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sabato 26 maggio 2012

Permixtio/Ethere - Split Cd

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum, All the Cold
La più classica delle melodie da carillon, contribuisce a farmi sprofondare in un profondo sonno da cui non so se riuscirò mai più a far ritorno. Questo è l’intro affidato alla nuova release dei Permixtio, qui accompagnati dagli Ethere, in uno split cd da 5 pezzi. Si apre immediatamente con “Epidemia” (un nome, un programma) che odora decisamente di putrefazione, prima di sprigionare tutta la propria malvagità nella efferata sezione ritmica, disperata e malata, come solo il buon vecchio Conte Grisnack, era in grado di fare. I Permixtio, one man band guidata da Umbra, chitarrista degli Strix (qui affiancato da Chimsicrin alla batteria), si abbandonano ad un suicidal depressive black metal, che basa i propri suoni sulla malinconia delle chitarre quando esposte in chiave acustica, mentre nei momenti più incazzati, è il classico stridore zanzaroso delle chitarre in stile norvegese a reggere il palco. “Melancolia in Requie” è un uggioso intermezzo acustico prima di “Innalzamento Divino”, una tetra e ossessiva song mid-tempo di chiara matrice old school, in cui accanto al tipico graffiante screaming, Umbra si cimenta anche con un evocativo cantato pulito. Interessante ma siamo ancora in una forma embrionale di un sound che lascia ben intravedere ottime potenzialità per il futuro. La palla passa agli Ethere e al vento d’inverno che soffia e apre “Ode all’Inverno”. Sicuramente complice la posizione montana, Belluno, al pari della Norvegia deve essere influenzata dalla magia di boschi o montagne. La prima song del factotum Ethere, mi proietta nel passato di quasi una ventina d’anni quando uscì “For All Tid” dei Dimmu Borgir, ma anche nelle due tracce della seconda one man band, è presente più che mai l’essenza di Burzum. A differenza dei Permixtio, qui non ci troviamo di fronte a ritmiche tirate o comunque grondanti satanica malvagità, ma l’aura che avvolge la proposta degli Ethere, è decisamente più atmosferica e rilassante, comunque carica di nefaste emozioni (splendida "Lux Eterna"). Sebbene questo split cd non aggiunga nulla di nuovo ad una scena più che mai fiorente di simili sonorità, mi sento comunque di consigliare l’ascolto di queste due nuove inquietanti entità dell’underground black metal italico. (Francesco Scarci)

(Novecento Produzioni)
Voto: 70

Equal Minds Theory - Equal Minds Theory

#PER CHI AMA: Mathcore, The Dillinger Escape Plan
Non è mai cosi semplice recensire album di simile fattura, quei lavori che dall’inizio alla fine ti stravolgono il proprio io e lo riducono in poltiglia, facendoti perdere il senso della realtà e catapultandoti in mondi estranei, fatti di luci e suoni indescrivibili. Di solito questo genere di suoni, arrivano da oltre oceano, mentre quest’oggi, mi ritrovo a recensire una band proveniente dalla madre patria Russia. Signori, ecco gli Equal Minds Theory, quintetto dedito ad un math/grind core, che a parte nella sua inquietante intro, la classica calma prima della tempesta, poi si prende gioco di noialtri, poveri incauti ascoltatori e per poco più di 35 minuti ci massacra con songs tiratissime, schizoidi (l’attacco di “Oceanbound” è da paura), canzoni in acido che hanno il grandissimo pregio per lo meno di interrompere qua e là il proprio impeto belligerante e piazzare dei break salva vita. Ma non contateci molto, perché comunque per avvicinarsi a questo prodotto, bisogna essere assolutamente degli amanti di questo difficoltoso sound che fa di scorribande in territori grind, hardcore, crust e post-core, il proprio inconfutabile credo. A nulla servono gli inserti cibernetici dei synth, la musica degli Equal Minds Theory rappresenta una minaccia per il pianeta terra e la prerogativa principale per proporre una simile offerta, è quella di essere dei musicisti esagerati, abili a viaggiare a velocità sostenute, a divincolarsi in generi che fuoriescono dalla normale definizione di metal (psichedelia, progressive, visual, space rock, colonne sonore), devono essere imprevedibili (splendida “The Nomads” a tal proposito), mostrare una tecnica eccelsa per poter giocare sulle accelerazioni/stacchi e rallentamenti mostruosi (il batterista proviene da un altro pianeta, deve avere decisamente una forma tentacolare) e avere un vocalist costantemente in acido (ottima performance). Insomma, per farla breve, l’album omonimo dei russi Equal Minds Theory non vi annoierà di certo, un po’ come andare in barca: vira, stramba, il tutto però effettuato alla velocità della luce. Ubriacanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

venerdì 25 maggio 2012

Ordo Obsidium - Orbis Tertius

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Che i Wolves of the Throne Room stiano facendo proseliti lo si è capito da un bel po’: mai come in questo periodo infatti, ho visto cosi tante uscite in campo black o meglio post black o come qualcun altro preferirebbe etichettarlo Cascadian Black. Fatto sta, che quello che mi passa fra le mani quest’oggi, è l’ennesimo esempio di musica rude, estrema e talvolta atmosferica, proveniente dagli States, quasi come se gli americani si siano dimenticati dell’esistenza di altri generi (e dire che fino ad un paio d’anni fa erano fissati col metalcore) e si stiano esclusivamente concentrando a questa forma primordiale di suoni. Non che la cosa mi dispiaccia anzi, per il momento sto sentendo ottime cose provenire dal versante west degli US (e penso a Deafheaven, Addaura o Alda) e questi californiani Ordo Obsidium, non vanno tanto distanti dalla proposta delle band già menzionate: la musica dei nostri è infatti un bel black tirato nelle sue parti più veloci, molto oscuro e apocalittico nelle partiture doom, il che si evince già dalla lunga suite iniziale, “Nequaquam Vacuum” che si protrae furentemente tra chitarre minimalistiche, rallentamenti di matrice funeral e urla strazianti, per quasi 12 minuti. “Into the Gates of Madness” ha quasi un incedere punkeggiante, prima che le ritmiche serrate inizino a calcare nuovamente la mano, avviluppandosi in suoni nevrotici, con le disumane grida a stagliarsi sul tappeto chitarristico, che trova nel suo break centrale anche un accenno di malata melodia (una sorta di Ved Buens Ende in acido). Degli spunti interessanti se ne ritrovano anche in questo “Orbis Tertius”, nonostante talvolta rischi seriamente di annoiare per quel suo feeling che sa di già sentito e risentito. Fortunatamente ci pensano le aperture in acustico o qualche intermezzo tastieristico a ridestare l’interesse dell’ascoltatore, che talvolta scema perché investito da frenetiche e dirompenti ritmiche senza capo né coda. Insomma, un album che farà la gioia di chi ama il black nella sua forma più nichilista, cosi come pure chi ama il funeral doom (basti ascoltare la title track per farsene una buona idea) di derivazione est europea. E allora diamo una chance a questo quartetto americano, con la consapevolezza che comunque questo è il debut, pertanto i margini di miglioramento sono assai ampi… (Francesco Scarci)

(Eisenwald Tonschmiede)
Voto: 65

martedì 22 maggio 2012

Kubark - Ulysses

#PER CHI AMA: Alternative, Isis, Tool, Lingua
Ricorderò questo 2012 come una delle primavera più calde, musicalmente parlando, perché il quantitativo di ottime cose uscite in questo periodo, si arricchisce di un nuovo gioiello, tra l’altro ancora una volta proveniente dal “Bel Paese”, segno che la crescita musicale nel nostro paese, sta procedendo alla grande. Cosi, dopo l’eccezionale prova dei Sunpocrisy, ecco arrivare una new sensation da Piacenza. Kubark. Curioso affidare il proprio moniker ad un manuale sulle tecniche di interrogatorio per cosi dire pesanti, rivolto ai funzionari e agli agenti della CIA; intrigante anche la cover del cd, cosi come pure le fotografie urbane in bianco e nero, interne al booklet. Insomma un lavoro che si rivela fin troppo intelligente già dal suo packaging esterno. Per non parlare poi di quello che è salvato sui quei magici solchi di questo disco argentato. Kubark, li ricordo ancora una volta. Magnetici. Poetici. Una band che farà la gioia di chi ama sonorità alternative, post, psichedeliche, sludge, crossover o stoner che siano. Questo è un Ep che mi ha fatto vibrare le gambe sin dalla prima nota uscita dagli strumenti di questi ragazzi. “Letdown”, una canzone post rock, assai breve, cupa, che mette in evidenza immediatamente le doti canore del vocalist dell’ensemble emiliano e che si chiude con dei suoni malsani ed altri che sembrano richiamare gli echi extraterrestri del film “Contact”. Poi sulle chiacchiere di due “frivole” ragazze, ecco sprigionarsi il sound dei nostri che oltre a richiamare inevitabilmente gli A Perfect Circle, un altro nome salta fuori dalla mia testa, gli svedesi Lingua, mio vecchio grande amore. Sarà forse per questo che ho adorato immediatamente i Kubark. Italiani, ricordiamolo e andiamone fieri. “Ainsoph” è un brano meraviglioso che si dipana tra scorribande rock, oscure distorsioni di basso, malinconici tocchi di chitarra e ancora quella suadente voce di Andrea. Quante suggestioni nell’ascolto di quest’album si incanalano nella mia testa. Lisergico il finale. Fumosa invece la terza “Love & Preach Hate”: ho quasi la percezione di entrare in un qualche torbido locale di Amsterdam, dove belle donnine danzano attorno ad un palo di lap dance e chiedono un po’ di quattrini per donare un po’ del loro amore. Malati. Inquieti. Forse mi sento un po’ come questi ragazzi ed è per questo che li adoro già. Anche un po’ rozzi comunque, non temete, la band non si fa certo pregare quando c’è da essere un po’ più pesanti. O più delicati e sognanti, come sul finire della terza song, dove sono echi alla The Ocean ad emergere. Un bel basso apre la title track, una traccia dal forte flavour post rock, a dir poco disarmante, che sa come conquistarmi, sedurmi, spezzarmi il cuore e poi gettarmi via, come il più classico dei kleenex. A chiudere questo Ep della buona durata di 30 minuti, ci pensa la bella dolce “Vixi”, che chiude un cd che ha la giusta carica e quelle brillanti intuizioni dalla sua parte, per poter dare a questa ottima band la forza di conquistare anche le vostre piccole anime dannate… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

lunedì 21 maggio 2012

Whales And Aurora – The Shipwreck

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, Russian Circles, Isis, The Ocean, Mogwai
Al calar delle tenebre, nelle oscure acque della scena musicale italiana, si avvista una sagoma all'orizzonte. È il relitto dei Whales And Aurora, che molto lentamente va approdando nel mio stereo con “The Shipwreck”. Le prime tracce, “Refused Recounting Word”' e ”Achieving the Unavoidable” mi fanno subito capire che il giovane gruppo di Vicenza ha le idee chiare sul sound che vuole proporre: lentissimi riff che avvolgono l'ascoltatore in un totale squilibrio emotivo, accompagnati da una batteria la quale, ogni volta colpisce un tom, ci fa un'acconciatura diversa. Il tutto è reso ancora più oscuro da uno screaming disperato, che fortunatamente ci accompagnerà durante tutto il disco. La produzione è ottima, riesce a far risaltare ogni singolo arrangiamento, amplificando in modo ottimale le sfuriate di basso, le chitarre, dai muri sonori dissonanti e dalle fini modulazioni, senza dimenticare le ritmiche della batteria, che fanno da padrone incontrastate nella possanza dei brani. Traccia 3 – “The Aground Hard-Ship”: disagio. Non dico altro. La seconda parte del disco offre il culmine in termini di pathos dell’intero lavoro: dagli assuefanti delay chitarristici e dal basso inarrestabile di “Abandoned Among Echoes”, alla commovente tranquillità di “Awakened by the Aurora”, che momentaneamente mi inganna, gettandomi in un mare di lacrime per la prematura fine dell'album e i conseguenti fiumi di maledizioni verso coloro che hanno composto un disco così breve. Poi mi riprendo. Minuto 32:50 “A New Awareness”. L'intro di questo capolavoro downtempo, mi induce la pelle d'oca ad ogni singola nota, prima di scaraventarmi con innaturale forza e dolore nel pieno di questa nuova consapevolezza che racchiude tutto il malessere inimmaginabile. Tutto ciò poi va a scemare in “Floating on Calm Waters”, brano che rappresenta adeguatamente il proprio titolo, regalandoci una deriva sulle calme e silenziose acque della disperazione. Non mi rendo conto che il disco è finito, sto ad aspettare ingenuamente una nuova traccia, sperando che si ripeta l'episodio che mi ha regalato una perla come accaduto in precedenza, ma dopo alcuni interminabili attimi, mi accorgo che il lettore si è fermato. Il relitto ha terminato la sua attraversata. (Kent)

(Slow Burn Records)
Voto: 90

sabato 19 maggio 2012

The Great Old Ones - Al Azif

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room, Altar of Plagues
La Francia continua a mietere vittime, non c’è dubbio. La corrente musicale che si è sviluppata nel paese d’oltralpe è di primissimo livello e sono fermamente convinto che abbia ormai scalzato i paesi nordici dal trono che occupavano fino a qualche anno fa in ambito estremo. Non posso esimermi anche questa volta di non citare le band grandiose che popolano l’underground “galletto”: Blut Aus Nord, Deathspell Omega, fino agli ultimi mirabolanti Pensées Nocturnes e Alcest, solo giusto per citarne alcuni, perché la lista sarebbe infinita. E oggi, ancora un’altra band proveniente dal paese dei nostri cugini, precisamente da Bordeaux. È il turno dei The Great Old Ones, portentoso five-pieces, dedito ad un post black di derivazione statunitense, scuola Wolves in the Throne Room, giusto per darvi un indizio di massima. Inutile negare che poi l’ensemble ci metta molto del suo, proponendo nella propria line-up ben tre chitarristi, il cui compito è quello di ergere un muro sonoro violento, maligno ed evocativo, che si esplica egregiamente nel corso dei suoi sei pezzi qui contenuti. D’altro canto, il titolo dell’album, “Al Azif” non lascia margini di interpretazione, trattandosi infatti del titolo originale in arabo, del famigerato “Necronomicon”, il testo di magia nera, uscito dalla penna di Howard Phillips Lovecraft, quindi che cosa meglio di un esempio di black metal diabolico per narrare tutto ciò? La band transalpina pertanto percorre il sentiero della fiamma nera, affidando il tutto a sonorità oscure, selvagge che trovano tuttavia sprazzi di quiete in frangenti che sfiorano il post rock o lo shoegaze (assai palese in “Jonas”). Eccolo quel qualcosa in più che va ben oltre la già valida proposta degli americani WITTR, perché a mio avviso i The Great Old Ones, hanno sicuramente molto da offrire, ben più degli esimi colleghi d’oltreoceano: i suoni avantgarde dei nostri si fondono inequivocabilmente con la furia cieca del black più bieco, in un sound che puzza di morte, complice sicuramente una registrazione cupa che non lascia trasparire altro che sensazioni negative. Angoscia, malinconia, senso di soffocamento (l’inizio di “Rue d’Auseil” non è niente male a tal proposito) impregnano “Al Azif”, un album il cui solo tenere in mano il cd, trasmette sensazioni poco rassicuranti. Sei songs, sei capitoli che potrebbero tranquillamente fare da colonna sonora ai vostri incubi più reconditi, esplicati attraverso le malvagie vocals di Jeff Grimal, accompagnato dalle coreografiche ed efferate pulsioni sonore degli altri componenti della band che candidano i The Great Old Ones ad essere una delle sorprese dell’anno in ambito estremo. Le melodie fangose dello sludge, le turbe psichedeliche dettate da un riffing estremamente ricercato, gli ottimi arrangiamenti, gli inframezzi acustici, la complessità di song altamente strutturate, un packaging limitato a 300 copie davvero interessante, contribuiscono a rendere “Al Azif” un album sicuramente appetitoso agli amanti del genere, a chi segue un genere che sta trovando la sua massima affermazione in act quali Altar of Plagues o i new comer californiani Deafheaven che da poco hanno solcato il suolo italico in compagnia dei Russian Circle. Insomma, a parte tutte queste divagazioni, avrete capito che sono entusiasta di fronte alla proposta di questa ennesima band transalpina; un complimenti anche alla Ladlo Production che continua la sua opera di ricerca intelligente nell’underground europeo, dopo aver assoldato nel suo rooster i belgi Cult of Erinyes, sempre recensiti su queste pagine. Maledetti! (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions)
Voto: 85

Brain - Nightmare in Love

#PER CHI AMA: Death/Thrash
Questo lavoro è stato una piacevole sorpresa, interessanti e convincente. Partiamo dall’inizio. Mi capita tra le mani questo “Nightmare in Love”; guardo l’artwork, alzo un po’ il sopracciglio e mi faccio un paio di idee sul contenuto. Carico nel lettore e premo play. Però! Niente male questi “Brain”! Enrico Tiberi (voce e chitarre), Alessio Spallarossa (batteria, militava nei Sadist) e Andrea Lunardi (tastiere) ci hanno dato dentro che è un piacere. Si sono guardati intorno, hanno preso spunti, li hanno amalgamati in maniera solida, persuasiva e piuttosto personale. Ed ecco “Nightmare in Love”, un LP difficile da catalogare. Per darvi un’ idea, lo scheletro delle canzoni parte dal death/thrash, tuttavia gli innesti elettronici e di tastiere mi fanno ricordare certi gruppi di metà anni ’90 (butto lì i Fear Factory). La loro bravura tecnica emerge da ogni brano, in più hanno ottenuto un buon risultato anche a livello compositivo. Tutto questo, combinando aggressività e velocità in modo funzionale. Come dicevo, la parte esecutiva è notevole. Svetta l’operato del batterista, sempre preciso, martellante e mai sopra le righe. A seguire le inquietanti tastiere e le scalpitanti chitarre. Il cantato, sebbene passi agilmente dal growl a parti più pulite, mi suona un filo ripetitivo. Tra le tracce trovo non banali le più gelide title track e “Society”. Invece “Dear Faith” e “Sceptre” sono quelle che esprimono maggiormente le influenze cyber di cui sopra. Con la bella “Love”, quasi solo strumentale, la band crea l’apice del platter. Le altre song rimangono comunque nel solco, senza particolari cadute di stile. Una maggiore varietà nella scrittura delle canzoni sarebbe stata davvero la ciliegina sulla torta. Però è un disco che non stanca, e che riesce mantenerti incollato all’ascolto. Secondo me è davvero da salutare con entusiasmo. Bravi. (Alberto Merlotti)

Blutklinge - Ahnengeist

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Nargaroth
Questa è una radicale vendetta contro tutte le forme corrotte della civiltà moderna. Otto tracce che si addentrano nel dolore musicale più assoluto, una nenia di maledetta sofferenza che batte al posto del cuore. “Ahnengeist” è spirito indomito, è solitudine estrema, è trovarsi nel mezzo di una folla e urlare l’assenza completa di ogni emozione. “Ahnengeist” è lo stadio finale del suicide-depressive black metal, la porta verso l’annullamento totale del proprio io. Sono sicuro che Nietzsche sarebbe stato felice di poterlo ascoltare. Questa demo del 2006 è l’apogeo di un metal pervaso da un decadente senso di abbandono, avvolto da melodie che integrano vere e proprie ballate black in un ricordo lontano del Nargaroth di “Black Metal ist Krieg”. “Einklang” e “Ausklang” sono le tracce che aprono e chiudono rispettivamente dei monoliti di potenza sonora. Corrodono con una poesia densa di elementi ambient, che pare scontrarsi con l’antitesi violenta delle altre sei opere che custodiscono gelosamente. Si passa da veloci andamenti old school norvegesi (“The Fires of War are Burning”) a melodie ‘spiritual-slow’ inserite in momenti topici di precise canzoni (“Depression of a Doomed” e la crepuscolare “Das Sterben der Ewigkeit”). Nel complesso, lo stile Blutklinge presenta elementi caratteristici facilmente riconoscibili. Dominano incontrastate le chitarre a zanzara, che personalmente amo alla follia, e una batteria dalla registrazione meno cupa del solito. Notevole l’effetto dai cambiamenti di tempo che viene interpretato da piatti e doppia cassa in sincrono (ricordate i Darkthrone degli albori?). La voce è una sofferenza trucida. Senza testo sottomano non sono riuscito a comprendere nemmeno una singola parola, tenendo conto che il cantato è quasi totalmente in tedesco. Tuttavia, se pensate ad una voce alla Steve Austin siete sulla strada sbagliata. Queste corde vocali sono black metal al 100%, è esclusivamente la registrazione che le modifica, le assimila alla stessa distorsione a zanzara delle sei corde. Mi sento male quando devo descrivere magnificenze come “Ahnengeist”. È l’assoluta perfezione di ciò che cerco nella musica, l’Araldo del sentimento di abbandono universale. Quando sono stato in procinto di ascoltare la quinta traccia, “Ragnarök”, mi sono reso conto, con estremo stupore, che l’agonia che avevo nel cuore non era nulla in confronto al dolore di chi aveva scritto quella canzone. Nessuna indecisione. (Damiano Benato)

(Wunjo Kunstschmiede Germanien)
Voto: 100

Dug Pinnick - Emotional Animal

#PER CHI AMA: Rock, Psichedelia
Doug Pinnick (ora Dug) è il frontman dei King’s X, creatura heavy-prog, oramai in giro da più di venti anni ed “Emotional Animal” rappresenta il suo terzo album da solista, anche se i due precedenti lavori sono stati registrati sotto il nome di Poundhound. L’album, quasi interamente suonato da Dug (aiutato dal solo Joy Gaskill alla batteria e Kelly Watson alla tromba), percorre un sentiero rock, ricco di varie sorprese, la prima fra tutte, la traccia numero sei, “Equal Rights”, un brano dalle forti venature gospel o ancora, come non menzionare la claustrofobica “Are You Gonna Come”. L’album trasuda di musica contaminata, qui non c’è la benché minima ombra di metal, ma pop, soul, psichedelia, stoner rock e tanto tanto groove, con la ugola calda e inconfondibile di Dug a dominare la scena. Gli altri brani sono tutti godibili: “Change” con il suo flavour pop e con quel suo fantastico assolo posto a metà pezzo, “Beautiful” con il suo incedere iniziale marziale, il suo ritornello orecchiabile e la sempre magnifica voce di Dug; “Missing” per le sue suadenti linee hard melodiche, “Freak the Funk Out” per la sua attitudine funk trip hop. “Emotional Animal” non è però un album di facile assimilazione: è molto intimista, è necessario ascoltarlo più volte per poter apprezzare realmente la proposta di Dug. Registrato e mixato ai Poundhound Studio dallo stesso Dug, il cd contiene anche materiale audio e video bonus in formato multimediale. Se avete amato i precedenti lavori dei Poundhound o se siete fan dei King’s X, acquistate tranquillamente anche “Emotional Animal”, vi sorprenderà... (Francesco Scarci)

(Magna Carta Records)
Voto: 75
 

Valkiria - Here the Day Comes

#PER CHI AMA: Gothic Doom, primi Katatonia e Anathema, Draconian
Una cover con un raggio di sole che filtra attraverso gli alberi; un titolo, “Here the Day Comes”, che ha un forte sapore malinconico, cosi come i nomi delle song, che segnano i vari momenti della giornata; infine, un’intro dal pesante flavour nostalgico, ci introducono nel mondo dei Valkiria, band vicentina che da ben tre lustri popola il fitto underground metallico italiano, ma che ahimè soltanto oggi, sboccia come un fiore in primavera. Eccolo il nuovo album della band capitanata da Valkus, coadiuvato dal buon vecchio Mike (chitarrista anche degli Stighmate) e che vede alla batteria in veste di guest, Giuseppe Orlando, degli ormai scomparsi Novembre. Il sound proposto dai nostri è un black (poco in realtà) doom gothic (parecchio), che trae sicuramente origine da un album meraviglioso quale è stato “Brave Murder Day” dei Katatonia e dalle ultime produzioni in casa Draconian, senza dimenticare quel feeling che solo i già citati Novembre, erano in grado di imprimere nelle loro composizioni. Dopo aver dischiuso i nostri occhi ancor prima che le luci dell’alba si mostrino al giorno, con i suoni lontani di “Dawn”, è con le melodie dolci e suadenti di “Sunrise” che i nostri mi conquistano pienamente: si tratta di una song intrisa di dolore, e di arrendevolezza di fronte al proprio inesorabile destino, che attraverso uno splendido lavoro alle chitarre, mi trasmette tutto il proprio desolante dissapore. Tristi, ricchi di pathos, crepuscolari, fino a quando il sole non si staglia finalmente nel cielo, ma probabilmente è un mattino coperto da una fitta nebbia, perché “Morning” ha un’andatura per certi versi affranta, funerea; Valkus con il suo growling/screaming assolutamente intellegibile, ha un che di disperato, che evoca il cantato di Jonas Renkse nell’indimenticabile “Dance of December Souls”, prima perla dei Katatonia. Tra le nebbie apparentemente diradate, il pomeriggio porta con sé un pizzico di ardore in più, ma è solo una pia illusione, perché i nostri risprofondano già nel finale di “Afternoon”, nella drammatica angoscia di cui è permeato l’intero album. Si conferma splendido il lavoro alle chitarre, nonché quello alla batteria da parte di uno dei migliori drummer in circolazione, senza dimenticare il lavoro di rifinitura delle tastiere di Alberto Pasini. Il tramonto si sa, segna la fine della giornata, e forse anche delle nostre speranze, che si spengono con “Sunset”, un altro esempio di bellezza musicale senza tempo, che pescando dai classici degli anni ’90, “The Silent Enigma” degli Anathema o “Icon” dei Paradise Lost, delizia ulteriormente il mio palato. Poche luci si accendono nella buia sera, ma si affievoliscono da li a poco dietro le nuvole, presagio di una pesante e fredda pioggia incombente. La notte è pronta ad avvolgere nelle sue tenebre ogni cosa, prima che la luce segni nuovamente il ricominciare del ciclo del giorno e della vita. Piacevole come back discografico all’insegna di sonorità decisamente autunnali, che vede la band debuttare per l’attenta Bakerteam Records. Fortemente consigliati. (Francesco Scarci)

(Bakerteam Records)
Voto: 80

Joyless Jokers - Taste of Victory

#PER CHI AMA: Swedish Death Metal, Dark Tranquillity, Carcass
Un due tre, pronti via e si parte con la feralità nuovamente espressa dai vicentini Joyless Jokers, che avevamo già avuto modo di ospitare, sia sul sito del Pozzo dei Dannati che all’interno dell’omonimo programma radiofonico. Ed eccolo ritornare il combo guidato dai tre fratelli Girardello (voce e basso, chitarra e tastiere), ad offrirci nuovamente il loro granitico e fiero death metal, che ancora una volta irrompe nelle casse del mio stereo, con un sound ancor più monolitico rispetto al suo predecessore, “Arms of Darkness”. “Rain” e “Murder in Me” sgretolano immediatamente il mio lettore, mostrando una lieve evoluzione in termini di songwriting, rispetto al debut EP. Le linee di chitarra, sempre ruvide e pesanti, pescano ancora una volta dalla scuola svedese, non dimenticandosi tuttavia i tecnicismi “carcassiani”, soprattutto in chiave solistica. Le perniciose growling vocals di Tom (alla lunga un po’ troppo piatte però, per cui suggerisco un inserimento “pulito” qua e là), si mostrano costantemente incazzate col mondo, ostentando tutto il proprio dissapore ed odio lungo le otto songs qui incluse, ma soprattutto nella settima splendida “I’ll Watch You Die”, che insieme a “Hopeless”, rappresentano le mie tracce preferite. Nel frattempo, il quintetto veneto martella che è un piacere e rimaniamo quasi compressi dalla tellurica prestazione di Giove dietro le pelli, senza dimenticare di sottolineare la sempre precisa quanto mai piacevole opera dei due axemen, Michele e Rudy, che intrecciano le loro chitarre tra vibranti e melodici assoli, stop’n go e ritmiche che finiscono per trarre ispirazione non solo da Dark Tranquillity e soci (At the Gates, Meshuggah o Arch Enemy), ma in taluni frangenti, anche dalla scuola “core” americana. A stemperare la furia dirompente del quintetto, ci pensano ancora una volta gli inserti di tastiera del buon Jader, che ha il compito fondamentale di donare un certo equilibrio a “Taste of Victory”. Insomma il “Sapore della Vittoria” ha sempre un inconfondibile gusto che i nostri stanno lentamente saggiando… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

giovedì 17 maggio 2012

Bauda - Oniirica

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Black depressive, Liam
Ancora una volta ci addentriamo nell’oscuro mondo dell’underground, recandoci questa volta in Cile, alla scoperta di una band che avrebbe largamente potuto stupire con effetti speciali e colori ultra vivaci invece, complice l’assenza di un vocalist, alla fine questo “Oniirica” si rivela ahimè un album che stenta a decollare, che mostra le enormi potenzialità della band sudamericana, che a breve avremo comunque modo di riassaggiare, in un nuovo lp. Nel frattempo passiamo brevemente in rassegna quello che ha da offrire il full lenght d’esordio del terzetto di Santiago: si tratta di un cd di 5 lunghi pezzi che sfiora i 50 minuti di musica. L’act cileno propone sonorità decisamente a cavallo tra il post rock sonnacchioso, intermezzi ambient, qualche rara fuga in territorio black depressive (“Trastornos”) ed aperture eteree; inoltre l’utilizzo del didgeridoo, del flauto e dell’accordion, rendono il tutto più etnico e interessante, ma con l’enorme limite, spiace ancora una volta sottolinearlo, della mancanza di un cantante che riesca a dare un’anima a quanto partorito dai nostri bravi musicisti. Non c’è nulla da fare: anche le musiche più belle, sensuali, feroci o melodiche che siano, necessitano di un ultimo indispensabile strumento, la voce. E i Bauda ne hanno un grande bisogno per dare energia e vita ad un lavoro, che avrebbe meritato molto di più, ma che per ora ha il solo pregio di dischiudere al mondo la nascita di una nuova interessante realtà da tener sott’occhio. Peccato però… (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto:65


martedì 15 maggio 2012

Ne Obliviscaris - Portal of I

#PER CHI AMA: Metal, Dream Theater, Dimmu Borgir, Skyclad, My Dying Bride
Spettacolo! Punto. Finito. La mia recensione si chiude qui, con quello che era uno dei lavori che attendevo in assoluto da più tempo… ecco gli australiani Ne Obliviscaris, che mi avevano conquistato nel 2007 con un demo cd di tre magnifici pezzi (contenuti anche in questo full lenght), “The AuroraVeil”. Da allora, ho cercato segnali di vita da parte della band e in effetti qualche contatto epistolare l’ho anche avuto, li ho spronati a firmare per un’etichetta italiana, ma niente da fare non c'era verso, fino alla conclusiva firma per l'Aural Music (che qualche grosso merito me lo dovrà pur dare). Ma veniamo alla notevolissima proposta dei nostri: se superate il primo devastante minuto in cui vi sembrerà di ascoltare un piattissimo disco death black, vi garantisco che non ve ne pentirete perché entrerete nel magnetico mondo targato Ne Obliviscaris. “Tapestry of the Starless Abstract” è la prima perla, che già conoscevo dal precedente demo e che dimostra un tasso tecnico esagerato, un gusto per le melodie assai raro, che si esplica attraverso progressivi pezzi di chitarra, inserti di violino da brivido, parti acustiche e vocals che si alternano tra le harsh di Xenoyr e quelle stupende pulite di Tim Charles. 12 minuti di pura delizia per le mie orecchie che proseguono attraverso le mirabili orchestrazioni della successiva “Xenoflux”, che a livello di ritmiche sa molto di Opeth, con una ritmica ben più tesa e serrata, che non lascia via di scampo. Frustate severe sulla batteria, aggressivi giri di chitarra, stemperati (e neppure poi tanto) da sinistri suoni di violino e dall’ambientale break centrale di chitarre arpeggiate. Ecco, siamo al cospetto di rock psichedelico che va già a porre “Portal of I” tra i miei 2 dischi preferiti di questo sorprendente 2012 (l’altro è quello dei Sunpocrisy). Le sorprese e il piacere derivante dall’ascolto di un cd, non finiscono certo qui: “Of the Leper Butterflies” è un altro bel pezzo tirato in cui continua il dualismo tra il growling e le clean vocals, prima che a mettersi in mostra siano questa volta gli assoli di Benjamin Baret e il basso di Brendan Brown. Mi manca solo di citare il fantasioso drumming di Nelson Barnes e la ritmica possente e nervosa di Matt Klavins, cosi non faccio un torto a nessuno. E andiamo avanti perché un triste violino apre “Forget Not”, altra song del “passato”, altro tuffo al cuore, altra cascata di emozioni che riempiono la mia testa di splendide vibrazioni. Ma come può la musica dare tutto questo piacere, queste tangibili sensazioni, questo senso di smarrimento e di immediato ritrovarsi. La musica penetra il cervello e da li inizia il tutto; e in questa traccia i nostri danno il meglio del meglio della loro proposta che travalica ogni definizione di genere. La musica dei Ne Obliviscaris è totale. Inutile negarlo. Sciocchi quelli che non provano neppure ad avvicinarsi perché spaventati da una parvenza di estremità. Questa è musica che riempie l’anima, musica suonata col cuore, musica che mi rende felice e triste al tempo stesso, musica per cui una volta avrei anche potuto dare 100, il massimo, ma solo il fatto che io mi possa aspettare un lavoro ancor migliore la prossima volta me lo impedisce. Vogliamo parlare della paradisiaca “And Plague Flowers the Kaleidoscope” il cui titolo dice in effetti tutto: un caleidoscopio di colori, aromi che popolano l’aria e suoni che si agitano nell’etere. Non posso farne a meno, questa è la terra promessa e i Ne Obliviscaris il messia che attendevo da molto tempo, da una vita… L’album definitivo, che trova il modo di calare altre due splendide manifestazioni di se stesso, con le rimanenti due spettacolari tracce di un pathos grandioso, che trovano il modo di chiudere una release unica nel suo genere, di grande impatto, forza, melodia, compostezza, intelligenza, aggressività, fierezza e chissà quante altre cose potremo scoprire nell’ascoltare “Portal of I”. Ne Obliviscaris, la via verso il paradiso o la perdizione totale? Per me la via per soddisfare il piacere dell’anima. (Francesco Scarci)

lunedì 14 maggio 2012

Formloff - Spyhorelandet

#PER CHI AMA: Black Avantgarde
Bella gatta da pelare mi sono trovato questa sera. No, non è il vicino che fa rumore fino a tarda ora o quell’altro che mi lascia la spazzatura puzzolente vicino il portone di casa, quest’oggi a mettermi in crisi c’è la recensione dei norvegesi Formloff, in quanto dopo ripetuti ascolti non sono ancora riuscito a mettere a fuoco la loro proposta, di certo non cosi abbordabile. Forse dovrei prendermi una pausa, ascoltare altre sette volte questo “Spyhorelandet” e decretare se alla fine possa piacermi o meno. Correrò il rischio di scrivere cazzate. Quante volte queste forme di creatura avanguardistica mi hanno gettato in crisi: iniziai a metà anni ’90 con i Fleurety e i Ved Buens Ende, per proseguire con l’incarnazione di quest’ultimi, i Virus, e ancora oggi mi viene da domandarmi se come genere soddisfi i miei gusti. Ebbene, i Formloff mi hanno procurato lo stesso mal di pancia delle band succitate che per molti rappresentano ottimi esempi di genialità: chitarre disarmoniche, improvvisazione totale, vocals gutturali cantate in lingua madre, qualche sfuriata qua e là di matrice black, sorretta da grida sguaiate, frangenti che esulano letteralmente dal metal, andando a pescare da sonorità quasi jazzistiche e decisamente rock progressive. Ecco questi momenti di sperimentazione solleticano il mio sempre più esigente palato; peccato poi che l’uso delle inopportune vocals storpi il tutto, o che quelle serrate ritmiche black, deturpino un risultato che altrimenti rischierebbe di avere del miracoloso. Con questo voglio dire, che il duo scandinavo ha ottime carte da giocarsi in divenire, però nel frattempo auspico possano limare le imperfezioni di cui sopra e lasciare più spazio alle fughe rock-psichedeliche, dando maggiormente spazio a quel basso fulminato, e alle angosciose atmosfere. Indicando un paio di pezzi che mi hanno entusiasmato, direi senza ombra di dubbio la psicotica, nonché geniale ed evocativa title track (dove il cantato assume connotati addirittura puliti) e la seconda “Harde Ord Pa Kammerset”, in cui ad ammaliarmi è il battito convulso del basso, insinuato in un’ambientazione al limite del funeral doom. Interessante infine “Faen!”, song in grado di miscelare un black furioso con un mid-tempo doomeggiante. Insomma album ancora un po’ acerbo e di difficile digestione. Forse una citrosodina sarebbe ideale questa sera per addormentarsi, e il mal di stomaco passa che è un piacere. Da risentire. (Francesco Scarci)

(Eisenwald Tonschmiede)
Voto: 65

sabato 12 maggio 2012

Ophelia's Dream - Not a Second Time

#PER CHI AMA: Ethereal, Neoclassic, Dead Can Dance
Per chi ha apprezzato i primi due lavori del gruppo di Dietmar Greulich, il ritorno degli Ophelia's Dream costituisce una gradita sorpresa. Ci avevano lasciati ben cinque anni prima, dopo l'uscita di “Stabat Mater”, per chiudersi in un lungo silenzio spezzato solamente dalla ristampa del primo album, “All Beauty is Sad” (pubblicato in origine per la defunta Hyperium nel lontano 1997), comprendente anche le otto canzoni facenti parte dell'ep. Sentir nuovamente parlare del progetto tedesco, che a suo tempo non riuscì a godere di grande esposizione, almeno qui in Italia, ha risvegliato il ricordo sopito di atmosfere neoclassiche e di aggraziati arrangiamenti ed ha caricato di una certa aspettativa l'attesa dell'uscita del nuovo album. Un ritorno firmato Kalinkaland che ci presenta gli Ophelia's Dream per nulla mutati, sia nella forma sia nella sostanza: ad accompagnare Dietmar troviamo, infatti, ancora Susanne Stierle alle voce e, inoltre, il cambiamento è praticamente minimo da un punto di vista stilistico, tanto che i nuovi brani sembrano non aver affatto risentito della pausa "compositiva" e proseguono in modo genuino e coerente il discorso lasciato in sospeso. In quest'occasione Dietmar ha preferito, tuttavia, non incentrare il proprio lavoro su melodie squisitamente neoclassiche, per arricchire il suono di ricami atmosferici tessuti con arrangiamenti sintetici che hanno il pregio di infondere maggiore pienezza e riverbero emotivo ai brani. Elementi già riconoscibili anche in “All Beauty is Sad”, ma se in quell'album essi costituivano un requisito di contorno, in “Not a Second Time” divengono caratteristica principale e si contrappongono al suono naturale del violino e del violoncello. Le partiture sono enfatiche, cariche di inquietudine e i suoni, colmi di colori dalle tonalità meste, abbracciano armoniosamente la voce garbata di Susanne, che raggiunge vette di fragile eleganza. In alcuni passaggi è riconoscibile un'evidente ispirazione ai Dead Can Dance, ma vi sono momenti nei quali Dietmar cita addirittura sé stesso attraverso il richiamo a melodie da lui già composte o eseguite in passato, come nel caso di “Saltarno”, il cui incipit ricorda inequivocabilmente la sua versione del “Saltarello” apparsa in “All Beauty is Sad”. “Not a Second Time” non si distingue, dunque, per originalità ma ciò non sguarnisce il lavoro della sua bellezza pittoresca e sontuosa che si mantiene intatta nel tempo, anche dopo numerosi ascolti. (Laura Dentico)

(Kalinkaland Records)
Voto: 70

My Sixth Shadow - 10 Steps 2 Your Heart

#PER CHI AMA: Love Metal, HIM, The 69 Eyes
Per lo spazio “Back in Time”, andiamo a pescare il debutto tanto atteso dei My Sixth Shadow! La band che nel 2002 aveva raccolto così tanti consensi presso tutte le testate giornalistiche italiane, torna a breve distanza dal demo-cd “Sacrifice” con l'esordio discografico “10 Steps 2 Your Heart”. Freschi di un nuovo contratto con la tedesca Voice of Life Records, i sei ragazzi romani si apprestano ad esportare il proprio nome oltre i patrii confini e ad accrescere sempre di più quel seguito di estimatori che il loro gothic metal è riuscito a conquistare in così poco tempo. Anche se la tracklist dell'album riporta un totale di dieci brani, “10 Steps 2 Your Heart” non va inteso come il vero e proprio full-length ma piuttosto come un assaggio di quali siano le attuali capacità del gruppo: i pezzi nuovi sono infatti solo quattro, a cui si aggiunge una cover di “Rain” dei Cult e le cinque tracce dell'acclamato demo-cd “Sacrifice”. Dall'ascolto di “Intoxicate My Heart” salta subito all'attenzione il notevole miglioramento del cantato di Dave, il quale dimostra di sapersi inserire con maggior grazia tra le note dei nuovi brani. Inoltre i passaggi più movimentati vengono interpretati con un'impostazione vocale grintosa e decisa, del tutto priva di quelle stucchevoli "scivolate" in cui lo stesso Dave si era imbattuto in passato nell'affrontare certi acuti. Proseguendo con “Death is My Rebirth” e “Throw Me Away” l'impressione è quella di assistere alla fusione della tradizione glam-rock americana (Mötley Crüe, Skid Row e Cinderella su tutti) in un contesto più attuale, che può trovare un'attinenza con le melodie romantiche e affilate di HIM e The 69 Eyes. I My Sixth Shadow non possiedono ancora la maturità e lo charm delle due band finniche ma “10 Steps 2 Your Heart” si presenta ad ogni modo come un lavoro ricco di brani d'impatto e dai cori facilmente memorizzabili, con un'attenzione particolare riposta nella scelta delle melodie e nell'uso sempre parsimonioso dei synth. Un lavoro, insomma, che nonostante qualche sbavatura qua e là può costituire un punto di partenza ottimo per avvicinarsi al pubblico gothic-metal. Consigliandovi di tenere d'occhio questi ragazzi, vi anticipo anche che la band è già al lavoro sulla registrazione delle dodici nuove tracce di “Love Fading Innocence”, full-length che vedrà la luce per gli inizi del 2005. (Roberto Alba)

(Voice of Life Records)
Voto: 70

Any Face - The Cult of Sickness

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Origin, Atheist
Uscito nel 2010 per la Buil2Kill Records, questo è il sesto album degli emiliani Any Face. Lo stile musicale è quello claustrofobico del death metal old school americano con molte influenze del tecnicismo e sferzate stilistiche di casa Origin e Atheist. Nel primo brano “Suicide Surge”, in più occasioni degli stacchi improvvisi portano la band a sperimentazioni su ritmiche dal sapore tropicale in acido che lasciano ben sperare gli amanti dell'innovazione: In “Stabbing the Core” si riparte dal death più efferrato e, guidati dalla voce di Yuri Bianchi, che sembra un “Barney” (aka Napalm Death) a rallentatore, si arriva alla terza traccia, un massacro ben studiato. Nella quarta traccia, dopo soli 33 secondi, ci si imbatte in una costruzione ritmica figlia dei migliori Voivod sperimentali, per poi ripartire gutturali più che mai. La preparazione tecnica è buona e in alcune parti ci si trova in bilico con il grind. Nella cover “Happy Tantrum” tratta dall'album “The Musical Dimension of Sleastak” del 1993 della band O.L.D., il nostro bravissimo e cadaverico Yuri, duetta con Alan Dubin, originale cantante della band “coverizzata”. Il brano che segue è standardizzato, una lobotomia continua e soffocante. “The Unspoken Son” mostra delle chitarre velocissime e cariche di tecnicismo, in puro stile Atheist o Massacre con un bell'assolo centrale lungo, “strano” e carico di atmosfera delirante, che sfocia in un rallentamento abissale, seguito da una ripresa molto riuscita. “Portrait of a Nihilist” chiude il disco e parte con una spinta non comune, la voce growl è sempre più padrona e tutto fila al meglio disseminando violenza qua e la. Quest'ultima traccia racchiude un po' tutto il sound degli Any Face con passaggi “particolari” e trasversali, una chitarra “cosmica” e stacchi dediti ad un certo progressive metal e un finale che lascia sfumare il tutto su di una ritmica che abbraccia il modo di interpretare il metal dei Flotsam and Jetsam. Alla fine ci troviamo di fronte ad un lavoro ben fatto e per palati fini, carico di buoni spunti e padroneggiato da un'ottima monotona voce “cavernicola” che fa la differenza... suonato molto bene e a tratti molto coraggioso, come negli stacchi del primo brano (il mio preferito!). Per Any Face si presenta un roseo futuro se continueranno a suonare e ad evolversi su questi territori. Se riuscite a immaginare l'esatta concentrazione di Atheist mescolata a Massacre e spruzzatine di Napalm (Death ovviamente) questo è un altro disco da non perdere! Bravi e coraggiosi! (Bob Stoner)

(Buil2Kill Records)
Voto: 80

Moloken - Rural - English

#FOR FANS OF: Post Metal, Sludge
We had left them just over a year ago, in the fall of 2010 with their brilliant first full length, "Our Astral Circle" and now finally the brothers Bäckström return, as always very well supported by Discouraged Records, with a new job. The sound does not blatantly changes compared to the previous album, and certainly is not bad if you were pleasantly impressed by that release. Their music, therefore, continues to travel in post-metal/sludge territories, however, in some darkest shades, less accessible, fuller of anger and certainly less full of easy melodies. "Rural" is an angry album. In its seven songs in its long fifty minutes, moods are alternating by winding between fury and irascible, occasionally leaving room for breakers in the limit of post-rock (the second half of "Ulv"). What amazes me most in the new work of Moloken, is a certain combination of the sounds that come from the strings of the guitar, sometimes really delusional or completely discordant (I am thinking of the psychotic ending of "Waltz of Despair" for example or the hypnotic beginning of the aforementioned "Ulv" pachydermic song - lasting 16 minutes - fierce yet obscure, that reminds of those wanderings of the school of Ved Buens Ende), which contribute confuse the listener a bit. The tribal and schizophrenic "Casus" serves as a bridge connection with «Blank Point " and I am gradually beginning to realize the good things contained in "Rural", a job to say the least controversial, certainly difficult to digest, but given its complexity, of important progress. The vocals of Niklas continue to be those in the limit of the caveman, so as it was outlined in the previous review, but it is of little importance because I measure the band in its ability to vary their own sound, and I guarantee to you that there is not one single minute of respite in which runs the risk of dozing off or lying down, although we have the impression that their sound can be trapped in doom like or even psychedelic sounds (and I think the suffocating and sick "Thin Line"); no fear though, because the quartet of Holmsund comes out even more fiercely and ready to crash your bones. I am shattered by their impetuousness, by their dark gray, almost the same while watching the sun setting fast on the horizon, leaving soon place for a dense fog which possesses you with the darkness of the night. Hostile, neurotic, glacial, fearful, are just some of the adjectives that come out of my mind after listening to this disfiguring "Rural", an album to have in your collection at any cost. Raving! (Francesco Scarci - Translation Sofia Lazani)

Algol - Complex Shapes

#PER CHI AMA: Swedish Death, Thrash, At the Gates, Dark Tranquillity
Melodic Death Metal tutto all’italiana quello degli Algol, e lo posso dire con fierezza stavolta: sono orgoglioso di essere nato nel Belpaese. Tralasciando gli ovvi paragoni-metafora riguardo al nome della band (Algol infatti oltre ad essere una stella è anche il nome di un personaggio di Soulcalibur), posso confermare la generale ermeticità del songwriting e la crescente complessità che si sviluppa durante il primo ascolto. Con un nomignolo così evocativo e un titolo estremamente ragionato, ho dovuto trovare dei momenti particolari per poter procedere all’ascolto di quest’opera senza tralasciare un secondo delle atmosfere presenti al suo interno. Facendo questo, ho solo guadagnato. Gli Algol presentano un sound tutto personale, molto caratteristico in ambito death e che sarà d’obbligo seguire nella sua evoluzione nelle prossime uscite. Alcuni passaggi di tempo e melodie vengono riprese più volte tra una canzone e l’altra, conferendo serietà e compattezza ad un genere che di questi tempi tende a imitare più che sperimentare. Degli omaggi a dei maestri del death, comunque, non si fanno mancare (credo di aver trovato alcuni stralci degli At The Gates e dei Dark Tranquillity degli albori). Non ho mai amato una recensione a pari passo con le singole tracce, preferisco citare quelle che più mi hanno influenzato e fatto riflettere musicalmente. Quindi scusate se non seguo in modo matematicamente freddo la scaletta di undici tracce. Adotto un sistema molto più emotivo. “Still in My Eyes, Burning” rappresenta forse l’unico esempio di una componente ‘sinfonica’ e gothic dell’intero album. Una voce femminile subentra improvvisa e una voce pulita domina i ritornelli. Tastiere di sottofondo risultano estremamente avvolgenti e le chitarre si lasciano coinvolgere in passaggi che sono una manna per le orecchie, decretando un puro melodic death come era da tanto che non si ascoltava. A canzoni più ‘lente’ (diciamo così) come “Gorgon” e “Empire of the Sands”, si contrappongono le rapide sfuriate influenzate apertamente da un thrash old style. “Subvert” si configura perno centrale di quest’ultima tipologia. Voci in growl e screaming duettano in un sottofondo di accecante violenza sonora, perfettamente accompagnata da una batteria che sa il fatto sua (ottima anche la produzione). E poi c’è lei, la title track. “Complex Shapes” racchiude bene o male tutti i diversi fattori che portano gli Algol ad essere quello che sono. Chitarre apertamente swedish-death style su veloci riff di alti e bassi (su questo punto di fondamentale importanza è “Hate Serenades”), grande attenzione all’aspetto tecnico (magnifiche ‘plettrate’) e melodia del ritornello coinvolgente. Necessita di più ascolti. È un lavoro decisamente complesso e ci sarebbe molto altro da dire. Questi padovani sono già all’apice. Hanno creato un album di ampie vedute in un death metal melodico con influssi progressive certamente non convenzionale. Superano i maestri del genere… Si, mi sono permesso di pensarlo a volte… (Damiano Benato)

(Punishment 18 Records)
Voto: 85
 

giovedì 10 maggio 2012

Generation of Vipers - Howl and Filth

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, The Atlas Moth, Planks, Unsane
Dopo tanto black metal, finalmente le mie membra trovano il tempo di lasciarsi cullare da un dannatissimo e fangoso sludge, quindi che c’è di meglio che trasferirsi negli States, in Tennessee per l’esattezza, prenderci un bel whisky e assaporare il gusto del vero sound americano? Amanti di Neurosis, Tombs e tutto ciò offre un post-qualcosa nella propria proposta, si facciano avanti e ascoltino questi misconosciuti Generation of Vipers. “Ritual”, “Silent Shroud” e via via dicendo, tutte e sei le lunghe song che compongono questo malsano lavoro, scavano nell’anima con i loro suoni abrasivi, carichi di emozioni, grondanti rabbia, esasperazione e paranoia. Sarà anche il fatto che nei GoV troviamo alle percussioni un membro di U.S. Christmas e A Storm of Light, potete ben comprendere quale oscura e asfissiante opera, ingombri con il suo claustrofobico incedere, il mio stereo. Sarà forse il sole bollente della città di Knoxville, ma il sudore che gocciola dalla mia madida fronte è dovuto anche alla lenta, nevrotica e lacerante proposta di questo trio del sud-est degli US. Le ritmiche, belle pesanti e costantemente corrosive, ma mai su di giri, ingarbugliano un bel po’ le nostre menti, assai ricettive. La voce di Joshua non è mai preponderante nei confronti degli altri strumenti, preferisce farsi percepire nel suo “vetriolico” ardore, lasciando il resto della scena, alla dannata musica. Non saremo di sicuro di fronte ai maestri incontrastati del genere, ma di sicuro i Generation of Vipers sanno il fatto loro, e non lasceranno delusi i fan di un genere, che sta vivendo il suo momento d’oro. E allora, tanto vale, cavalcarne l’onda… (Francesco Scarci)

(Redwitch Recordings/Translation Loss)
Voto: 75
 

Destrudo - Falx Cerebri

#PER CHI AMA: Techno Death, Thrash, Progressive, Cynic, Pestilence
La destrudo, rappresenta per la psicologia freudiana, l'energia dell'impulso distruttivo, l’essenza di Thanatos, la pulsione di morte, o in parole povere, l’istinto aggressivo, insito in ogni individuo, che spinge all’annientamento di se stessi. Non so se dietro al monicker della band capitolina, si celi tale definizione, tuttavia la “cerebrale” copertina mi lascia presupporre che questi siano i giusti riferimenti. Riferimenti che forse ci aiuteranno a definire meglio il progetto dell’ennesima band italica, che popola meritatamente le pagine del Pozzo. La proposta dell’act romano non è proprio immediata, anche se quel chitarrone un po’ grezzo, posto in apertura di “Matter in a Ghost World”, mi fa pensare di trovarmi fra le mani la consueta disagiata band delle periferie, dedita ad un gretto thrash metal. Niente di più sbagliato e superficiale, che dare giudizi su due piedi; già perché dopo 2 minuti le vocals di Lorenzo “Wakana” passano da un canonico growl ad un qualcosa di più cibernetico e ricercato di scuola Cynic, mentre la ritmica, ci lascia intendere che non sarà facile l’ascolto di questo disco, causa repentine variazioni nel pattern chitarristico. Abbandonati infatti i richiami thrash death dei primi minuti, la band sembra quasi mutare camaleonticamente nel corso del brano, cosi come pure il vocalist che trova anche modo di proporsi nella sua veste, un po’ più scarsa a dire il vero, pulita. Poco male, perché la musica seduce per le sue partiture progressive, che non fanno altro che incrementare il senso di disorientamento che trasuda questo cd. Proseguo nel mio ascolto, con “Concussion” e di sicuro quello che emerge immediatamente è quel suono maledetto di basso che pulsa nelle mie orecchie: Nevermore, Cynic, i Pestilence di “Spheres” convogliano tutti in questa traccia, che vede ancora una volta i nostri difettare nella sezione vocale pulita. Vado via veloce, perché al mio terzo ascolto, pregusto di riassaporare nuovamente quel meraviglioso assolo di sax posto che contraddistingue la title track, sublime. Un po’ (tanto) Pan.Thy.Monium, un po’ Love History, una bella dose di synth, e mi lascio bruciacchiare qualche neurone qua e la, prima della conclusiva “Lord of War”, che prosegue il discorso iniziato con questo “Falx Cerebri”. Peccato solo che continui a mal digerire la voce del povero Lorenzo, in versione clean, altrimenti la musica mai eccessivamente incazzata, ma costantemente ragionata e tenuta sotto controllo, per dominare il desiderio di annichilimento personale, è assai interessante soprattutto nella seconda parte dell’ultima traccia dove emerge una componente avanguardistica di scuola norvegese, prima di un riff che sembra estratto da “Walk this Way” e di un delirante finale destrutturato. Non c’è che dire, le qualità ci sono, la follia pure, ora serve un pizzico di fortuna! Destabilizzanti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75