix Nebula. E allora immaginate quanto ascoltato sinora sia sdoppiato in un duplice gioco di chitarre, una sorta di guardia e ladri tra due eroi dell'ascia, tra salite e ripide discese che sfociano nell'ultima "Refuge". Qui la terza e la quarta ospitata, carramba, con I Built The Sky
 responsabile del primo assolo e Jake Willson del secondo inebriante solo che chiude con eleganza un lavoro che funge da invitante antipasto per una release più lunga e strutturata. (Francesco Scarci)

martedì 17 settembre 2019

Isonomist - Pillars

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Meshuggah
Degli Isonomist dal web ho cavato meno di un ragno dal buco, zero informazioni a parte il fatto che il quartetto dal Texas si etichetta come progressive band. Ecco, partirei già col dire che allargherei un po' le maglie di questo stretto vestito, visto che la traccia di apertura di 'Pillars' ci consegna piuttosto una band che viaggia nei binari del metalcore. Comunque a parte questa necessità di etichettare le cose, c'è da dire piuttosto che la band propone cinque song parecchio vertiginose per ciò che concerne tempi dispari, ritmiche sghembe, melodie poliritmiche, tutte caratteristiche che identificano il djent, o comunque suoni affini ai Meshuggah o ancora una certa vena deathcore tipicamente americana. "Loss", "By a Thread", "Beta" e via via dicendo anche le altre song, viaggiano sui binari alquanto imprevedibili di tale musica, e in cui la definizione che ritenevo alquanto stretta di progressive, si potrebbe applicare esclusivamente per una certa perizia tecnica che contraddistingue questi musicisti. Per il resto, è il classico sound a cavallo tra metalcore e deathcore, con linee di chitarra non proprio lineari, i famigerati quanto stra-abusati stop'n go, le vocals che si muovono tra pulito e growl, e poco altro da segnalare, se non una più complicata fase digestiva rispetto agli originali, in quanto qui la melodia non è proprio una delle caratteristiche della casa, visto che il sound rischia addirittura di incancrenirsi in territori più estremi, come accade nella quarta "Fading". Manca ancora una traccia a chiudere l'EP, "Confessional", e apparentemente, sembra essere anche il brano più accessibile, sebbene ascoltandolo potreste pensare che il mio sia un eufemismo. Comunque 'Pillars' è un lavoro che rimane raccomandato per soli amanti del genere, per gli altri suggerisco come sempre di volgere lo sguardo agli originali. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 60

mercoledì 6 febbraio 2019

Down to the Heaven - [level-1]

#PER CHI AMA: Djent/Cyber/Deathcore, Meshuggah, Enter Shikari
Avete voglia di divertirvi, ascoltare qualcosa di moderno, carico di groove, con quel pizzico di ruffianeria che non guasta mai, senza dover rinunciare ad un bel po' di riff schiacciasassi? Beh, a prestarvi aiuto in tali richieste, ecco giungere dalla Polonia i Down to the Heaven, una band proveniente da Bielsko-Biała, che nel qui presente '[level-1]' fonde death metal, metalcore, arrangiamenti ben orchestrati, elettronica e djent, in un calderone di potenza e melodia davvero intrigante. Il tutto è testimoniato da "Catharsis" che segue a stretto giro quella che appare essere l'intro del disco, "Down to the...". Poi giù tante mazzate, con dei riffoni sparati a tutta velocità, ma con una componente melodica davvero vincente, che si muove tra influenze che chiamano in causa indistintamente Dark Tranquillity, Enter Shikari, Meshuggah, Coraxo, ...And Oceans e tanti altri, in un vibrante concentrato dinamitardo da sentire e risentire, meglio se sparato a tutto volume in automobile o comunque lasciato libero di fondervi le orecchie per il volume inaudito a cui dovrete sottoporlo. Stratosferico. Fenomenale, come la cavalcata furibonda che chiude "Unbroken", una song dal sapore esotico che da sola vale l'acquisto del cd. Per non parlare poi di quella cibernetica sensualità che contraddistingue le note iniziali di "No Vision", prima che l'arroganza elettrica prenda il sopravvento e ci delizi per quasi sei minuti di graffianti sonorità strumentali. Con "Kingdom of Delusion" fanno ritorno le vocals di Rusty in una song dai ritmi infuocati pur sempre carica di melodia, accostabile, molto più di altre tracce, ai Dark Tranquillity. Siamo quasi in chiusura, un peccato, a rapporto mancano però ancora "Tyrant's Fall", song debortante, che per quanto povera in fatto di originalità, ha comunque il merito di catalizzare l'attenzione per la pienezza delle sue ritmiche, le cyber trovate dei nostri che fanno da corredo ad una componente melodica sempre estremamente importante (qui si strizza l'occhiolino agli ultimi In Flames) e ad un finale sorprendentemente trascinante per intensità e profondità. "We Are" è una song dall'incipit rockettaro con un cantato che sembra quello del buon Chuck Billy, e un sound multiforme, psicolabile e che tocca vette brillantissime tra cyber metal, industrial e deathcore, a sancire l'eccelsa qualità dell'ennesima valida band proveniente dalla Polonia che ha davvero qualcosa da dire. (Francesco Scarci)

lunedì 7 gennaio 2019

Inira - Gray Painted Garden

#PER CHI AMA: Death/Groove/Djent, Meshuggah, Tesseract, In Flames
Nel 2018 il metal nostrano è andato alla grande anche al di fuori dei confini italici. Peccato solo che i friulani Inira abbiano dovuto firmare per l'etichetta ucraina Another Side Records (sub-label della Metal Scrap), per rilasciare il loro 'Gray Painted Garden', secondo atto dal 2005 a oggi per i nostri. Avessi avuto la mia label, avrei puntato alla grande sulla fresca proposta della band del Vajont, che tra echi meshugghiani a livello ritmico, un cantato graffiante (e un altro in versione growl) condito da chorus di sapore "in flamesiano", un background tipicamente a cavallo tra metalcore e post-hardcore, hanno reso la loro proposta davvero gustosa da ascoltare. La title track, posta in apertura, conferma immediatamente le mie parole con un pezzo dritto, piacevole, carico di groove (ottime le keys a tal proposito) e melodie ruffiane quanto basta per mantenere comunque intatta l'esplosività intrinseca alla musica dell'act italico. Ancora meglio "Discarded", con quel suo riffing a cavallo tra Gojira, Mesghuggah e Tesseract, ad individuare solo alcune delle influenze dell'ensemble friulano. Le vocals più pulite suggeriscono infatti un altro filone da cui i nostri traggono ispirazione, ossia quello più "mainstream" di Architects e Bring Me the Horizon, ma non fatevi fuorviare da queste mie parole, gli Inira sapranno coinvolgervi con sonorità belle intense, moderne e avvincenti. Bella scoperta, visto che le undici tracce qui incluse, sono tutte delle potenziali hit: detto delle prime due, "This is War" ha un approccio più oscuro (sulla scia dei primi Tesseract) nelle note introduttive acustiche, che la rendono solo in apparenza meno orecchiabile rispetto le precedenti. Si torna a far male con le sghembe melodie di "Sorrow Makes for Sincerity", un brano più cattivo che vede in Meshuggah ed In Flames i punti di contatto più evidenti per i quattro musicisti nostrani. Si prosegue con la più ritmata e malinconica "Venezia", una song in cui le chitarre ultra ribassate dei nostri, sembrano maggiormente echeggiare nei miei timpani, e in cui la porzione solistica ci rende testimoni dell'ottima prova alla sei corde di Daniele "Acido" Bressa. L'unica cosa che mi fa storcere il naso è quanto diavolo canta qui il buon Efis Canu Najarro. L'approccio oscuro evidenziato in "This is War", riemerge più forte in "Zero", una song davvero potente che ci prepara alla più alternative "The Falling Man", in cui emerge qualche affinità con i Deftones, cosa che si ripeterà anche nelle successiva "The Path", la più delicata, suadente ed ipnotica del lotto, a rappresentare anche il pezzo più erotico dei quattro giovani musicisti, sebbene la tensione vada lentamente aumentando sul finale. Analoga come sonorità anche "Universal Sentence of Death". Decisamente più interessante è l'iper ritmata "Oculus Ex Inferi": ottime melodie, coinvolgenti le atmosfere e niente male le sferzate ritmiche che accrescono l'incandescenza dei contenuti. Si giunge, madidi di sudore a "Home", ultimo atto di questo ottimo 'Gray Painted Garden' che ci ha riconsegnato, dopo un bel po' di anni, una band pronta a dire la sua nell'iper saturo mercato musicale. Ben tornati ragazzi. (Francesco Scarci)

mercoledì 22 agosto 2018

Extremities - Gaia

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Tesseract
Orfana dei Textures, la scena djent trova gli eredi della band olandese nella stessa Olanda con gli Extremities. Esordienti nel 2016 con un EP, 'Rakshasa', il quintetto di Eindhoven sbarca in questo 2018 con un debutto sulla lunga distanza, 'Gaia'. Otto pezzi di durata più o meno cospicua ("The Inward Eye" dura addirittura 18 minuti) che identificano la proposta musicale del quintetto tulipano che vede in Meshuggah, Gojira e gli stessi Textures, i riferimenti principale per il proprio sound. L'apertura è affidata alla granitica "Colossus", che strizza inevitabilmente l'occhiolino ai godz svedesi con le immancabili chitarre poliritmiche ed un vocione che richiama il buon Jens Kidman, mentre la musica vede alcune variazioni di natura electro-grooveggiante che permettono ai nostri di meglio caratterizzare la propria proposta e non risultare dei puri emuli delle band sopra menzionate. E il risultato non può altro che beneficiarne, visto anche un break dal sapore post-rock che si staglia a metà brano. Le ritmiche si confermano, come da tradizione, sghembe e disarmoniche sul finire dell'opener ma anche in altri pezzi successivi, e penso alla devastante "War" o alla più ritmata e "Reanimate", forse la song più legata al djent dell'intero lotto. Più ruffiana invece "Circular Motions" con quell'utilizzo di vocals pulitissime in stile Tesseract, per una song che si muove in territori più alternativi (e che tornerà anche successivamente in "Hydrosphere" e nella melliflua "Through the Dreamscape") e che peraltro vanta una sezione solistica da urlo. Violento l'attacco di "Emissary", con uno stile a cavallo tra death e thrash che cita indistintamente Pantera e Nevermore. Arriviamo all'ultima "The Inward Eye", un mattone di quasi 18 minuti, in cui le chitarre duettano con un sax mostrando la vena sperimentale di cui sono dotati i nostri in un saliscendi emozionale che arriva a chiamare in causa anche i Pain of Salvation, per una traccia che miscela abilmente deathcore progressive, jazz, dream-pop, djent e post rock e che non pone limite alcuno alla proposta musicale degli Extremities, forse i veri designati eredi dei Textures. (Francesco Scarci)

(Painted Bass Records - 2018)
Voto: 75

https://extremitiesnl.bandcamp.com/

giovedì 19 luglio 2018

Hertz Kankarok - Make Madder Music

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental/Prog, Tiamat, Riverside, Meshuggah
Non so assolutamente nulla di questo progetto solista a nome Hertz Kankarok, se non che la band arriva da Acireale e questo 'Make Madder Music' rappresenta il secondo EP per l'artista siciliano (qui coadiuvato da Andrea Cavallaro alle chitarre, al basso e ai synth, e dal fido Dario Laletta). La proposta dei nostri conferma quanto di davvero buono è stato fatto nel precedente 'Livores' e ancora mi domando per quale assurdo motivo non esista una release fisica di questo e del precedente lavoro (li vorrei quanto prima, in quanto delittuoso). Questo perchè la musica di Hertz Kankarok è davvero intrigante, in quanto collettrice di molteplici umori, sapori e profumi provenienti dalla cultura sicula che si vanno a incontrare con una tradizione metallica di più ampio respiro. L'opener "Deceive Yourself!" miscela infatti sonorità derivanti dal djent, con il prog e la musica etnica mediterranea per un risultato straordinariamente notevole. La seconda "Cargo Cult" ha una ritmica più devota ai dettami di Meshuggah ma ovviamente, quando subentra una certa tribalità/ritualità soffusa, non posso che rimanere del tutto spiazzato, prima di essere ributtato nella centrifuga avvolgente di un suono le cui trame risuonano apparentemente estreme. Il gioco si ripeterà per oltre otto minuti fatti di stop'n go, rilassamenti, melodie accattivanti, fughe lisergiche e quant'altro. Spettacolare. "Who is Next" sancisce la genialità di un artista che ha ancora modo di passare attraverso influenze che chiamano in causa i Tiamat di 'A Deeper Kind of Slumber', in una song dal piglio cinematografico, in cui mi sembra avvisare in sottofondo, anche l'eterea voce di una gentil donzella. Con "The Great Whirlpool" si torna solo inizialmente al ritmo graffiante di scuola Meshuggah/Gojira, con la voce del mastermind catanese a muoversi tra uno stile urlato, voci cibernetiche e altre  delicate e più pulite, che ben si adatterebbero ad un disco dei Porcupine Tree o dei Riverside. La sfuriata black a metà brano e un finale strettamente progressive chiudono quest'incredibile, in quanto inatteso, 'Make Madder Music'. Maestosi, geniali, sognanti, semplicemente italiani. (Francesco Scarci)

lunedì 21 maggio 2018

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

martedì 13 marzo 2018

Laconic Zero - Sun To Death

#PER CHI AMA: Industrial/Electronoise/8-bit/Djent
“Chi vuole recensire un disco programmato col Commodore 64?”. Ovviamente: io! Premo play ma ho già la bava alla bocca, perché adoro la musica folle e perché sono un nerd che ha vissuto a pieno l’esplosione informatica degli anni ’80. Alcune coordinate per capire i Laconic Zero: ogni singolo bit è pensato, scritto e suonato dal norvegese Trond Jensen — già chitarrista e bassista dei Next Life e dei Mindy Misty — che aveva esordito come Laconic Zero la bellezza di 11 anni, fa con l’applaudito 'Tribeca'. Questo secondo lavoro, 'Sun To Death', è un viaggio mesmerizzante di poco meno di mezz’ora, suddiviso in 11 movimenti che raramente superano i 3 minuti l’uno. Poca roba? Aspettate a dirlo. Ogni brano è un condensato multilivello di follia strumentale come non ne sentivo da parecchio, una supernova di bassi distorti, synth gorgoglianti e un tessuto fittissimo di casse, rullanti, percussioni e beat con quel sapore vintage che solo una programmazione old-school in 8 bit è in grado di dare. I primi 10 secondi della opening “Evoke Heat” sono già una dichiarazione di guerra, con quei blast-beat (o dovremmo dire blast-bit?) spietati e quel 6/8 ripetuto all’infinito tra crescendo e calando. “Gladeflicker” ha il sapore dei Ministry sotto acido, sorretto com’è da un synth giocattolo e un basso gorgogliante di distorsione. Reggetevi forte ai vostri neuroni quando entra l’arpeggiator in “Inborn Eclipse”, perché potrebbero scivolarvi tra le dita. Se la coppia “Infractor” e “Into The Plasma” lasciano respirare tra strings lunghi e ipnosi noise, è solo per prendervi nuovamente a pugni in faccia con la velocissima “Diamond Crash” (ah, se gli Shining di 'Blackjazz' fossero nati negli anni ’80!) o la finale “The Sun To Death”, che sembrano i Nine Inch Nails suonati da Super Mario Bros. Non vi spaventi il solo apparente sapore midi dei suoni: non c’è nulla che sappia di antico o vintage, qui. La mente di Trond Jensen è un vero labirinto di metal modernissimo e industrial death, e questo 'Sun To Death' è un inno alla violenza elettronica suonata con cuore, anima e testa, prima ancora che con super produzioni e tecnologie contemporanee. (Stefano Torregrossa)

(Handmade Records - 2018)
Voto: 80

https://www.facebook.com/laconiczero