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martedì 9 febbraio 2016

Nepalese Temple Ball – Arbor

#PER CHI AMA: Psych/Post Hardcore, Fugazi, Neurosis
Strano disco, questo. Strana band, anche. Da un gruppo che si fa chiamare come un leggendario tipo di hashish, ti aspetteresti musica rilassata o comunque un qualcosa che ti accompagni nei tuoi “viaggi” rendendoli piú piacevoli e consapevoli. Non certo un monolite oscuro, pesante e malsano fin dall’artwork (invero molto curato) che potrebbe rischiare di farti incontrare i tuoi mostri e indurti a perdere la testa per sempre. Perchè la musica dei Nepalese Temple Ball (NTB), quartetto inglese di Bournemouth, è un gigante barbuto e feroce, coi piedi ben piantati nel noise rock di matrice AmRep e due teste, una fieramente hardcore, l’altra dallo sguardo post-metal disturbato e folle. 'Arbor' risulta quindi un’impressionante opera prima che coniuga stili e influenze in modo tutt’altro che grezzo o ingenuo ma che anzi colpisce per maturità e riesce ad infondere un costante senso di minaccia lungo tutti i suoi 63 minuti. Molto merito va ascritto al peculiare utilizzo delle voci (spesso al microfono si altrenano un cantato di stampo piú classicamente declamatorio, alla Fugazi, e uno di scuola screamo) e di un suono che sembra come ricoperto di una patina di sporcizia, il che è un complimento, se capite cosa intendo. Per la gran parte del tempo mi sono trovato a gridare al miracolo, ci sono momenti in cui i NTB sembrano il figlio segreto nato dall’unione tra Fugazi e Neurosis, definitivamente conquistato dall’incompromissoria potenza dei riff, dalle percussioni furibonde e ritualistiche, come in “A Snake for Every Year”, monumentale cavalcata che apre il disco col suo furioso crescendo, o la maestosa e ipnotica “Gas Bird”. Splendide anche l’imponente (quasi) strumentale “Desert Baron” con le sue formidabili accelerazioni, “Astral Beard”, e le raggelanti urla di “The Axeman”, percorsa da folate psych su un incedere tribale, che chiude il disco come meglio non si potrebbe. Questi sono i passaggi che preferisco, quelli in cui il progetto sembra piú a fuoco e centrato, e quelli per cui (se fossero gli unici in scaletta) questo 'Arbor' potrebbe essere un vero capolavoro, rispetto ai brani in cui la violenza scream prende il sopravvento (“Knee Deep”), o all’anomalo psych death doom di “Statues in the Garden of Death”, che – per quanto validi - vanno forse un po’ a rovinare la coesione di fondo. In definitiva 'Arbor' è un esordio davvero importante, di quelli che fanno (o dovrebbero fare) molto rumore. Segnatevi il nome dei Nepalese Temple Ball e ascoltate questo disco, ne rimarrete conquistati. (Mauro Catena)

(Third I Rex - 2015)
Voto: 80

domenica 15 giugno 2014

Arbor - Echoes Over Oceans

#PER CHI AMA: Progressive black metal, Agalloch, Wolves in the Throne Room
'Echoes Over Oceans' esce nel 2014 in puro stile DIY (con uno splendido digipack peraltro) dalle mani dell'attivissimo trio americano degli Arbor, di base a Milwaukee (WI); il lavoro rappresenta il secondo album della band che segue l'ottimo debutto del 2012, già recensito su queste stesse pagine. Geniale commistione tra onirico, evocativo black metal stile Agalloch e Wolves in the Throne Room con fughe post rock, prog e shoegaze, atmosfere surreali spaccate da sfuriate cerebrali di violento, liberatorio evoluto black dalla forte ispirazione naturalistica. Il progressive di matrice seventies emerge in maniera evidente, con echi dei Rush ma anche di cose più complesse e classiche come quelle proposte da Yes e Hatfield and the North ma anche da influenze più moderne alla Ulver e quelle atmosfere sospese del gioiellino 'The Marriage of Heaven and Hell', senza però la pesante componente elettronica industriale, ma tutto portato in una struttura sonora sofisticata e curatissima, dalla forte componente melodica, da assaporare senza indugi e tutta d'un fiato. Un doppio album con otto brani (le migliori del lotto a nostro avviso sono "The Foliate Head" e "Archways") dalle atmosfere variegate, con costruzioni intense ed evocative. Quasi novanta minuti di musica da ascoltare attentamente, immergendosi in tutte le sue sfumature, dalle aperture drone/atmospheric dark, alle classiche e cristalline composizioni progressive, ricche di ariose melodie e dalle chitarre lussureggianti, fino alle veloci cavalcate black cariche d'infinito. Il lavoro alla fine è di buonissima qualità, pur rimanendo nell'autoproduzione di stampo fedele al black metal più sotterraneo e oltranzista, dove tutto si sente alla perfezione: voci, chitarre e batteria sono ottime e anche se i due cd sono di notevole durata, alla fine non ci si annoia mai durante il suo ascolto, tante sono le variazioni sul tema portate dal trio statunitense, nelle medio lunghe composizioni musicali. Lavoro appetibile, artwork notevole anche se poco comprensibili sono i titoli nel retro. Lasciatevi stregare, ne vale la pena! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

domenica 21 ottobre 2012

Arbor - The Plutonian Shore

#PER CHI AMA: Black, Death, Doom, Folk
Milwaukee, Wisconsin: una nuova scoperta per il sottoscritto, gli Arbor e il loro debut album, “The Plutonian Shore”. Apre le danze la tiepida strumentale title track, poi ecco “Trees” a spianarmi la visione del mondo di questa giovane band statunitense. Di primo acchito, ho pensato agli Agalloch e a tutto il movimento del Cascadian Black Metal, che si sta lentamente sviluppando negli U.S. e sta prendendo piano piano piede anche in Europa. Poi ho dovuto correggere il tiro e cercare di capire la reale proposta del quintetto, perché il sound di “The Plutonian Shores” ha qualcosa di innovativo, mischiando nel suo avanzare, sonorità death, doom, folkish e black, che mi hanno disorientato non poco, ed allo stesso tempo entusiasmato. Non so se sia colpa delle voci, che passano dal growl allo screaming, facendo sosta anche in territori clean o proponendo improbabili chorus puliti, fatto sta che gli Arbor stuzzicano, con il loro sound, la mia immaginazione. L’attacco di “A Great Leap In the Dark” è folle: sembra dapprima swedish death, corredato da voci black, ma in un battibaleno la traccia assume il tono di una ninna nanna, per poi lanciarsi nuovamente in un contesto black death con un sound violento, potente ed affilato, alternandosi con brillanti aperture acustiche dal sapore folk. Spero, non soffriate di vertigini, perché tra sali e scendi pericolosi, qui si rischia peggio che andare sulle montagne russe. “Grey Waters” conferma il trend dell’album, con lo sconquassamento di un sound robusto che subisce le incursioni notturne di parti atmosferiche, che interrompono la tenacità dei nostri. Arrivo al termine del brano e faccio fatica a contare i cambi di tempo che la song ha vissuto, soprattutto in termini vocali, con la performance del vocalist che arriva a sfiorare addirittura anche gli Skyclad. Non è semplice, ve lo assicuro, però si sa che i compiti arditi, sono quelli più interessanti. Proseguo nel mio ascolto. Il suono della pioggia, e le chitarre malinconiche mi fanno pensare quasi ad una semi-ballad, ma mai calare il livello di guardia con gli Arbor: una batteria al limite del tribale si impossessa come un demone, della ritmica e insieme alle sei corde di Joe e Zak, ci invitano a danze folkloristiche sotto le stelle. La cosa meravigliosa è che non sono ancora riuscito ad identificare una band a cui ricondurre il sound dei nostri, e questo è quasi un miracolo. Ci provo con “Begotten From Mother Earth” ma fallisco miseramente: forse è il suono etnico della batteria allora che mi rapisce i pensieri e mi impedisce confronti. Non saprei, perché anche le chitarre in effetti non seguono assolutamente schemi precisi come il black, il death o quel diavolo che preferite, impongono. Gli Arbor fanno quello che gli pare e piace e, per una volta mi trovo nella situazione, di non riuscire a prevedere che cosa venga dopo una ritmica, un arpeggio o una vomitata nel microfono. L’anarchia regna sovrana nel sound degli Arbor, anche nella strumentale “Pillars” e confermo che ciò non può essere che un bene. Non esagero col voto semplicemente per due semplici motivi: la registrazione non è troppo convincente cosi come pure la prova vocale, in stile pulito di Ted, che preferisco in formato estremo. Tuttavia, se siete degli amati di sonorità progressive, in chiave estrema, beh gli Arbor fanno decisamente al caso vostro. L’obbligo non è un consiglio… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75