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domenica 29 giugno 2014

North - Metanoia

#PER CHI AMA: Post Sludge, Rosetta, Isis, Cult of Luna
Questa recensione è assolutamente dovuta, in quanto Zach, il batterista dei North, mi ha permesso di recuperare sei cd, che avevo dato per persi, in una storia per cui non mi dilungherò in ulteriori dettagli. E allora andiamo a scoprire il sound del terzetto dell'Arizona, un post-metal cupo e feroce, che con il loro ultimo 'Metanoia', mutua qualche influenza dallo stoner e non solo. Si tratta di un EP di quattro pezzi, uscito in vinile, cdr e addirittura cassetta: l'album apre con "Atrabilious", pezzo assai ruvido (come le vocals di Evan) che in un'alternanza di chiaroscuri, o se preferite di partiture soft brutal soft, combina sapientemente gli insegnamenti di scuola Isis e Cult of Luna, con le proprie personali intuizioni. "Nefelibata" parte piano, direi sognante e psichedelica, in cui tutto suona perfetto tranne le vocals un po' fuori posto di Evan, troppo sopra le righe; avrei prediletto infatti una voce meno cattiva e più pulita, che meglio si amalgamasse con lo stile space rock di questo pezzo. Con "Hiraeth" le atmosfere si fanno più tenebrose e ancor più rarefatte: il sound si fa decisamente più lento, quasi doom, e le urla di Evan meglio si stagliano su questa tipologia musicale, in cui le chitarre creano dei giri psicotici e dissonanti. Non è facile l'ascolto di questo disco, meglio sottolinearlo, causa i notevoli cambi di tempo, di ritmo e di atmosfera: quando si parla di manovra fluida in una squadra di calcio, visto il Mondiale che si sta giocando, direi che i North necessiterebbero di una maggiore fluidità. La conclusiva "Master" è un altro pezzo di post metal oscuro, che si dimena pure tra lo sludge e l'hard rock. 'Metanoia' alla fine è un discreto EP di 4 pezzi che merita un vostro ascolto, cosi per farvi un'idea dei nostri e che vi spinge a conoscere altri album forse più interessanti (non me ne vogliano i North), come 'The Great Silence' o 'Siberia'. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65

https://www.facebook.com/NorthAZ

Hercyn - Magda

#PER CHI AMA: Post Black/Folk, Agalloch, Arbor, Fen
Visto che in Italia nessuno ha considerato gli statunitensi Hercyn, me ne prendo carico io e vi spiego quanto siano bravi questi quattro ragazzi (3 dei quali sembrano avere origini italiane visti i loro cognomi). La band, di stanza in New Jersey, esiste dal 2011 e 'Magda' rappresenta il loro EP di debutto, uscito sul finire del 2013 (ma contenente materiale scritto tra il 2011 e 2012) e rilasciato tra l'altro, in versione acustica nel 2014. Interessante l'esperimento dei nostri nel coniugare tutte le loro influenze in un'unica song, "Magda" appunto. Ventiquattro minuti di sonorità da brividi che in un climax ascendente emozionale, sapranno scaldarvi il cuore. Il brano inizia in modo assai ispirato, un po' come accadde una decina d'anni fa, per 'The Mantle' degli Agalloch. Atmosfere soffuse, giri di chitarra acustico/elettrici da brividi, e piano piano il suon cresce fino a quando una batteria inizia a martellare in modo forsennato e le vocals di Ernest Wawiorko emergono nel proprio stile, uno screaming al vetriolo. Il sound dei nostri si sviluppa poi in realtà su un mid-tempo ragionato, che qualcuno definisce post-black, qualcun'altro cascadian venato di influenze folk: tutte queste definizioni alla fine calzano a pennello per i nostri. La band non si tira certo indietro quando c'è da pestare sull'acceleratore (la parte centrale della song ne è un esempio), ma il tutto viene edulcorato dall'eccellente lavoro fatto dalle chitarre che dipingono decadenti paesaggi autunnali, con le loro splendide melodie. Ancora una volta ripenso a 'The Mantle' (per me il miglior disco degli Agalloch), ma anche agli inglesi Fen o agli Arbor di Portland. Tuttavia non manca una personale visione da parte degli Hercyn, band dotata di grande carisma e intelligenza, che mi sentirei di suggerire a etichette nostrane (Aural ad esempio). Interessanti poi le visioni psichedeliche, palesate dall'ensemble di Jersey City, sul finire del brano, che mostrano l'ecletticità dei 4 americani. I margini di miglioramento per la band sono assai ampi e il voto ribassato di mezzo punto, rispecchia la fiducia e l'aspettativa che conservo nel sentire un nuovo full lenght dotato di una bellezza infinita. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Hercyn

sabato 28 giugno 2014

Vastum - Patricidal Lust

#FOR FANS OF: Doom/Death Metal, Lie in Ruins, Vallenfyre
With only six tracks at roughly over a half hour total, this second release from Bay Area Doom/Death newcomers Vastum is about as old-school as it gets. Churning with those heavy, sprawling Doom-laden guitar rhythms that slowly boil over the pounding, heavy drumming and loud, clanking bass-lines, there’s a rather impressive old-school sound that runs throughout the album. While the band can impart a speed to the riffs that makes this approach even deadlier, what really works for them is the fact that they’re so sprawling heavy that the slower tempos and enlarged running time for many of these pieces, since the shortest running time is just a shade under five minutes, allows the compositions time to stew in their dirty, heavy flavor a longer amount of time than most normal old-school Death Metal bands and gives the Doom influence a lot of time to breathe in the action. The heavier, chug-based patterns these employ are more for atmosphere than tempo, as they’re not that fast at all but instead supplement the few speedsters in here with a fluid riffing style that’s absolutely infectious and really makes the question as to why they’re not employed more as they certainly fit the atmosphere quite well but are clearly not as well-versed in the band’s style that they’re more at home on the slower stuff so the competency is certainly there but not put in quite as often as they should’ve been. While all this deep, thumping Doom Metal is going on, the most overt Death Metal influence here is actually the cavernous vocals on display, which are shockingly deep and hoarse and give that extra special touch to the material in helping to cross the boundaries quite well, and overall this provides a pretty decent mixture since it sounds dark and evil against the heavier riffing and sprawling tempos. Surprisingly, the quickness of it works for and against the record at the same time, seemingly set in the bands’ craft and offering some quality songs in a brief, impacting stance that never really gets a chance to instill boredom or restlessness, but yet never gives off a full-length release feel because it’s length is so short due to the limited number of tracks. Intro "Libidinal Spring" is pretty much the standard bearer for what to expect here, with heavy riffs, chugging rhythms and that old-school ‘cavernous’ approach to the vocals that so many modern bands employ, just wrapped up with slower, sprawling tempos and less impact from the Death-ier side of the coin. "Enigma of Disgust" and "Incel" are both pure crawling, epic Doom Metal with Death Metal growls, the former working well with the deeper growls that permeate the first half as the darkened atmosphere and deep vocals mix well together before picking up speed in the later half that really helps to save it from mediocrity while the former gets a little quicker tempo and more time to work in some heavier mid-tempo chugging and psychedelic-like soloing in the later half, therefore being the better of the two. Certainly the first single off this, "3AM in Agony" carries the faster tempos quite well with more intense rhythms and tighter chugging for a faster, more vicious attack than the previous entries but certainly has the toughness and overall heavy riffs to stand against the more Doom-influenced material before it. The churning title track comes close to the speedier side while offering plenty of rumbling bass-lines and heavy, chugging riffs but doesn’t match the power or impact of the previous efforts here despite all the signs displaying a quality track otherwise. The epic finale, "Repulsive Arousal," offers some impressive speed riffing among the heavy, churning drumming and deep, rumbling bass-lines and switches tempos quite well, making for a rather impressive and imposing finale that gets this off with a flurry and ends on a real high note. Overall, this is most assuredly a crushing release with a lot to like but probably could’ve used another track or two to keep from feeling like a stop-gap release or an EP due to the length. (Don Anelli)

(20 Buck Spin - 2013)
Score: 85

Humulus - S/t

#PER CHI AMA: Heavy Stoner Doom
Ho ascoltato gli Humulus per la prima volta grazie alla 'Desert Sound Compilation' e devo dire che mi avevano colpito positivamente. Poi li ho visti in concerto all'E20 di Montecchio, come opening act dei Corrosion of Conformity, uno dei concerti più deliranti di quest'anno dove hanno confermato l'idea che mi ero fatto. I tre di Bergamo sono degli assatanati che sprigionano decibel a suon di heavy-stoner-doom, suoni ricchi di basse frequenze e distorsioni fuzz, come insegna la vecchia scuola. Aggiungo io che il trio bergamasco produce anche un'ottima propria birra dal nome omonimo, un binomio perfetto tra due passioni che accomunano molti di noi. Quest'album di debutto è marchiato Godown Records che va ad aggiungere un'altra interessante band al loro rooster, già ben fornito. Tornando alla musica, devo dire che il cd è fedele ai suoni e all'energia sprigionata dagli Humulus sul palco e questo è un punto a suo favore. Album iper elaborati che poi non rispecchiano per nulla il sound della band, hanno ormai stufato la gente e svuotato le tasche dei fan. "The Liar Priest" è un brano classico per il genere, granitico e non troppo veloce. Una bella scarica di adrenalina a livello ritmico e riff come se piovesse. Le doti tecniche della band sono indiscutibili e il brano, che scorre via facilmente, è pure godibile. "Banshee" è sempre basata sui riff di chitarra che guidano la trama del brano, incastrandosi perfettamente con basso e batteria. La struttura è semplice, qualche break per cambiare velocità e riprendere la struttura precedente. Un breve assolo di chitarra (un po' in secondo piano) arricchisce il contenuto e poi si va con l'ultima cavalcata che vi porterà fino alla fine del pezzo. "Humulus" inizia con il basso che detta il tempo a questo brano potente e grezzo, come una pietra che aspetta di diventare preziosa . I synth in sottofondo sono un'ottima idea e avrebbero potuto dare una marcia in più se solo fossero riusciti ad emergere dal muro di suono. Il cantato probabilmente è l'elemento che permette di riconoscere il gruppo dopo pochi secondi di ascolto, ma questo dovrebbe essere possibile anche dalla sezione strumentale. Se si vuole emulare i classici suoni del genere ben venga, ma allora bisogna lavorare sulla composizione dei brani, ritmica, etc. Gli Humulus hanno comunque le carte in regola per crescere e sono sicuro che il prossimo album farà tesoro di tutta l'esperienza che i nostri stanno acquisendo in questo periodo. Molti sono i concerti fatti dal lancio di questo lavoro, e spesso a fianco di vere e proprie icone musicali, quindi quale miglior scuola per dei musicisti che vogliono crescere? Studiare tra una birra e un riff sarà un piacere e non vi nascondo che li invidio. Molto. (Michele Montanari)

(GoDown records - 2012)
Voto: 70

Crypt Of Silence – Beyond Shades

#PER CHI AMA: Death Doom, My Dying Bride, Esoteric
Lode decadente e gloria funerea alla Solitude Productions, al solito direi! Evviva chi sponsorizza e promuove (non sbagliando un colpo se mi permettete il commento) chi propone lavori d’esordio prima di tutto sentiti e pregni di emozioni, non importa quale sia il loro colore. E questo è il caso: gli ucraini Crypt of Silence imbastiscono quattro tracce per quasi 50 minuti di death doom che molto deve a maestri quali My Dying Bride, Esoteric ed in secondo piano Pantheist, ma aggiungerei anche un certo sentore gotico ammiccante ai primi Theatre of Tragedy. Qua non si scherza: un album freddo e pessimista, che canta di vuoto, di assenza di prospettive e desiderio (recondito) di un momento, anche uno solo, di speranza, trattata quasi come un’ombra, un abbaglio sfuggevole che ci perseguita solo per scherno, per beffarci e non farsi afferrare mai. Dal punto di vista musicale, ci si presenta alle orecchie un sound basato sui riffoni portanti delle due chitarre, ripetuti e riverberati, che rappresentano la spina dorsale di ogni pezzo, ben abbelliti da una sezione ritmica cadenzata che non contempla accelerazioni (dimenticatevi doppi pedali e quant’altro) e inserti di basso che spuntano come funghi. Il vocalist (che è pure il bassista) alterna un growl “genuino”e poco effettato (almeno così sembra alle orecchie di chi scrive), a validissime clean vocals. Nonostante la relativa semplicità dei pezzi, la noia non è di casa tra queste note. Da segnalare l’opening track ed il brano conclusivo, vera perla dell’intero album anche solo per la sua intro arpeggiata. Più volte si è detto e scritto che in questo genere è molto difficile inventare qualcosa, per sua stessa natura, pertanto spesso quello che si sente non è altro che una rivisitazione della “lezione principale”, girata e sfumata a sentimento di chi si lancia a comporre musica melanconica. Sarà anche così, ma ben venga aggiungere sfumature e toni di grigio alla tavolozza ostica e meravigliosa della musica del destino. Molto bene ragazzi. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 75

giovedì 26 giugno 2014

Cecilia::Eyes – Disappearance

#PER CHI AMA: Post Rock, Shoegaze, Mono, Joy Division, Loop
Prendete i Boards of Canada, gli Explosions in the Sky, i Mogwai (quelli di 'Come on Die Young'), slavateli con la buia lucentezza dei Joy Division (quelli di 'Atmosphere' – ascoltate il brano "Lord Howe Rise" a tal proposito e ditemi cosa ne pensate) ma non pensate ad un normale post rock. La base new wave fa da padrona ma in realtà dietro c'è una volontà ipnotica, magmatica che esalta doti di apnea emotiva eccezionali e quindi inevitabilmente incastreremo la band belga nell'universo post rock, anche se veramente qui il suono ha qualcosa di magicamente '80s, di psichedelia lisergica ed atmosfere allo zolfo che poche band si possono permettere. Considerando "Lord Howe Rise" un apice irripetibile che vale da solo l'intero album, una sorta di Echo and the Bunnymen calati nei panni dei Joy Division a suonar cover di 'Disintegration' dei The Cure con il soffio orchestrale dei Mono, questo lavoro risulterà devastante a livello emotivo. Una posizione estatica continua, tra il drammatico e il volo angelico, suoni cristallini e distorsioni desertiche dal riverbero abissale, le lunghissime composizioni creano malati cocktail anfetaminici di malinconia che cullano la nostra voglia di evasione; tutto è così sonico e diligente, corrosivo e contenuto, devoto nel trattenere tutta la carica esplosiva interiore in una sorta di luce autolesionista (ascoltate la Pink Floydiana "Swallow the Key"). Ci sono i Loop di 'A Gilded Eternity' solo più liquefatti, nelle chitarre si respira il suono di "Fade Out (Loop)" ma in maniera semplicemente delicata, diversamente docile, in uno stile che lacera lentamente, un dolore al riverbero psichedelico, un mantra all'arsenico che esalta parentela nel sound con i migliori Curve rivisitati a rallentatore. Come una prigione dorata nel cosmo, come un volo verso l'infinito, sette brani per cinquanta minuti circa di pura ipnosi psichedelica. Impegnativo e geniale! Consigliatissimo (quasi obbligato) l'ascolto! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

Vanhelgd - Relics of Sulphur Salvation

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal, Entombed, Grave, Fleshcrawl
The third full-length from Swedish Death Metal band Vanhelgd, this is prime-era early-90s worship that manages to be quite faithful to the sound and origin of the scene without doing anything really new or distinguished that would’ve set them apart. This is really Swedish paint-by-numbers style of Death Metal where the band seems to be going through the checklist of what needs to be included, which means we get that unmistakable churning, grinding buzzsaw guitar patterns and loud, thumping bass working throughout the whole album which augments the hoarse, raspy growls quite well which inevitably starts sounding quite similar to the retro-sounding “cavernous” vocal approach that many modern Death Metal bands employ in an attempt to sound “Old-School.” Thankfully, it’s not as common as that approach but remains more faithful to their forefathers which adds a defined old-school approach to their music which really sells their influences quite well and endears them to the old-school crowd if only to really make them devoid of their own identity. This is mostly due to the rather restrained tempos on display here as the band doesn’t really get up in the faster realm all that often and tends to meander around in the mid-tempo more often and only infrequently preferring to speed things up, and while this makes for a fine round of heavy riffing, pounding drum-work and the welcome amount of melody within, the identity of the band tends to get lost in a sea of mid-paced patterns and plodding rhythms that really could’ve come from any band in the genre and don’t really put them through any unique or creative patterns beyond the more Black Metal-influenced melodies it starts playing with the later in the album it goes. This results in many of the songs having a sprawling, churning pace to them that manages to compliment the attack well surprisingly, for the lack of speed in the compositions initially comes to help them in providing a natural foundation to hang the slow, droning crawls that tend to pop up through most of the tracks here and really brings up the album in places as the two elements go well together. Intro "Dödens Maskätna Anlete" pretty much gives the listener what to expect from the outset with grinding buzzsaw rhythms, pounding drums and hoarse screaming vocals that wind through multitudes of tempos from speedier sections to more down-beat, atmospheric patterns that through in some melodic buffers by nature of their downbeat tempo against the faster sections. Follow-up "The Salt in My Hands" is actually one of the better numbers when it slows down the tempo in favor of stylish tremolo-picked rhythms and a chugging rhythm section that plods along quite nicely but knows when to pick up the energy in spurts even if it spends most of the time heavily chugging away. "Where All Flesh is Soil" tends to be even more restrained and down-tempo with a lot of plodding, sluggish sections driven by the tremolo-picked riffs and blasting drum-work that becomes more influenced by Black Metal as it goes along without too much of the traditional Swedish-styled riffing. The sprawling epic "Ett Liv I Träldom" gets it right with a sparkling mixture of chugging riff-work, tremolo-picked melodies and sprawling tempo changes that keep the tight, brutal riffs in check while furthering the attempts at including the faster tempos into the epic, sprawling music and comes off incredibly well because of that. The album’s best track, "May the Worms Have Mercy on My Soul," seems to encapsulate everything about the album in a defined package, offering charging buzzsaw riffing, tight drumming and thunderous paces alongside sprawling tempos and slower melodies, a relatively fine mix that puts everything together in one place for a truly enjoyable track. Many of these elements find themselves repeated in the title track which causes this to become a secondary highlight and form a devastating back-to-back-to-back threesome of great tracks in the middle of the album. As well, "Sirens of Lampedusa" is another mixture track that highlights the more slower sections with fine up-tempo riffs and the final rattling closer "Cure Us from Life" is one of the harder tracks with an absolutely furious approach and stellar assaults. In the end, while it doesn’t really do much to isolate itself from the community their attack manages to sound decent and oddly engaging for many listens, creating a rather enjoyable if indistinguishable mark. (Don Anelli)

(Pulverised Records - 2014)
Score: 75

mercoledì 25 giugno 2014

Devlsy - A Parade of States

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Neurosis
Che diavolo ci fa una band lituana con un'etichetta giapponese? Segno che la globalizzazione ormai regna sovrana. Oggi vi presento i Devlsy, quintetto di Vilnius, attivo dal 2011, che lo scorso novembre ha rilasciato questa release in formato usb. Si, avete letto bene, 'A Parade of States' è uscito su chiavetta. Il sound della band baltica deve aver poi attratto l'attenzione della MAA Productions, che in questo 2014, ne ha rilasciato il formato fisico. Veniamo al lavoro, un sei pezzi che si apre con "Phases", song mid-tempo che coniuga un black dalle tinte apocalittiche con un sound che strizza l'occhio ai Neurosis. Interessante l'esperimento dei nostri che sicuramente sarà di gradimento sia per chi è un fan del post metal (belle ed inquietanti le linee di chitarra) e chi del nero metallo (arcigno lo screaming). "By Design" ha un incedere grooveggiante, e di black ne resta probabilmente traccia solo nell'acida performance di Vytautas alla voce. Le ritmiche si muovono con grande pigrizia ma con un fare assai minaccioso di grande impatto emotivo. Ascolto dopo ascolto, il mio interesse in questo lavoro aumenta e ne riscopro nuove particolarità, che ad un primo assaggio non avevo colto, indice che i nostri devono avere non poche ambizioni. Tuttavia, questi musicisti non inventano nulla che non sia già stato detto, ma la rilettura offerta dalla band lituana del genere cosiddetto "post-black", si rivelerà non poco accattivante. "You Again" apre arpeggiata, ma sono i suoi cambi di tempo bizzarri a stimolare la mia attenzione. Serve tuttavia un ascolto attento per non etichettare facilmente 'A Parade of States' come uno fra i tanti lavori che escono ogni giorno in questo ambito. Lavorando un po' più sulle vocals (in "I Am no More" i nostri ci provano anche), attenuandone il loro carattere aspro e corrosivo, si potrebbero guadagnare più fan in territori post-, cosi come pure ingentilendo quei suoni più spigolosi dell'album (ascoltare a tal proposito "(Cold Glow of) Her Domani"). I Devlsy hanno grandi potenzialità e mi sorprende che nessuno in Europa abbia puntato su questi ragazzi, c'era la possibilità di ritrovarsi in casa i nuovi Neurosis o gli eredi dei Cult of Luna. Il basso ipnotico di "The Surge(ry)", la sua forza tribale dirompente, il mood shoegaze e la sua anima sperimentale, chiudono un lavoro intenso e quanto mai inatteso, che mi fa ben sperare per il futuro di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(MAA Productions - 2014)
Voto: 75

sabato 21 giugno 2014

Der Weg Einer Freiheit - Unstille

#PER CHI AMA: Black/Epic, Windir
Black metal di una certa caratura quello dei Der Weg Einer Freiheit (la cui traduzione sta per La Via della Libertà); mi spiace solo essere arrivato con incolpevole ritardo (2 anni) alla scoperta di questo 'Unstille', ma si sa che l'underground è sconfinato e io non riesco a monitorarlo completamente. Mi limiterò quindi ad informarvi che esiste un terzetto bavarese, di Würzburg per l'esattezza, che a luglio 2012 ha fatto uscire un lavoro per la Viva Hate Records, appunto il qui presente 'Unstille'. Album che consta di 6 tracce, che partendo da "Zeichen" fino a "Zerfall", propongono una personale visione del genere estremo, feroce, glaciale ma dotato di un certo feeling sperimentale e malinconico. La lunga opening track (12 minuti), dopo un flebile intro, irrompe con il selvaggio drumming di Tobias Schuler, una sassaiola massiccia, accompagnata dalle harsh vocals di Tobias Jaschinsky e dalla chitarra di Nikita Kamprad in tremolo picking, stile Windir. Dodici minuti in cui dovrete essere abili a districarvi tra assalti furiosi di blast beat, ferali vocals, intermezzi acustici, splendide linee di basso e malinconiche melodie. "Lichtmensch" ha un impatto ancor più devastante della precedente traccia, dove ben poco spazio viene lasciato ai frangenti più soft, per cosi dire, della band. "Nachtsam" è una song strumentale che evidenzia pregi e difetti della band teutonica, uno su tutti la mancanza della voce in un pezzo di questo tipo. "Zu Grunde" ci offre altri quattro minuti di debordate furiose che mantengono tuttavia una componente epica nella linea delle sue chitarre, mentre le ritmiche rischiano a più riprese di deragliare dai binari. Con "Vergängnis" ci avviciniamo al lato più introspettivo dell'ensemble bavarese, con un'intro acustica e una song che, su un pattern tipicamente black, inserisce rarefatti passaggi post, segno che c'è un discreto margine di manovra nella proposta dei Der Weg Einer Freiheit, che potrebbe spingerli verso nuovi orizzonti nell'immediato futuro. E arriviamo ai 10 minuti finali di "Zerfall" che mostrano ancora una volta come si possano abbinare divagazioni post rock con la furia cieca del black; il tutto mi lascia presagire che con il prossimo album, ne potremo sentire davvero delle belle. E per questo motivo, lascio volutamente il voto di 'Unstille' mezzo punto più basso, pur trattandosi di un album consigliatissimo, di cui esiste anche una versione con ben due bonus track, tutte da scoprire. (Francesco Scarci)

(Viva Hate Records - 2012)
Voto: 70

Lucertulas - Anatomyak

#PER CHI AMA: Noise/Rock
Nel lontano 2003 nasce a Venezia un trio (che si arricchirà anche di un secondo chitarrista per live) che ha all'attivo tre album e che dopo vari cambi di line-up finisce per perdere il prefisso "Super" per arrivare all'attuale nome della band. Insomma, come una lucertola che perde la coda per sopravvivere ai predatori. I Lucertulas navigano tra mari noise/punk/rock con sfumature psichedeliche, ammorbando la mente di chi li ascolta e trascinandolo in una mirabolante corsa contro il tempo. I suoni sono curati, la parte ritmica ha un taglio standard e permette di cogliere tutte le sfumature del bravo batterista, gran percussore di fusti e piatti. Le chitarre hanno distorsioni volutamente noise e scariche di basse frequenze che vengono lasciate al buon vecchio basso, ogni tanto vittima dello stesso trattamento stilistico. Azzeccato per il genere, non fraintendetemi. Il cantato è sempre bello tirato e furioso, quel giusto mix che per non perdere la folle corsa dei colleghi musicisti, non manca comunque di momenti più melodici che danno tregua a chi ascolta. "A Good Father" esplode immediatamente e in poco più di tre minuti ci presenta lo stile furibondo e velocissimo della band, un biglietto da visita difficile da dimenticare. A metà della traccia c'è spazio per un breve break che serve a scatenare nuovamente il muro sonoro e un cantato ansioso e ripetuto. Uno spruzzo di elettronica (leggasi synth) avrebbe forse personalizzato ulteriormente il brano, ma se non è nelle corde dei Lucertulas, non c'è problema. Non potrete non amare "Sickness" dove il cantato prende libero spunto dai Beastie Boys di 'Sabotage' e i primi RATM, un brano che dal vivo deve sicuramente causare distruzione ed esaltazione. Un riff introduttivo costituito da un basso distorto e da chitarre smembrate a livello molecolare e ricostruite ad hoc, rendono il sound caratteristico. Nota di merito al Dirtysound Studio e al fonico per aver creato il giusto mix musicale senza snaturare troppo gli strumenti. Un pezzo carico di groove e che ha tiro da vendere, "7" è un brano strumentale ben articolato, che inizia con un crescendo pieno di angoscia e smarrimento, spazzati via violentemente da un'esplosione sonica, che diventerà il tema della restante traccia. Ogni singola battuta e nota trasmettono la forza e il vigore insito nel trio veneziano. Le nostre lucertole si rivelano un'ottima band che non ha mollato la presa nei momenti difficili, sopravvivendo ai tempi con una continua crescita personale e artistica. Quindi massimo rispetto da supportare acquistando il vinile o il cd. Quest'ultimo è peraltro disponibile in versione limitata con case in alluminio; anche questo fa intuire la voglia di distinguersi dei Lucertulas. Bravi! (Michele Montanari)

(Macina Dischi / Robotradio - 2014)
Voto: 85

venerdì 20 giugno 2014

Blastasfuk - Super Fun Happy Slide

#FOR FANS OF: Grind, Nasum, early Napalm Death
The second release from this Australian act, this is a rather typical output and really serves to be appealing for the hardcore fans of the genre. As is typical of the kind of music usually produced here, it’s a blinding wall of noise that rips through intense, chaotic patterns that usually recall the early hardcore punk scene in terms of sheer chaotic energy and random guitar wailing is being undertaken. Still, the focus on the Death Metal roots here in terms of the rhythm section and how dexterous the rhythms become allows this one to stay more in tune with the truer side of Grindcore than most other types of bands like this, as there’s a rather more profound attempt at incorporating blastbeats and guttural Death Metal growls into the music that are a part of the general Grindcore scene. In this sense, the band certainly sets out on notable paths accomplishing this feat pretty well, but there are several problems with the album. The DIY approach to the production leaves the whole thing sounding way too thin and under-produced in comparison to more traditional Grind acts, making it plainly obvious in regards to the drumming that this is an amateur effort by clattering away on what sounds like a homemade drum-kit instead of professional-sounding equipment. There’s no power or punch in the blastbeats, which should be the most extreme part of the whole album but come nowhere close to the devastation wrought by upper-echelon bands. The repeated samples that have nothing to do with the track as a whole is another big issue, making them seem distracting rather than integral to the song as a whole, and the croaking-frog like vocals that repeatedly show up here are nothing more than a general embarrassment that it made it to tape and thought it sounded good. That just leaves the fact that the whole album is barely a half-hour with none of the tracks reaching a minute and half and having so many on here to begin with that it really could’ve gone through longer stretches of extending the songs since hardly any of them stand-out at all and don’t leave much of an impression at this excessively short length. This one really could’ve been given the time and space to stretch itself out instead of just constantly blaring through the indecipherable patterns through the awful production and then a minute later you’re stuck on another track and you can’t tell where you’ve been as the whole thing is so scattershot and disorganized that it leaves the feeling of bewilderment rather than out-and-out pummeling. As for Grindcore fans in general, this is good stuff and plays into the scene quite well with all these points about the genre proving the there’s still quality old-school Grindcore still being made, and should therefore add onto the total score below. That’s mainly for the more mainstream metal fans to follow. (Don Anelli)

(Lesstalk Records - 2014)
Score: 40

Mechanigod - Realms

#PER CHI AMA: Death/Thrash/Alternative, Meshuggah, Tool
Sbang!! Una sonora botta in pieno viso: ecco le prime parole che mi vengono in mente parlando di questo full lenght, prodotto dagli Israeliani Mechanigod. Forte di una produzione davvero impeccabile, frutto del lavoro di Daniel Strosberg ai KEOSS studios di Tel Aviv e di un mastering in pieno stile scandinavo di Jens Bogren in quel di Orebro, Svezia, 'Realms' si presenta in tutto il suo splendore. Davvero difficile far di meglio, per una band semisconosciuta; sicuramente d'impatto le note qui prodotte vanno, senza dubbio, sparate al maggior volume possibile. Sfido qualsiasi combo, anche ben più blasonato, ad aprire le danze con la magnificenza di “I Shall Remain” indiscussa perla del lotto proposto. Dopo un brevissimo intro, la sopracitata ci scarica addosso una tale quantità di potenza da restarne storditi e piacevolmente sorpresi; cosi come è successo al sottoscritto. Si continua con la maestosità di “The Serpent's Greed”, a tratti quasi progressive, in altri punti degna dei migliori Machine Head, anche se l'ombra dei Meshuggah resta sempre in agguato per tutti i 53 minuti del lavoro. Rimango senza parole. Sbalordito. Stiamo sfiorando vette che potrebbero far parte di un album capolavoro; l'intro di “SilverHaze” mi ha subito rimandato ai Tool di 'Lateralus', quando scopro uno strumentale che mi riporta in pieno ai Metallica di 'Master Of Puppets' del mai troppo lodato Cliff Burton (ascoltare le linee di basso per credere...). Come avrete capito, la varietà compositiva è una qualità che ai Mechanigod non manca di certo, così come l'abilità tecnica; col passare dei pezzi ci si rende infatti conto della qualità “totale” di questa fatica, con chitarre che poche volte hanno reso così bene l'idea di ciò che vuol dire suonare metal “moderno”. Qui dentro c'è quello che io intendo "suonare metal nel 2014", con una certa dose di paraculaggine verso il passato ma con i piedi ben piantati al giorno d'oggi; ma alla fine non si può creare un disco come 'Realms' senza essere molto, ma molto bravi. Un disco che, dopo un paio di ascolti, è già talmente entrato nel cuore di chi lo ascolta da non poterne fare a meno per diverse settimane (l'ho ascoltato ovunque...), non può che meritare la palma di miglior release da mesi a questa parte; non voglio dimenticare di citare altri pezzi assolutamente sugli scudi, quali “Mirror's Aspect” e la finale “Silent State of Mind” che sembra ancor di più omaggiare quei gran bravi ragazzi dei Tool, degno finale per un disco di questo livello. Caldamente consigliato a chi sta cercando dal metal qualcosa che non sia per forza rumore incomprensibile, a chi cerca quei gran bei chitarroni grassi, o a chi cerca riff che non siano un'inutile alternanza di plettrate su due corde, sempre quelle. Anche per chi cerca nel metal, un po' di poesia. Un disco che merita un voto altissimo; un disco che merita rispetto e un occhio di riguardo da chi ama questo “nostro”, stupendo, genere musicale. Da avere. (Claudio Catena)

(Self - 2013)
Voto: 90

giovedì 19 giugno 2014

Ea – A Etilla

#PER CHI AMA: Funeral doom, Ahab, Monolithe
È con estremo piacere che mi cimento nella recensione di questa quinta fatica in studio degli Ea. Al solito, per chi già li conosce (altrimenti mi permetto di farlo presente a coloro che ignorano l’esistenza di questa creatura oscura), i ragazzi non lasciano trapelare nulla che vada appena al di fuori delle note registrate in questo disco. Gli Ea (ma per quanto ne sappiamo potrebbero essere pure una one man band, chissà…) negli anni ci hanno abituati ad un suono votato alla terra, possibilmente adombrata e, tutt’al più, appena rischiarata da sfuggevoli raggi di luce crepuscolare. Criptici (dicono di provenire dalla Russia, sempre ammesso che questo corrisponda al vero), adornano le loro composizioni con sintetici testi scritti in un misterioso idioma antico, ricavato e ricomposto sulla scorta di studi archeologici, ed anche a tal proposito qualche dubbio può lecitamente sorgere. Quale che sia lo scopo ultimo di tutto questo mistero, di assolutamente pacifico e, per una volta, ben illuminato dalla luce del sole c’è un talento non comune emerso sin dal primo lavoro e maturato album dopo album. Notevole la capacità della band di affrontare (trionfalmente) il ben difficile salto da una struttura basata su lunghe ma separate composizioni ad un’unica suite, e questo è il secondo monolite che i Nostri partoriscono, segno di una ormai confidenza raggiunta in tal senso. Ci troviamo di fronte, per lo meno per chi scrive, al loro miglior lavoro ed, in ogni caso, a quanto di più accessibile faccia parte della loro discografia (il che è tutto dire!). Ciò che di ostico poteva essere ritrovato nei precedenti capitoli qui è stato adeguatamente smussato e levigato, senza perdere una virgola di quegli elementi di solennità ed epicità sonora che ne rappresentano senza dubbio il marchio di fabbrica. Il songwriting maturo ci dà in pasto un unicum scevro di quei momenti (per fortuna pochi) a volte vuoti, o lungaggini, che potevano essere riconosciuti specialmente nei lavori d’esordio. Di pregio l’utilizzo più marcato e convinto della doppia cassa, portando il disco a muoversi su granitiche ritmiche capaci di accelerazioni ed improvvisi rallentamenti, continuando quanto intrapreso già nel precedente album. Il riffing delle chitarre non ha subito grandi variazioni rispetto al passato, sempre portante nell’intrecciare la struttura di ogni singolo passaggio; immancabile il tappeto melodico-onirico delle tastiere a fare da supporto, nonostante un’evidente ridimensionamento dato a questo strumento rispetto agli esordi, il che non è affatto un demerito. Qua e la fa capolino l’onesto growling del vocalist, sicuramente non il migliore in circolazione, ma ben oltre la sufficienza. Solo un rapido accenno al finale, molto diverso dal loro solito in quanto quasi “tronco” rispetto alle abitudinali lunghe scie tastieristiche. Ma al di la degli aspetti tecnici, ciò che conta nell'intraprendere l’ascolto di un qualunque disco degli Ea è l’atmosfera che sono in grado di creare, capace di trasportarci in un mondo buio e meraviglioso ma non terrificante, lento ma non opprimente, epico ma non vagheggiante e dove la sensazione di smarrimento non si connota negativamente, perché alla fine si ritrova la strada di casa quasi d’improvviso. Gli Ea sono una realtà nel panorama funeral doom che ormai non si può più ignorare… se mai decideranno di mostrarsi, saranno accolti e acclamati a gran voce dal popolo delle odissee musicali. Sicuro. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 85

lunedì 16 giugno 2014

Abstraction - End of Hope

#PER CHI AMA: Power Progressive, Dream Theater, Evergrey
Uno scenario post-apocalittico si delinea innanzi allo sguardo. In copertina sembrano rimaste solo le vestigia di un mondo distrutto e abbandonato dall'umanità. Uomo capace sia di questo che di creare un simbolico album, come gli Abstraction han saputo fare con il loro eloquente 'End of Hope'. Il singolo "Wolf" mette a confronto l'uomo con la bestia, la quale è molto meno crudele con i suoi simili di quanto esso non lo sia con i propri. Una città corrotta in cui l'uomo divora l'uomo con la voracità di un lupo, una foresta nella quale la bestia accoglie l'umano che sappia ascoltare il suo libero canto. La chitarra acustica di Kiril Yanev si fa portavoce del tema di una canzone tradizionale bulgara, mentre la leggenda narrata sembra scaturire da antiche storie mai obliate. Una breve sinfonia orchestrale introduce questo pezzo, che si distacca molto stilisticamente dal resto dell'album, richiamando alla mente band quali gli ultimi Wintersun e Blind Guardian. Ma resta un'impressione superficiale, dato che il sound appare più pulito e asciutto e l'organico più minimale, innestando di fatto la band in un genere che sta a metà strada tra il power e il progressive metal. Il pezzo ruota attorno al tema esposto dalla voce narrante di Mladen Medarov nelle sezioni acustiche, contrapposto ai fraseggi di chitarra elettrica di Pavel Serafimov armonizzati dall'altra di Danail Karjilov nelle sezioni strumentali. Interessante è il gioco contrappuntistico tra flauto e cembalo sul tema acustico. A metà brano un coro interpreta la parte del branco di lupi sulla base a marcia già esposta nella strofa precedente, prima dell'arrivo di un virtuosistico assolo di chitarra che anticipa la ripresa, terminante a sua volta con un finale strumentale dalla ritmica serrata e delle code. Allo scattare del secondo brano l'ascoltatore è catapultato negli anni ottanta, con un incipit che sembra un tributo alla celebre "Two Minutes to Midnight" dei Maiden. "Wondering" si presenta come un pezzo dal testo contemplativo, nel quale è manifesta solo in seguito l'amarezza lasciata da un incolmabile vuoto. Una celata rabbia non sfogata ma interpretata dalla musica con una struttura a blocchi e poi triplette nei chorus con tastiere nello sfondo e una sezione di cori nella parte centrale e finale che rappresenta, a causa dell'incerta intonazione, il vero neo del pezzo. Un brano che a tratti ricorda i Bon Jovi degli esordi, in particolare nelle vocals, nel quale viene inserita una sezione strumentale prog che riprende temi ritmici caratterizzanti lo stile dei Dream Theater, complici però un forzato connubio di stili, un cantato non abbastanza sostenuto ed esplosivo e un songwriting non in linea con le atmosfere musicali, si tratta di un capitolo dell'album poco riuscito. La scacchiera è pronta, le pedine di "The Game" cominciano a muoversi. Le prime a spostarsi sono tre e corrispondono ad altrettante stanze nelle lyrics, le quali esplorano sia il punto di vista dei vincitori che dei vinti, nell'eterna lotta tra chi ha potere e chi non ce l'ha. La terza stanza è un chorus, nel quale è interessante lo scambio tra la voce e un contrastante cembalo synth. Questa struttura ripetuta due volte cede il posto, dopo un intermezzo di cembalo, a uno strumentale che ha molti punti in comune con le sonorità e le ritmiche degli Iron ma strizza l'occhio anche al prog nell'uso di controtempi e poliritmie. Il pezzo si chiude dopo un significativo "GAME OVER" che riporta trama e musica all'inevitabile fato. "The Last Man On Earth" è forse una delle immagini più belle ed evocative dell'opera. E proprio di opera metal si tratta, l'intro riporta potenti alla mente le suggestioni dei Rhapsody of Fire. Chitarra acustica e flauto precedono un coro, questa volta dal sapore epico. I neoclassici fraseggi di chitarra solista strizzano l'occhio a Luca Turilli. Le vocals molto dirette e ruvide qui non disturbano perché ogni riff e ogni sezione strumentale risulta perfettamente incastonata, per un pezzo che sicuramente brilla in quest'album come un gioiello. Samples tratte dalla serie tv 'Kingdom Hospital' dialogano attivamente con la musica in questo strumentale "Piece of Life". Non è necessario dilungarsi sulle prime sperimentazione in tal senso da parte di mostri sacri come i Pink Floyd, nei quali musica e suoni diventavano un tutt'uno; precisando che uno tra i primi brani a introdurre registrazioni vocali parlate e attive nella musica fu "Space-Dye Vest" (Dream Theater, Awake, 1994). "Shattered Pieces" incarna appieno nelle tematiche il concetto espresso dal titolo dell'album. Difficile non pensare a band quali gli Evergrey ascoltandone le idee musicali, dove ad atmosferiche linee di piano e archi son contrapposti potenti e decisi blocchi ritmici. E così i pezzi del puzzle che compongono i sogni vengono sparpagliati a ogni scarica strumentale e la voce si fa portante nell'esporre questa rassegnazione, in modo talvolta troppo monocorde. Ottima la sezione solistica di chitarra centrale che anticipa un parlato accompagnato dal piano, punto di luce che trafigge i nembi di un brano vagamente monodico. Le lyrics di "The Righteous Path" abbandonano sentieri piani e sgombri per seguire vie più anguste e simboliche, cosa che finora mancava nel songwriting dalla band, in cui la bellezza delle tematiche veniva troppo spesso impoverita da un'espressione troppo diretta e prevedibile. Inaspettato è il pizzicato introduttivo e il ritmo ad accentuazione irregolare che ne consegue, per uno dei pezzi più progressivi dell'opera e uno dei più caratterizzanti. Spiazzano i ritmi a singhiozzo di Antonio Velkov, essenziale e magistrale dietro le pelli della batteria da inizio a fine album. Stupisce il primo vero intervento solistico di Ivaylo Rashev al basso, che confeziona un intermezzo con imitazione a due voci alle estremità del campo uditivo e un giro ammaliante su una base calma e suadente che ricorda un suo gemello marchiato John Myung nella multiforme "Breaking All Illusions". Questi a loro volta racchiudono una parte vocale doppiata una una voce parlata distorta, che allarga il campo dei narratori del testo. Ma le sorprese non finiscono, alternati al riff tematico più volte esposto in modo ubriacante, vi sono un assolo di tastiera e un altro intermezzo dal sapore contrappuntistico e questo contrasto da equilibrio compositivo al tutto. Ora è il turno di uno dei capitoli concettualmente chiave del concept, "Requiem for a Dead Planet". Poche parole cariche di significato trasportano attraverso futuro e passato, attraverso una musica graffiante, introdotta da acustica e samples create con autentiche registrazioni della NASA. L'inizio è una grande rullata, che si fa portavoce dei singulti di un pianeta morente, le vocals sono dirette ma questa volta supportate da un coro di milioni di voci che l'atmosfera creata dalle tematiche fa credere di percepire, lamenti di esseri morenti. Mai più espressivo è stato un silenzio, quello strumentale, che lascia il posto nei suoi vuoti a una voce, carpita da trasmissioni radio distorte, dialogandovi attivamente. Questo e molto ancora in un brano che crea un alone lunare profetico, sublime come l'immagine sibillina della tragica sorte del mondo nelle ultime pagine de 'La Coscienza di Zeno'. Quando la narrazione musicale e tematica sembra arrivata al culmine della tensione ecco "Same Again", stelo d'erba accarezzato dal vento, affacciato a un precipizio. L'unica ballad dell'opera acquista ancor maggior forza, nel suo esser conclusiva e solitaria. La voce ruvida e diretta del vocalist acquista qui una commovente morbidezza e assieme alla prima traccia costituisce una delle prestazioni migliori di Medarov, che qui duetta con una bella base di piano pad firmata Serafimov, che si apre assieme alla sua voce ad armonie vaste e irraggiungibili da voce e piano presi singolarmente. Un testo d'amore, distanza e separazione, ispirato al film di Danny DeVito 'The War of the Roses' da cui sono estrapolati dialoghi a creare una samples che accompagna tutto il brano. Un episodio che fa pensare, perchè il contesto rende questo brano speciale e in un certo senso dal taglio inaspettato. Gli Abstraction hanno dimostrato in questo lavoro grande maturità compositiva, una non comune capacità strumentale e una sensibilità viva e lungimirante nelle tematiche. Davvero notevole il lavoro di mix e master, come la qualità della registrazione e la pulizia di esecuzione e sound nella parte strumentale. La sezione vocale si presenta spesso non all'altezza di quella strumentale, in intonazione e impatto d'insieme per quanto riguarda i cori; in sostegno ed espressione per quanto riguarda la solista, che suona spesso troppo di gola e poco agile nel muoversi nel suo registro. La band deve ancora trovare un proprio stile, in quanto le varie e variegate idee musicali risentono spesso di troppo manifeste influenze di altri gruppi. Ciò ha però reso possibile un album davvero ricco di idee e pure ben sviluppate. Anche il songwriting possiede questa varietà, tanto da dover precisare come impropria la definizione univoca di concept per quest'album. Simbolico ed evocativo è l'artwork firmato da Ivan Maslev. Non è un caso forse che il nome "Ninfa" che appare sulla nave riporti alla mente il mito greco di Dafne, trasformata in alloro per sfuggire alle lusinghe amorose del dio Apollo. E in albero è tramutata anche questa barca volante, attraccata a un molo fantasma al di sopra del volo dei gabbiani, tema che rimanda alla moderna arca di Noé di cui tratta "Requiem for a Dead Planet", la cui rotta è lo spazio, la conquista di nuove terre da consumare e l'inevitabile fine dell'umanità, fino a un ultimo e definitivo apocalisse. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 80

Lorelei - Угрюмые Волны Студеного Моря

#PER CHI AMA: Death/Doom/Gothic, primi Theatre of Tragedy 
Russia ormai è diventato sinonimo di death doom: ne sono l'ennesima conferma questi cinque ragazzi di Mosca, a nome Lorelei, che ci propinano un classico sound oscuro dalle doppie vocals, growl e soprano femminile, che mi hanno ricordato non poco i primi Theatre of Tragedy (non a caso "Lorelei" è anche una song della band norvegese). La musica poco si discosta dai dettami del genere; ciò che ha catalizzato la mia attenzione è stato l'inserimento di alcune parti recitate in italiano. Le ritroviamo ad esempio in "Холод безмолвного зимнего леса...", in cui largo spazio viene concesso alla brava cantante Ksenia Mikhaylova, mentre le ritmiche eseguono il loro compitino egregiamente, disegnando malinconiche melodie che sicuramente piaceranno a chi segue il genere e al contempo annoieranno chi invece è ormai saturo dell'ennesima proposta di questo tipo. Le song si lasciano tutte ascoltare ma la musica dei nostri non apporta rilevanti novità: niente male il pesante growling di Evander Sinque (vocalist dei Who Dies in Siberian Slush e guest star in questa release), cosi come pure le tastiere di Marina Ignatovich che con le sue atmosfere, rende il tutto estremamente più accessibile. Tuttavia, l'album continua ad avere un che di già sentito forse perché quella dei Lorelei è una proposta che andava molto di moda a metà anni '90, ma anche perché dà sfoggio di tutti i cliché che il genere impone. Mi fa piacere l'ispirazione che i nostri traggono dai classici nostrani, con un intermezzo dal titolo "La Vita Fugge e non s'Arresta un'ora", che si rifà ad un famoso sonetto del Petrarca. Poi, c'è poco altro da segnalare in questo 'Угрюмые Волны Студеного Моря', lavoro che segna l'ancora acerbo esordio di questi giovani ragazzi. (Francesco Scarci) 

(BadMoodMan Music - 2013) 
Voto: 60 

domenica 15 giugno 2014

Arbor - Echoes Over Oceans

#PER CHI AMA: Progressive black metal, Agalloch, Wolves in the Throne Room
'Echoes Over Oceans' esce nel 2014 in puro stile DIY (con uno splendido digipack peraltro) dalle mani dell'attivissimo trio americano degli Arbor, di base a Milwaukee (WI); il lavoro rappresenta il secondo album della band che segue l'ottimo debutto del 2012, già recensito su queste stesse pagine. Geniale commistione tra onirico, evocativo black metal stile Agalloch e Wolves in the Throne Room con fughe post rock, prog e shoegaze, atmosfere surreali spaccate da sfuriate cerebrali di violento, liberatorio evoluto black dalla forte ispirazione naturalistica. Il progressive di matrice seventies emerge in maniera evidente, con echi dei Rush ma anche di cose più complesse e classiche come quelle proposte da Yes e Hatfield and the North ma anche da influenze più moderne alla Ulver e quelle atmosfere sospese del gioiellino 'The Marriage of Heaven and Hell', senza però la pesante componente elettronica industriale, ma tutto portato in una struttura sonora sofisticata e curatissima, dalla forte componente melodica, da assaporare senza indugi e tutta d'un fiato. Un doppio album con otto brani (le migliori del lotto a nostro avviso sono "The Foliate Head" e "Archways") dalle atmosfere variegate, con costruzioni intense ed evocative. Quasi novanta minuti di musica da ascoltare attentamente, immergendosi in tutte le sue sfumature, dalle aperture drone/atmospheric dark, alle classiche e cristalline composizioni progressive, ricche di ariose melodie e dalle chitarre lussureggianti, fino alle veloci cavalcate black cariche d'infinito. Il lavoro alla fine è di buonissima qualità, pur rimanendo nell'autoproduzione di stampo fedele al black metal più sotterraneo e oltranzista, dove tutto si sente alla perfezione: voci, chitarre e batteria sono ottime e anche se i due cd sono di notevole durata, alla fine non ci si annoia mai durante il suo ascolto, tante sono le variazioni sul tema portate dal trio statunitense, nelle medio lunghe composizioni musicali. Lavoro appetibile, artwork notevole anche se poco comprensibili sono i titoli nel retro. Lasciatevi stregare, ne vale la pena! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Firtan - Niedergang

#PER CHI AMA: Epic Black, Bathory, Windir 
Primo full lenght per i teutonici Firtan dal titolo 'Niedergang' (Declino), che rivela al mondo sommerso una nuova entusiasmante band che farà breccia tra i seguaci del black atmosferico. Otto tracce più intro per il combo di Lörrach, piccola cittadina nel sud della Germania. L'album si dischiude con l'acida "Angst", song nevrotica (soprattutto a livello vocale) che alterna sprazzi di eleganti atmosfere con sfuriate black a la Windir. Pagan, black, ambient e post sono solo alcuni degli ingredienti che costituiscono e caratterizzano il terzetto germanico che vede in alcune aperture al limite del sinfonico altri suoi punti di forza. La durata quasi mai eccessiva dei pezzi (fatto salvo per i nove minuti abbondanti della title track e gli otto minuti di "Huckup") contribuisce a rendere le melodie più facilmente memorizzabili. Le keys, posizionate come arrangiamento inizialmente solo in secondo piano (ma più avanti si riveleranno la vera colonna portante dei pezzi), conferiscono un'aura sinistra all'intero lavoro. "Hypnos & Thanatos" è uno splendido pezzo che si muove tra epiche cavalcate, interludi ambient e urla disumane. L'immagine che mi si configura davanti agli occhi è quella di pascoli verdi su sinuose colline, su cui si stagliano però minacciose nubi basse, cariche di pioggia. La lunga e già citata title track ha un che dei primi Alcest nel suo effluvio sonoro: arpeggi malinconici, lo screaming disperato di Phillip Thienger, il marziale incedere delle ritmiche e quel magniloquente suono delle tastiere, che devo ammettere aver catalizzato quasi interamente la mia attenzione, rendono alla fine la release dei nostri di più facile approccio anche per chi non mastica quotidianamente questo genere di sonorità. Fatto un piccolo sforzo iniziale, vi ritroverete coinvolti in eroiche battaglie, in cui le spade brandite volgono al cielo. "Zwischen Wahn und Sinn" è una song morbosa e cupa, in cui predomina la componente sinfonica, mentre la successiva "Seelenfänger" si propone con un mood decadente nella sua introduzione, guerresco e corale nella parte centrale, in cui nuovamente sono le tastiere ad assurgere ormai al ruolo di protagoniste indiscusse del lavoro. La forza brutale del black riesce a trovar sfogo in una breve tempesta sonora, prima che le acque possano trovare la loro tranquillità. Tranquillità che viene spezzata dalla furia dilagante di "Wogen der Trauer", la traccia più brutale del lotto, in cui ad emergere fortissimamente nelle sue ritmiche pagane, sono nuovamente i Windir. Passando oltre la breve e strumentale "Oneiros", arriviamo alla conclusiva e tragica "Huckup": bucolico l'inizio affidato all'acustica, prima che la componente elettrica subentri inneggiando alla guerra. Se solo accanto alle screaming vocals ci fossimo trovati anche una componente vocale declamata o pulita, forse oggi starei parlando di capolavoro. Per ora mi accontento di un signor album che farà la gioia di coloro che trovano giovamento nell'ascolto dei Bathory più epici, degli Agalloch o dei più volte citati Windir. Firtan, un nuovo nome da inserire nel vostro sempre più folto taccuino, ma credo ne valga davvero la pena. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 75 

giovedì 12 giugno 2014

Megattera – Origo

#PER CHI AMA: Elettronica, Industrial, Ministry
I Megattera (a proposito, bellissimo nome), ultima sensazione dell’elettronica romana, sono un duo composto da Matteo e Gianni, con un passato da musicisti “tradizionali” in ambito post rock. Armati di campionatori, drum machine e sequencer, i due riescono a districarsi egregiamente tra atmosfere sintetiche ora piú rarefatte, ora “sporcate” da clangori industrial, sviluppando un discorso fatto di suggestioni apocalittiche e scenari post industriali, ricco di intuizioni spesso sorprendenti. La costruzione di questi 6 brani segue sovente un canovaccio simile: i due procedono per stratificazione, deponendo sopra un beat iniziale scarno (e scarnificato) nuovi layer sonori, che ben presto rivelano un disegno dalla complessità via via crescente, senza perdere mai di vista l’identità del brano, anzi valorizzadolo con orchestrazioni metalliche e soluzioni interessanti e mai banali. Si parte con le scansioni marziali di "Nebula", dove le orchestrazioni vengono scosse da sferzate cyber-punk. I pezzi fluiscono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, ed ecco quindi che "La Lunga Attesa" che mantiene fede al suo nome, creando una tensione sospesa e trattenuta, si trasfigura repentinamente nei ritmi parossistici da tempesta elettromagentica di "La fine del Perdono". "Vorago" è sicuramente tra gli episodi migliori dell’album, con la sua sottile inquietudine instillata da un beat simil trip-hop, e un poetico break di chitarra elettrica arpeggiata prima di un finale maestoso e liturgico. I brani dall’incedere lento e compassato sono quelli che si fanno preferire in una scaletta che non ha comunque momenti di cedimento, anche in una "IO/RE" sporcata di dubstep e quasi danzereccia (nell’accezione che Trent Reznor darebbe a questo termine). La lunga, conclusiva "Grande Inverno", forse ispirata alla saga di 'Game of Thrones', si staglia minacciosa all’orizzonte alternando raffiche di elettronica gelida a intermezzi chitarristici dal sapore post che scaldano piú di un ciocco crepitante nel camino in una notte di neve. In definitiva si tratta quindi di un disco decisamente interessante, forse un po’ ostico al primo ascolto, ma in grado di regalare tante soddisfazioni all’ascoltatore, e di insinuarsi sotto pelle come un germe mutante difficile da debellare. Ottimo lavoro! (Mauro Catena)

(Killrpool Records - 2014)
Voto: 75

Aeons Confer – Symphonies of Saturnus

#PER CHI AMA: Progressive Death Dark, Augury, Anaal Nathrakh, Wintersun
Il sestetto di Amburgo ci coglie di sorpresa e ci lascia esterrefatti con un primo album pazzesco dove la forma epico oscura degli Anaal Nathrakh, la lucida e classica rigidità teatrale dei Wintersun, la potenza tecnica degli Augury e la variante sinfonica monumentale degli Empyrion riescono a sfociare tutte assieme in un unico album dai mille volti. La tecnica sopraffina e le più che incoraggianti e ricercatissime strutture di metal sinfonico si incontrano nel cammino di un death metal violento e glaciale, dalla doppia cassa devastante e dal suono al limite dell'industriale. Rumori, cori, elettronica minimale, tastiere mastodontiche, chitarre killer, tanto moderno metal (ascoltate "ESP" o "Aeonized") e un vocalist degno di tale nome sia nel growl che nel pulito. Numerose ed inaspettate aperture melodiche con forte ispirazione ad un freddo, oscuro e potente metal proiettato nel futuro, conferiscono un'impronta progressiva e concettuale all'intero lavoro. Questo è un disco spaventosamente pieno di idee, ragionate a lungo (9 anni di gestazione dal precedente EP!), suonato a dovere e carico di nitroglicerina pronta ad esplodere; un continuo intersecarsi di riff e umori contrastanti inghiottiti da un cantato magistrale. Tutto calza a pennello e niente scalfisce l'intero ascolto dei quattordici brani disseminati nei circa settantotto minuti dell'album. Tutto è legato come in un lungo concept da una colata di lava incandescente: velocità, melodia, drammaticità, teatralità e potenza al di fuori della norma. Ci fa rabbrividire di gioia pensare a quale sforzo creativo questa band teutonica si sia sottomessa e a quale apice sia approdata. Immaginate 'Timmo Tolkki's Avalon' in una forma oscura e oppressiva; visualizzate nella vostra mente una specie di musical in chiave death metal e avrete un'idea di ciò che vi aspetta. Aggiungete poi tanta tecnica, una bella dose di violenza, un suono professionale, un modus operandi e una scrittura musicale da dieci e lode privo di cadute, che non annoia, e che riesce a rivitalizzarsi ad ogni ascolto. Considerando che il tutto non è di facile approccio, rimarchiamo a gran voce che questo è un signor album! Fast and modern symphonic dark metal ritroviamo scritto sulla presentazione del cd... e nulla potrebbe descrivere meglio questo loro stupendo primo full lenght! Una band da non perdere di vista pronta per il grande passo! Gioiellino da avere! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 90

martedì 10 giugno 2014

Cauldron Black Ram - Stalagmire

#FOR FANS OF: Black/Death Metal, Doom/Sludge, StarGazer, Crowbar
Never one to follow a strict releasing schedule, this third release from the Australian Black/Death Metal act comes four years after their last release, itself six years after the preceeding offering so there’s clearly no need to put out music constantly from the band with an output like that. Certainly, though, that relaxed pace has certainly caused a more relaxed vibe to enter their music for this band’s output is decidedly plain and quite sluggish, as the album rarely manages to make a lasting impact with its chosen style of primal Death Metal, Doom and Black Metal while laced with dashes of Sludge for what is a wildly inventive mix but one which doesn’t always make for entertaining listening. The slow, droning Doom tempos are mixed with brazen, heavy Sludge-like riffing patterns recorded with a level of slime and fuzz that incorporates the occasional fast-paced Death Metal section against a hoarse, demonic rasp that brings the Black-ness into focus, but overall this conglomerate of influences manages to come up with a hodge-podge of discordant sounds and off-kilter passages that make for a scattershot and disorganized-sounding album that doesn’t know to keep itself in line for the track as it has to go off into its own little world almost as if distracted by something else in the room. That the production is so weak and bland certainly does this no favors, rendering the guitars into a pile of mush that further offers their Sludge listing while making riffs bleed into each other with so much distortion going on as to make it nearly impossible to determine the actual melody being played. As well, the drums are just merely pounding percussion notes playing the background and really don’t do much of anything to distinguish themselves while the blaring, muddy bass-lines throughout make for a rather sloppy mess that it can’t really recover from. There’s no bite at all to the music and when mixed with generally boring and disorganized music as this it really makes the whole effort hard to get into. This isn’t all the fault of the songs, as intro "Fork Through Pitch" signals their intentions immediately with plodding riff-work, stagnant paces and churning, slow-broiled rhythms at odds with each other as the thrashier sections clash wildly with the sluggish tempos, awful production and decidedly obvious lack-of-life within the arrangements, clearly gives a noticeable warning. "Maw" is slightly better with a tight riffing set and some spirited sections, but again the lousy production, plodding rhythms and generally heavy-handed forcing of the different elements into a whole makes for a rather troublesome outing. "Discarded Death" is a bit better as it focuses more on low-slung Death Metal riffing and a generally faster vibe that comes off as one of the faster tracks on the album and stands out because of that. The album’s worst track, "A Litany of Sailor’s Sins," is just too slow and plodding to offer anything substantial here with a lame central riff, no speed or even heaviness until the later half, which is generally too little too late to matter with this one. This plodding, generally uneven pace is repeated throughout "From Whence the Old Skull Came," the rumbling bass failing to make the bland, plodding riffs stand up against the uninteresting drums and makes this one undoubtedly disposable. "Bats" tends to focus itself a little better with some fine mid-tempo riffing and a generally enjoyable pace, while the fine instrumental "Cabin Fever" certainly offers up some interesting up-tempo riffs and sections that actually comes across as one of the better tracks without the vocals to hold it back and lets the band rip away with abandon. "The Devil’s Trotter" does get things back on track with the bouncy rhythms and actually fun tempo throughout, but tends to wander around too much with the eerie vocal chants and go-nowhere final half that really makes it hard to finish off strongly, which certainly aligns itself with the plodding closer "Speliogenesis," as the extended vocal chanting, plodding riff-work and generally numbing riffing throughout manages to end on a feeling of euphoria at not enduring anymore as the final up-tempo notes sign off once and for all at the general lack of interest it has in sustaining that pace. The credit for mixing the genres is certainly commended, but the fact that it’s so weak and disorganized as this is certainly troubling. (Don Anelli)

(20 Buck Spin - 2014)
Score: 40