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giovedì 31 marzo 2011

Dominance - Echoes of Human Decay



Della serie “A volte ritornano” hanno fatto la ricomparsa sulle scene, dopo ben 10 anni di silenzio, gli italiani Dominance. Era infatti il 1999 quando i nostri esordirono con “Anthems of Ancient Splendour”, platter di musica estrema(mente) elaborata che raccoglieva influenze provenienti dal gothic, black e death. Nel 2009 quel ricordo nulla esiste più: i Dominance di “Echoes of Human Decay” sono un’altra band, ben più estrema di quella che calcava le scene nello scorso decennio. Diciamo che l’influenza di base per il combo italico, deriva ora dal death brutale di stampo americano, per ciò che concerne ritmiche, vocals ed estremismi sonori. Violenza, brutalità, rabbia contraddistinguono la prima parte dei brani con chitarre monolitiche, vocals cavernose, blast beat a ripetizione e ciò, ahimè, rappresenta il limite del quintetto emiliano, in quanto tutto ciò è già stato scritto e proposto dai grandi act statunitensi, Morbid Angel (“Primordial” è quasi un plagio) e Malevolent Creation, su tutti. Ciò che più mi lascia sorpreso sono invece gli assoli: seppur assai brevi (ed è un vero peccato), sono freschi, melodici, originali, dinamici e l’alternarsi preciso tra le due asce non fa altro che accentuare questo aspetto positivo nella costituzione dei brani; peccato poi tutto acquisti quest’aura di sentito e stra-risentito. Le possibilità di far meglio e ritagliarsi uno spazio all’interno di una scena sempre più satura ci sono tutte, soprattutto se si è dei veterani come i nostri, che ormai sulle scene ci sono da un ventennio. Da risentire! (Francesco Scarci)

(Kolony Records)
Voto: 65

mercoledì 30 marzo 2011

Dewfall - V.I.T.R.I.O.L.


La copertina del cd, il titolo che richiama il debut dei redivivi blacksters statunitensi ABSU e i primi 30 secondi di questo disco, mi hanno fatto presagire di trovarmi tra le mani qualcosa di black epico, ma mai cosi tanto fu sbagliata la mia previsione. I Dewfall infatti propongono un corposo heavy metal, che ha, in alcune sue accelerazioni o nelle growling vocals, la sola componente death. Per il resto, “V.I.T.R.I.O.L.” (acronimo di Visita Interiora Terræ Rectificandoque Invenies Occultum Lapidem) è un calderone di sonorità che rischia di accontentare tutti o forse nessuno. Il lavoro parte con lo speed metal di “Free Entrance to Hell”, dove accanto ai vocalizzi estremi di Valerio Lore, si affiancano quelli melodici (stile primi Helloween) di Matteo Capasso; ecco forse sta proprio qui il problema della band: io, da buon death metallers, che accetta tranquillamente le clean vocals stile Soilwork o In Flames, ho mal sopportato quelle stridule voci (peraltro insopportabili in “Forever Ghost”) che richiamano decisamente il power, ah vade retro!! Quindi chi non tollera questo genere di vocalizzi, smetta subito di leggere la recensione. Gli altri proseguano pure, perché se avete amato alla follia “Keeper of the Seven Keys II” dei già citati Helloween, troverete pane per i vostri denti nelle successive tracce. La musica, muovendosi costantemente su binari speed/thrash, sfoggia eccellenti aperture progressive con delle melodiche rasoiate, passando dalla semiballad “Skeleton’s Rising” a mid-tempos thrasheggianti, nella vena dei mai dimenticati Anacrusis, da epiche ambientazioni a passaggi maideniani. Non so, tecnicamente i ragazzi ci sanno fare, ma c’è qualcosa che non riesco ad accettare nel loro sound e non mi permette di apprezzare appieno questo valido cd. Ci sono ottime idee, si respira un buon feeling, ottime le linee di chitarra, ma purtroppo continuo a detestare l’impostazione vocale di Matteo. Avrei preferito mantenere molto più gli screaming o il growling con qualche inserto pulito qua e là e invece la scelta optata dai quattro giovani secondo me, penalizza non poco, la fetta di ascoltatori che andranno ad ascoltare questo debut cd, perché credo che alla fine né i defenders né i deathster apprezzeranno “V.I.T.R.I.O.L.”, disco alla fine un po’ troppo ruffiano... Sono giovani e presto troveranno la loro strada. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

martedì 22 marzo 2011

Secrecy - Of Love and Sin


Siete in un momento in cui vi sentite contenti o comunque positivi? Avete voglia di ascoltare un po' di metal “leggero”, senza troppo impegno? Allora i Secrecy sono la soluzione che fa per voi. Questa band portoghese, formatasi nel lontano 2001, mescola sonorità rock al love metal tipico degli HIM, rendendo il lavoro di facile e piacevole ascolto. "Last Embrace", la opening track, presenta la voce della tastierista Lisa Amaral aggiunta a quella più greve di Miguel Ribeiro (non credo sia parente del buon Fernando, vocalist dei Moonspell, ma mi informerò), rendendo il tutto meno zuccheroso (dopotutto si parla di love metal, mica altro) e il ritmo ben radicato nella mente (sfido chiunque a non canticchiarla almeno una volta). Le tastiere sono ben presenti, come anche qualche assolo di chitarra: questo mi porta alla mente anche i nuovi Sirenia, ma più leggeri. I temi si incupiscono un po' con "The One that Death Deserves to Find": infatti qui passiamo a trattare la morte (amore e morte d'altro canto vanno a braccetto no?), ma sempre col pensiero fisso all'amata. Il brano si apre con una bel growling accompagnato dalle chitarre (e meno inserti di tastiera). La voce femminile di Lisa è meno accentuata, ma i suoi interventi sostengono egregiamente i toni oscuri di cui si tinge il brano. Con "Don't Leave Me Scarred" si torna ad un sound più rockeggiante e meno gotico, cosi come pure la voce di Ribeiro che torna a farsi pulita (assomigliando a quella di Villie Valo): tutto il brano sembra fatto apposta per accompagnare l'ascoltatore in un viaggio in auto (ammetto di aver pure accelerato durante il suo ritornello), per quanto sia canticchiabile. Nessuna traccia delle female vocals stavolta, ma qualche buon assolo di chitarra si. Con "Shadows Call" ci si muove sempre più in direzione degli HIM (con una somiglianza quasi imbarazzante), parlando ovviamente del fenomeno del momento: vampiri. Niente voci femminili, il cantato maschile si fa più basso ma perfettamente riconoscibile, tocchi di pianoforte per rendere il tutto adatto per il nuovo (o quasi) stile di vita giovanile: gli emo. "The Scarlet Dawn" riprende le medesime atmosfere della precedente senza però scadere nella ripetitività; vocals femminili, suoni campionati che si accompagnano bene alla voce roca. Ancora qualche altra song da canticchiare, qualche ritornello ruffiano e il giochino è fatto. Ultima menzione per "Angel Crimson Tears", a mio avviso progettata per un concerto in quanto sono certa darebbe il meglio di sé sul palco, mentre la folla composta per lo più da ragazzine urlanti inizierebbe a saltellare e strillare. Il ritmo è frenetico, le voci sono urlate, sarei curiosa di vedere quanti rimarrebbero fermi di fronte a questa canzone, senza nemmeno muovere un po' la testa. Solo alla fine dell'album; con "Since You've Gone Away" (ah l'amor perduto...) i nostri lusitani tirano fuori le unghie e dimostrano di poter fare qualcosa che rappresenti il metal vero e proprio! La batteria si fa potente, la ritmica d'accompagnamento e la voce più incazzata... questo brano mi piace proprio, non c'è che dire, cosi come la conclusiva "Another Dimension... with Angels and Demons" che riprendendo il sound della track precedente, presenta toni più mesti e angoscianti, con il ritmo più lento e pesante; persino la voce di Lisa è più triste, il che dà una forte sensazione di smarrimento. Album consigliato agli amanti di questo genere di sonorità, gli altri si tengano alla larga. (Samantha Pigozzo)

(Ethereal Soundworks)
Voto: 65

lunedì 21 marzo 2011

Winter of Life - Mother Madness


Devo ammettere di avere avuto grosse difficoltà a recensire questo “Mother Madness” poiché è assai difficile trovare le parole giuste per farvi capire cosa è racchiuso in questo piccolo gioiellino prodotto dal combo proveniente da Napoli. L’album si apre con i sussurri di "Mattutino", song dal forte sapore progressive, che ha il pregio di mettere subito in grande evidenza le enormi potenzialità di Elia Daniele alla voce, e in genere riesce a mettere in mostra fin da subito la qualità eccelsa della band campana; la song scivola via veloce per lasciare spazio a “Noumena”, che evidenzia le influenze del sestetto e quali influenze: cenni di Novembre nelle linee di chitarra confluiscono nel sound dei nostri, complice forse la registrazione presso i “The Outer Sound Studios” di Giuseppe Orlando; per quanto riguarda l’uso delle vocals invece, mi sono venuti in mente i da poco sciolti Oceans of Sadness. La title track entra in modo esplosivo nelle casse del mio stereo, per poi far posto a delicati tocchi di pianoforte e una ritmica suadente e melodica, mai ruffiana sia ben chiaro, e poi quella voce meravigliosa del buon Elia, capace di sfruttare la sua estesa gamma canora, per essere a suo modo, il migliore strumento dei Winter of Life: struggente, riflessiva, aggressiva quando richiesto, insomma completa ed eccellente. E la musica? Un progressive metal contraddistinto da qualche sfuriata estrema, ma anche capace di divagazioni in territori jazz come proprio nella title track (esperimento già fatto però dai già citati belgi Oceans of Sadness). Ma non solo, perché “witHer” si apre con un basso slappato, preso quasi in prestito da qualche band funky con il vocalist che per un attimo sembra fare il verso ai rapper; ma la musica non tarda ancora una volta a decollare in un crescendo d’emozioni, questa volta grazie al rincorrersi scintillante delle chitarre, immerse nel tepore di soffici ambientazioni e anche dalle guest vocals di Tiziana Palmieri. Quest’album mi ha conquistato e ad ogni suo ascolto (forse sarò già a quota 50 volte e non mi sono ancora stancato), scopro nuovi intriganti particolari che mi inducono ad ascoltarlo nuovamente. Il pregio dei Winter of Life risiede proprio nel proporre musica che nel corso dei pezzi (tutti di una notevole durata), cambia costantemente registro, alternando escursioni in territori vicini al death con ritmiche belle tirate, ad altri momenti in cui magari riemerge l’influenza forte dei Novembre o di altri act della scena progressive tipo Pain of Salvation. Il risultato è un susseguirsi di ottime songs che non tarderanno ad insinuarsi anche nelle vostre teste e farvi sussultare, farvi godere appieno delle idee eccezionali che popolano la mente di questi sei ragazzi. Che piacere avere ascoltato questo “Mother Madness”, che peccato averlo fatto soltanto da poco. Avanti cosi, ora aspetto la riconferma; consigliatissimi! (Francesco Scarci)

(Casket Music)
Voto: 85

domenica 20 marzo 2011

Septic Mind - The Beginning


Se pensate che recensire 3 tracce possa essere una passeggiata, beh non vi siete mai trovati a dover fronteggiare un lavoro come quello dei russi Septic Mind, dove il minutaggio medio si aggira malauguratamente sui 20 minuti, non proprio facili da digerire. Il lungo trittico si apre con la lugubre title track: 20 minuti in cui l’angoscia più profonda si impossessa da subito della nostra anima avvolgendola come una strisciante nebbia potrebbe ingoiare una città. Pesantezza è la parola d’ordine del combo di Tver, che con questo “The Beginning” giunge al secondo lavoro dopo il debutto autoprodotto del 2008, ma non solo la pesantezza la fa da padrone qui perché l’etichette che gli si potrebbero appiccicare sono tra le più disparate se rimaniamo in territori di negatività assoluta: disperazione, tristezza, sconforto totale e autodistruzione sono solo alcuni degli aggettivi affibbiabili a questa affascinante release. Potrei andare avanti aggiungendo claustrofobia, rassegnazione e disorientamento chiudendo qui la mia recensione, perché tale è lo sgomento fomentato dai suoni malsani provenienti dal duo composto da Michael e Alexander. E la Solitude Production, che con queste sonorità ci va giustamente a nozze, ha pensato bene di assoldare l’ennesima band di funeral doom nel suo rooster e rilasciare un album che è destinato a lasciare una breccia solo nel cuore di una ristrettissima ed elitaria schiera di metal fan. Eh si perché le sonorità cosi pachidermiche, ridondanti e ipnotiche contenute in queste tre tracce, sono veramente destinate a pochi intimi. Tuttavia il giudizio per l’act russo, che trae sicuramente ispirazione dal sound degli inglesi Esoteric, è più che positivo. Certo “The Beginning” non è un cd che si può ascoltare ovunque, in macchina è sicuramente sconsigliato a meno che non abbiate tendenze suicide, ma sicuramente se aveste voglia di rilassarvi su un letto con un bel paio di cuffie nelle orecchie, credo che la corposità dei suoni ivi contenuti, possa eccitare non poco le vostre sinapsi cerebrali. Le atmosfere create dai lunghi loop chitarristici del buon Sasha di sicuro turberanno i vostri sonni fin qui tranquilli; la seconda “The Misleading” vi ipnotizzerà con i suoi irrequieti inserti noise (che costituiscono i primi 6 minuti della traccia!!), anche se poi i rimanenti 12 minuti malinconici (per non dire strappa lacrime) non siano quanto più semplice da ascoltare. Del growling profondo di Michael qui troverete un’esigua presenza, quasi a donare un tocco di “sacralità” alla canzone. Capisco perfettamente che sacralità e growling non vadano proprio a braccetto però vi garantisco che in questo contesto la cosa risulta calzante. Con i conclusivi 22 minuti di “The Ones Who Left This World” (Allegria!!!) i lenti cingoli del panzer Septic Mind sono pronti a darci il colpo di grazia. La song è ancora più cupa delle precedenti e dire che pensavo di aver toccato il fondo dell’abisso fin da subito, ma qui i nostri superano se stessi e con suoni che vanno ben oltre alla definizione di funeral, ci ammorbano fino a portarci alla disperazione eterna. Buon lavoro per il sottoscritto, peccato solo sia di difficile fruibilità per tutti, sicuramente un ascolto lo merita per la curiosità di capire di capire se esistono davvero dei limiti nella musica o se, giunti sul fondo del precipizio, dobbiamo essere pronti a scavare… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

giovedì 17 marzo 2011

The Battalion - Head Up High


“The Battalion”... li scopro solo con questo loro secondo album: mi pento di non averli incontrati prima. Faccio il bravo, recupero la loro precedente fatica “The Stronghold of Men”, me lo sparo e quindi ripasso al loro ultimo “figlio”. Lo reputo all’altezza, se non migliore del precedente. Un po’ di biografia, giusto per capire un po’ meglio la mia sensazione al primo ascolto. La band si forma a Bergen, nell'estate del 2006, da musicisti di esperienza provenienti da alcuni dei gruppi leggendari della Norvegia: band come Old Funeral, Grimfist, Taake, Borknagar e St. Satan. Ora, se non li avete mai sentiti, secondo me, sarà il caso di informarsi. Chi ne avesse già dimestichezza, probabilmente, si starà facendo, come mi ero fatto io, una certa idea del disco: avete pensato ad un album black o death metal? Anch’io! Ci siamo sbagliati. Già, perché questo ensemble spariglia le carte e ci propone qualcosa di diverso. Un prodotto thrash metal, con fortissime influenze dei Motörhead; da qui la mia sorpresa. Stud Bronson (chitarra e voce), Lust Kilman (chitarra), Colt Kane (basso) e Morden (batteria) ci sbattono subito in faccia “Mind the Step”, una canzone thrash tiratissima. Ecco quello che sentirete per tutto il resto del platter. Undici tracce potenti, veloci, suonate molto bene, spietate nel loro incedere, nel loro ritmo e purtroppo maledettamente uguali tra di loro. Ma è un ciddì che non lascia per nulla indifferenti: trascinante, che nella rabbia mescolata alla tecnica, ha il suo punto di forza. Nulla da dire sulla bravura del quartetto. Chitarre, batteria, basso: tutto notevolmente ben fatto. Troverete anche assoli di chitarra niente male (né troppo lunghi, né troppo corti) e batteria a mille, che mi ha deliziato non poco. Mi lascia tuttavia un po’ perplesso la voce del cantante, troppo monocorde sia come stile sia nella varietà di soluzioni. Ottima infine la produzione: tutto si sente come si dovrebbe. Vi consiglio di soffermarvi maggiormente su “When Death Becomes Dangerous” e su “Bring Out Your Dead”, secondo me le migliori, per via di un certo loro carattere più aggressivo che non si ritrova nelle altre. Dicevo che ritengo le song molto simili ed è questa, alle mie orecchie, la pecca più grave. Però, se in altri casi è fonte di noia, in questo non lo è più di tanto. Le track sono brevi e la loro forte carica fa volare via liscio il disco. Bravi. Sarei molto curioso di vederli dal vivo, ma per ora preparo la crema contro gli strappi al collo, mi risparo “Head Up High” e mi lancio nell’headbanger più sfrenato! (Alberto Merlotti)

(Dark Essence Records)
Voto:80

Disease Illusion - Reality Behind the Illusions of Life


Si, si, si… sono ancora qui a scuotere il capo, questa è la musica che volevo ascoltare in questa umida serata d’inverno: fresca, melodica, incazzata, malinconica. I Disease Illusion sono una band giovanissima, nata nel 2006 dalle ceneri dei The Reapers, combo bolognese, che ha virato il proprio sound dall’heavy thrash degli esordi ad un death melodico di stampo scandinavo. La tiepida melodia di un pianoforte apre "Reality Behind the Illusions of Life", poi fortunatamente ci pensa “Predator” a far decollare il tutto: chitarre di palese ispirazione Children of Bodom ci aggrediscono con la loro rabbia, ammantata tuttavia dalla stessa vena malinconica che ne caratterizzava l’intro. Si, si e ancora si, mi esalta sentire musica scritta con il cuore o comunque da chi ha la passione per questi suoni dentro alle vene. Melodie coinvolgenti, ispirati fraseggi di chitarra, qualche cosa rubacchiata qua e là ai vari Dark Tranquillity ed At the Gates e il risultato (buono) è garantito. I nostri continuano a macinare riff corposi, alternandoli a rallentamenti atmosferici, ambientazioni gotiche anche con le successive “From Ashes to Dust” (la migliore song del cd, con quei suoi stupendi giri di chitarra, gli azzeccatissimi assoli e le clean vocals di Fabio Ferrari) e “The Opposer”, più swedish death orientata (Soilwork docet). Buona la prova di Fabio alla voce anche nella sua componente growl/scream, ma in generale è apprezzabile la performance tecnica dei cinque ragazzi (come sempre un plauso alla batteria che non lascia un attimo di tregua). Il malinconico arpeggio di “Beyond the Flaming Walls of Universe” funge da ideale ponte di congiunzione con la seconda parte del cd, più tirata e aggressiva e meno pompata da pezzi ipermelodici. “Blazing Eclipse” spacca che è un piacere , cosi come la successiva “Reborn from Pain” che vede ancora Fabio alle prese con vocalizzi puliti. Chiude il cd la versione orchestrale di “From Ashes to Dust”, più pomposa negli arrangiamenti, ma che comunque conferma la bontà di una band che se, coadiuvata da una produzione decente e da un’ottima promozione, non tarderà ad esplodere nella scena metal nazionale. Complimenti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Helllight - …And then, the Light of Consciousness Became Hell…


Se fino ad oggi avete sempre associato il Brasile al gioco del calcio, belle donne, spiagge assolate o nel mondo della musica ai Sepultura o ai Sarcofago, beh da oggi, sappiate che le tenebre degli Hellligth caleranno sulla vostra testa, oscurando il sole nel cielo. Da San Paolo ecco giungere nuvole cariche di pioggia che diffonderanno la pestilenza infernale voluta da questo cupo duo. Beh se questa mia breve introduzione non vi è sembrata abbastanza chiara, stiamo parlando di un combo, giunto già al traguardo del terzo lavoro, dedito ad un funeral doom che lascia ben poco spazio a squarci di luce. E lo si capisce immediatamente con il titolo della opening track, “The Light that Brought Darkness”, della serie “Lasciate ogni speranza voi che entrate” e a ragione perché si viene immediatamente avvolti da un senso di assenza totale di ossigeno, quasi a perdere i sensi, storditi da cotanta desolazione. Sapete che cos’è la cosa meravigliosa di tutto questo fiume di tristezza che ci travolge fin da subito? Che è a dir poco incantevole, sbalorditivo per intensità, stupefacente per il suo essere cosi inatteso e imprevedibile. La russa Solitude Productions questa volta ha pescato bene dall’altra parte del mondo con una band dalla classe cristallina che conquisterà dapprima i fanatici di un genere, il funeral doom, e poi potrà a mio avviso aprire le menti di chi è cosi prevenuto nei confronti di una tipologia di sound che, all’opposta di quanto si possa credere, è in grado di regalare esaltanti momenti di musica e gli Helllight ne sono la palese dimostrazione, con un album che per quanto possa sembrare inavvicinabile, (se pensiamo ad esempio solo alle lunghissime durate dei pezzi sempre attestati sopra i 12 minuti), riesce a sorprenderci ad ogni passo. Dopo l’eccellente traccia posta in apertura, capace di regalarci con gli ultimi 5 minuti attimi di solennità profonda, con la seconda “Downfall of the Rain” ci immergiamo in sonorità grevi che trovano il loro maggior slancio nell’inserto pianistico posto a metà pezzo. Pesante e opprimente, il duo carioca lavora ai nostri fianchi con un suono al limite della legalità, fatto di chitarre possenti e ultra slow a verniciare alte montagne innevate, riff sorretti poi da un encomiabile lavoro ai synth di Fabio De Paula (sembra il nome di un giocatore di calcio del Chievo) e da un growling vigoroso che talvolta ci regala attimi di pace con un cantato pulito che mi ha rievocato il buon Alan Nemtheanga, nella sua apparizione nei nostrani Void of Silence. Menzione ulteriore ci tengo a farla per alcuni squarci chitarristici di notevole spessore e di scuola classica, che palesano anche una certa preparazione tecnica dell’act sudamericano. Citazione finale per “Children of Doom”, la mia song preferita, che probabilmente mostra il lato più “etereo” (passatemi il termine) dei nostri, ma che comunque sancisce la mia adorazione per una band di cui non ne conoscevo l’esistenze fino a ieri. Peccato infine per una pessima copertina che con la musica dei nostri ha ben poco da spartire. Comunque sublimi! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80

Nicht - PART 1 Catalepsy Sinks


Da Parigi ecco arrivare sulla mia scrivania un mcd alquanto interessante, che fin dalla prima traccia “Out of Reach” (a parte l’intro), mi ha scaraventato indietro di quasi quindici anni, quando uscì il sorprendente debutto dei tedeschi Evereve. Certo non siamo ai livelli disumani di quell’album, ma il piglio fantasioso della band transalpina, mi ha da subito conquistato. Il sound proposto dal trio guidato da Iggy Sharpe alle voci, ci presenta un death gothic intriso da oscure tinte darkeggianti, sulla scia dei paladini norvegesi Tristania: il riffing pur risultando ancora un po’ impreciso, si rivelerà alla fine assai piacevole, buona la prova di Iggy alla voce, che denota una grande ecletticità e disinvoltura nel passare da un growling, sempre estremamente chiaro a interessanti cleaning vocals, un po’ meno le female vocals di Sombr I Yahn, che denotano invece una scarsa personalità. Nella successiva “Last Breath”, il livello qualitativo dei nostri subisce una forte impennata: intro affidata ad una chitarra acustica, linee ritmiche assai melodiche ma mai marcatamente ruffiane, le vocals che viaggiano su invisibili binari di cleaning e growling, con quest’ultima che finisce per prendere sempre brillantemente il sopravvento; bridge centrale, in cui Iggy sembra una versione poco più aggressiva di Bon Jovi (!?!), con tonnellate di emozioni incanalate nel flusso vibrante di chitarre malinconiche, sofferenti e prive di speranza. E proprio alla ricerca di speranza si procede con la quarta “Hope”, aperta da sussurri disperati ed eteree vocals femminili fino allo scrosciante growling di Iggy e all’impetuoso attacco ritmico (al limite del black), che rendono questa la mia traccia preferita di questo scoppiettante debutto, capace ancora di rendersi portatrice di soffuse luci autunnali anche nei successivi brani. I Nicht non saranno dei fenomeni a livello tecnico, tuttavia il loro gusto per ambientazioni decadenti, atmosfere cariche di tensione (ascoltate l’intermezzo “Room 19” per avere un’idea) e song ricche di un suggestivo groove, fanno di questo EP un buon punto di partenza per una band che esiste solo dal 2009. In bocca al lupo quindi, non vedo l’ora di scoprire il vostro full lenght! (Francesco Scarci)

(Lugga Music)
Voto: 75

Wraithmaze - Adagio in Self-Destruction


Le informazioni che ho a disposizione per questa band finlandese sono veramente scarse, a partire da una copertina quasi indecifrabile a causa della sua scurezza; tutto ciò che è nelle mie mani è racchiuso nel booklet (scarno) del cd, che a parte i testi, ci informa che abbiamo a che fare con un terzetto formato da Jarkko Rintee alle vocals, Matti Auerkallio alla batteria e Janne Kielinen a synths e chitarra. Allora partiamo subito con l'analisi della musica dei nostri che fin dall'iniziale "Anxiety", mette in luce un sound capace di combinare doom a suoni che demarcano tratti orrorifici, il che cattura immediatamente la mia attenzione: riffone ultra pesante in apertura di disco con voci demoniache in sottofondo e una sinistra tastiera (a dominare tutto il brano) che sembra presa in prestito dalle colonne sonore dei film di Dario Argento e poi tutto ad un tratto uno squarcio nel cielo e le ritmiche che partono nel loro inquietante e assai melodico incedere. Riffs di scuola scandinava infatti pestano che è un piacere e il growling riposseduto di Jarkko a sprigionare fiumi di paura. Con "Contradiction" e il suo possente alone di mistero, mi sembra di cogliere nel sound dei nostri, influenze dei connazionali Gloomy Grim: ritmiche mid-tempos, sintetizzatori che creano tenebrose ambientazioni horror, da brivido l’effetto finale se ascoltato nel buio di una stanza; eccellente anche il chorus “Walking Contradiction” che si imprime nella testa e non lo si riesce più a rimuovere alimentando la nostra sete di adrenalina. Si prosegue sulla stessa linea anche con la pomposa “Burn Liver Burn”, song che continua a mettere in luce le buone qualità del combo finnico che pur non andando a cercare chissà quali raffinati suoni, ha il merito di produrre brani accattivanti, combinando costantemente ritmiche black assai ariose e sinfoniche intervallate con intermezzi ambient (vedi la title-track). “In the Depts of Oblivion” le vocals, in versione più screaming, urlano su un tappeto black sinfonico di reminiscenza primi Dimmu Borgir, che va via salendo di intensità nel corso del brano fino all’epilogo tastieristico. “Equilibrance”, sesta traccia di questo intelligente lavoro, è una suite lunga quasi dodici minuti, che ancora una volta apre con tetre melodie per poi lanciarsi in un mid-tempo che tocca il suo apice in un bridge posto a metà brano, con melodie colme di malinconia che decisamente mi hanno riportato ai primi lavori di My Dying Bride e Anathema, quindi senza alcun dubbio positivo. La conclusiva”Observations of Cremation” è una song che funge da outro ad una release senz’altro positiva che mi ha permesso oggi di scoprire una nuova (l’ennesima) realtà proveniente da una nazione unica, la Finlandia! Benvenuti Wraithmaze! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

mercoledì 16 marzo 2011

Helheim - Asgards Fall


Che bella sorpresa! Voi non avete idea di che cosa abbia provato dopo aver infilato questo mcd di 6 pezzi nel mio impianto stereo, un intelligente mix tra viking e black metal. Lasciate perdere i precedenti vuoti lavori della band norvegese, finalmente H'grimnir e soci (qui aiutato anche da Hoest, vocalist dei Taake) hanno colto nel segno, facendo un bel passo in avanti rispetto al precedente album “Kaoskult”. Fin dall’iniziale “Asgards Fall I”, il quartetto di Bergen ci propone il proprio personalissimo ed evocativo sound, fatto di sfuriate black da contraltare a passaggi folk in cui fanno la comparsa tipici strumenti della cultura nordica, decisamente suggestivi e più volte usati in passato anche da Quorthon, nella versione più epica dei suoi Bathory. La seconda traccia è un breve intermezzo che ci introduce ad “Asgards Fall II”, mid-tempo di ben 12 minuti che ci consegna degli Helheim rinnovati (e a questo punto non vedo l’ora di ascoltare anche l’imminente full lenght): l’epicità si fa ancora più forte ed echi di “Hammerheart” dei già citati Bathory si mischiano al sound degli esordi degli Einherjer, miscelando il tutto con gli Enslaved più folkish del periodo “Below the Lights”. Mi sembra quasi di essere stato catapultato nel Valhalla, con gli Helheim che narrano le gesta incredibili dei guerrieri descritti dalla mitologia norvegese, proponendo il tutto con suoni estremamente melodici (bestemmia!!!) ma evocativi, esaltanti e che si imprimono facilmente nelle nostre teste con dei motivetti orecchiabili (ah seconda bestemmia!!!); ma dopo tutto che male c’è, cerchiamo di ampliare un po’ di più i nostri confini mentali e goderci quanto di buono il panorama estremo ha da proporci. Tuoni minacciosi chiudono il brano e la trilogia iniziale e ci aprono le porte alla seconda parte del cd, introdotta dallo scacciapensieri di “Helheim VII”. E via si riparte con il black di “Dualitet Og Ulver”, cavalcata che ricorda il riffing glaciale ma efficace dei mai troppo compianti Windir fino a chiudere questa sorprendente release con “Jernskogen”, rifacimento (abbastanza inutile) di una song già proposta nell’album “Blod & Ild”, vero e proprio capolavoro della band scandinava. Se il buon giorno si vede dal mattino, le mie mani si stanno già sfregando in attesa di ascoltare “Heiðenðomr ok Motgangr”, che probabilmente potrà rappresentare il vero e proprio trampolino di lancio per una band che non è mai stata troppo presa in considerazione nel panorama black internazionale. Le buone premesse ci sono tutte, ora vogliamo i fatti! (Francesco Scarci)

(Karisma Records/Dark Essence)
Voto: 80

martedì 15 marzo 2011

Raventale - After


Come back discografico per Mr Astaroth, leader della one man band ucraina Raventale, che a poco più di un anno e mezzo dal precedente “Mortal Aspirations”, torna col suo black doom atmosferico. Se tanto avevo apprezzato la precedente release, con “After” mi sembra che il talentuoso polistrumentista abbia fatto un leggero passo indietro, proponendo sonorità molto più derivative che in passato. L’album si apre con “Gone”, dieci minuti di un doom soffocante, cadenzato e desolante, in cui la voce del nostro eroe si conferma sofferente e disperata, senza tuttavia mai travalicare in uno screaming blackish. Il sound continua ad avere come punti di riferimento i grandi maestri del genere (quelli degli esordi però), Anathema e My Dying Bride, mostrando ritmiche permeate di un pathos e di una drammaticità, oramai vero marchio di fabbrica per l’artista di Kiev. Passaggi ambient si accavallano a frangenti acustici, in cui le sole emozioni ad emergere non possono che essere quelle di un’autunnale malinconia. Finalmente, il cd inizia a prender quota e posso riconoscere le qualità dei Raventale, che nella breve (per i loro consueti standard) title track torna a mostrare anche quella cattiveria palesata nei precedenti lavori, pur mantenendo comunque quell’alone mistico di sempre. Passano i minuti ed è il turno della strumentale “Youth”, altri 5 minuti di gelidi paesaggi tipici della steppa, in cui ancora una volta, si incuneano ritmiche che richiamano alla memoria gli Anathema di “The Silent Enigma”. Ben venga quindi in questo caso l’essere derivativi, anche se gli originali rimangono irraggiungibili, anche perché il limite del buon Astaroth, è quello di essere talvolta un po’ troppo ripetitivo nei suoi giri di chitarra. Siamo quasi alla conclusione del cd ed è il turno di “Flames”, song più orientata verso il black nordico piuttosto che capace di continuare a percorrere la strada del funeral doom ascoltato fino ad ora: un po’ Immortal (quelli più epici), un po’ Burzum (quello più melodico) e un po’ Dimmu Borgir (quelli meno sperimentali), i Raventale spingono il loro sound verso la Norvegia. C’è da dire però che questa traccia non è altro che una ri-registrazione di “Shredding the Skies by Fire”, brano presente nel debutto “Means on a Crystal Field”. Quando pensavo che ormai il cd si fosse concluso dopo la quarta traccia, fa capolino una bonus track di 7 minuti, che alla fine risulterà anche essere la mia traccia preferita del disco, sicuramente la più varia, anche se i fantasmi di Burzum e Satyricon emergono ancora una volta, in una song che fa del minimalismo il suo credo. D’altro canto lo dicevo in apertura di recensione, questo “After” è decisamente l’album più derivativo del nostro amico Astaroth, tuttavia potrei continuare con un bel “chi se ne frega”, se dopo tutto la musica che salta fuori dalle tracce di questo cd, si lascia ascoltare piacevolmente continuando a trasmetterci oscure gelide emozioni; vorrà dire che passeremo sopra anche questo peccato veniale… (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Kraaker - Musikk Fra Vettenes Dom


Quando leggo nei flyer informativi Norvegia ed experimental black, non so perché ma un fremito mi percorre la schiena, tanta è la curiosità e il desiderio irrefrenabile di ascoltare qualcosa di davvero sorprendente in questa noiosa estate. Ahimè già dalle prime note di questa release, la mia eccitazione viene subito estinta dalla dabbenaggine della proposta musicale dei nostri. Non si può prendere per i fondelli i fans (tanto meno chi scrive le recensioni), spacciando qualcosa per ciò che realmente non è: eh si perché il nostro duo norvegese non fa altro che proporre un concentrato di black old school, con qualche piccola variazione al tema, ma alla fine gli ingredienti della scuola scandinava ci sono tutti: riffing mitragliato zanzaroso, vocals belluine, suoni glaciali e qualche rallentamento presagio della comparsa di qualcosa di realmente sperimentale che possa comparire da un momento all’altro, ma che ben presto, ho inteso, non arriverà mai. I nostri musicisti erranti, al pari di corvi oscuri (questa l’autocitazione di questi strani individui), non producono assolutamente nulla di interessante, nuovo o tanto meno sperimentale, ma solo un black thrash inconcludente che rende quest’estate tra le più noiosi di sempre… (Francesco Scarci)

(Final Earthbeat Prod)
Voto: 55

Folge Dem Wind - Inhale the Sacred Poison


Ormai bisogna ammetterlo, la Francia è diventata una fucina di talentuose band black metal; inutile negare l’evidenza, ma Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Alcest, Pensees Nocturne, Les Discrets (e mille altre) arrivano tutte dalla nazione dei tanto odiati cugini e anche oggi mi devo arrendere davanti alla palese superiorità di questi Folge Dem Wind e andarli ad annoverare tra le più talentuose band d’oltralpe. Fatta questa larga premessa, posso anche dire che seguo il quintetto proveniente dalla sconosciuta Montgeron, fin dal loro Ep d’esordio, “Hail the Pagan Age”, e già d’allora la band mi aveva colpito per il sound oscuro e malefico, che si delineò più marcatamente nella prima ufficiale release, ma che a mio avviso, solo con questo notevole “Inhale the Sacred Poison” sfiora apici di genialità. E lo fa fin da subito con la malatissima title track che a cavallo tra sonorità black, avantgarde e suggestioni psicotiche, ci getta in un turbine di malsana follia con i suoi 7 minuti e passa. Con la successiva “…Of Blood and Ether”, la musica dei nostri, pur palesando le nerissime radici black, ci porta a spasso attraverso territori difficilmente esplorati da gruppi black. Certo non siamo di fronte alla schizoide proposta dei norvegesi Fleurety o alla dirompente classe dei già citati Deathspell Omega, ma sinceramente certe scelte armoniche, alcune dissonanze ritmiche, la costante presenza di melmose atmosfere (ascoltatevi “Behind the Grey Veil”) e la ricerca di frammenti intimistici, non fanno che confermare le enormi potenzialità dei nostri. La terza traccia l’abbiamo già menzionata ma vorrei citarvi il meraviglioso prologo che con la musica metal ha da sicuro ben poco da spartire (chi ha citato Jazz?) e proprio in questo sta il punto vincente dei Folge Dem Wind: attaccarci selvaggiamente con i loro spietatissimi riffs di chiara matrice black nordica e poi nell’incedere aggrovigliante delle song, saperci condurre in oscuri meandri della loro malatissima mente, complici anche le vocals strazianti di Kilvaras. Voglio farvi una ulteriore premessa: “Inhale the Sacred Poison” non è un lavoro di immediata assimilazione, servono decisamente diversi ascolti per poterlo assimilare e poterlo certamente apprezzare, ma quando vi sarà entrato nelle orecchie, sarà veramente difficile farne a meno, perché ha quel quid, quella caratteristica che solo le grandi band capaci di osare l’inosabile, in grado di creare qualcosa di duraturo e sono stra convinto che i nostri abbiano queste caratteristiche. Eccezionale “…Of Reptilian Fires”, song che in sé, racchiude tutta la raffinata ricercatezza di brutalità e sperimentazione, nonché della ineffabile semplicità nel gestire lunghi pezzi con estrema disinvoltura. Il disco gira che è un piacere tra stralunate linee di chitarra, urla disumane, inserti post metal, frammenti impazziti di jazz, facendo la gioia di chi come me, è alla costante e frenetica ricerca di sonorità fuori dal comune e quelle proposte dai Folge Dem Wind, di sicuro racchiudono qualcosa di magico, esoterico, onirico e profondamente malvagio. Seducenti! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 75

lunedì 14 marzo 2011

Hierophant - Hierophant


Periodo florido questo per la scena italiana: dopo il post hardcore degli Amia Venera Landscape, il post metal dei A Cold Dead Body, il cyber metal degli Aneurysm o il death grooveggiante dei Mothercore, ecco approdare sulla scena un'altra interessante realtà, quella dei temibili Hierophant. L'album omonimo della band di Ravenna è un concentrato corrosivo di musica brutale che cammina su binari paralleli, (e che sia ben chiaro, mai si incontreranno), di black metal e hardcore, quest'ultimo tra l'altro, di quello più intransigente e selvaggio. Le nove feroci saette qui contenute, creano una miscela sonora corrosiva, soffocante e insalubre, che difficilmente potrà dare ossigeno ai vostri polmoni: 35 minuti al termine dei quali vi sembrerà di impazzire, schiacciati dall'insanità di cui è pregno questo cd. Già partendo dalla prima traccia, è possibile scorgere che nel DNA dei nostri è racchiuso qualcosa di malato, angosciante e psicotico, che ben presto prenderà il sopravvento. È lento ma assai minaccioso il suo incedere, pronto per esplodere nella seconda "I Am I, You, Nobody", tre minuti di musica lacerante e opprimente che propone malefici suoni black sorretti da strazianti urla, tipiche del movimento hardcore old school in pieno stile Integrity. E proprio il vocalist Dwid Van Hellion della band di Cleveland, compare in veste di ospite nella terza rasoiata, "As Kalki", che inizia all'arma bianca, all'insegna di un crust punk oltranzista per poi virare verso sonorità più ragionate. Lo stesso dicasi per la successiva "Mother Tiamat", song dall'aura decisamente sinistra che, senza mai pestare particolarmente sull'acceleratore, ha il pregio di captare la nostra attenzione su suoni che potremo immaginare come un inconcepibile mix tra Isis ed Enslaved. Non so, forse sto scrivendo cazzate, ma vi garantisco che non è affatto semplice caratterizzare il sound degli Hierophant, per quanto potrebbe essere facile e diretto fin dal primo ascolto. Ma è questo in realtà quello che mi frega e disorienta, perché ad un ascolto molto superficiale, l'idea che potremo farci di questo sorprendente ensemble, sarebbe totalmente sbagliata e finirei per etichettarlo come un classico hardcore, ma sta qui l’errore e la necessità di approfondire meglio l’ascolto di questa release e scavare a fondo nella psiche di questi ragazzi, sicuramente innamorati delle sonorità ancestrali punk/hardcore, ma di sicuro anche fortemente influenzati dalle devastanti e violente sonorità black metal di Darkthrone, Mayhem di primi anni ’90, in un inedito viaggio all’interno del diabolico mondo della musica estrema. Plauso per la finale “Hermetic Sermon Pt.3”, song che mostra l’amore viscerale dei nostri per Neurosis e compagnia. Vetriolo allo stato puro, ferali! (Francesco Scarci)

(Demons Runamok Entertainment)
Voto: 75

domenica 13 marzo 2011

Sonic Reign - Raw Dark Pure


Vengono dalla Germania, sono un duo e suonano un black metal dalle fosche tinte raw-depressive. I Sonic Reign esordiscono sulla lunga distanza, con un lavoro di difficile impatto, poiché il sound proposto dai nostri, richiama quel suono “moderno” degli ultimi Satyricon, miscelato alla ruvidezza dei Darkthrone di “The Cult is Alive”. Chitarre graffianti, ritmiche sincopate e vocalizzi malefici non possono che rievocare anche “Volcano” di Satyr e compagni. Rari fraseggi melodici, caliginose atmosfere autunnali, parti acustiche e schegge black old school, rendono “Raw Dark Pure” un prodotto caldamente consigliato a chi ama questo genere di sonorità, così glaciali e avulse ad ogni tipo d’influenza avanguardistica, in stile Arcturus. Il debut della band teutonica però non fa certo gridare al miracolo, perchè dischi del genere ne sono ormai usciti a tonnellate negli ultimi anni. Tuttavia, la band cerca di ritagliarsi un proprio definito sound, grazie ad un doppio uso delle vocals, screaming ed effettate, ma anche grazie a qualche soluzione assai rara nel black, gli assoli. La cosa che più mi stupisce è poi la scelta della casa discografica, la Metal Blade, che negli ultimi tempi aveva esclusivamente puntato, su band metalcore. Gelida la cover del cd in pieno Darkthrone style; con un po’ di lavoro in più, i Sonic Reign potrebbero essere la sorpresa del futuro... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Nine - It’s Your Funeral


Anche la Spinefarm ci si mette col produrre band di questo tipo? Avevo apprezzato l’etichetta finlandese per la sua coerenza di fondo nel produrre essenzialmente band provenienti dalla Finlandia e che suonassero black, death o power. Ora, con gli svedesi Nine, si passa addirittura ad una band che suona hardcore dalle influenze punk. Se dovessi citare di primo acchito una band di riferimento, penserei agli Entombed di “Uprising”, ma poi il lavoro evolve in modo strano: il cd comunque parte forte, aggressivo, con le ruvide vocals di Johan Lindqvist a dominare la scena. La terza traccia è già più tranquilla, con una piacevole melodia di chitarra, che ricama in sottofondo, inusuali giri per tale genere. Un peccato che la produzione penalizzi il suono dei vari strumenti, per porre in evidenza, a me pare, la sola voce di Johan. Le successive songs perdono un po’ della cattiveria iniziale e il cd si avvia stancamente verso una conclusione, forse troppo affrettata, in cui la band di Linkoping, sembra suonare in pieno stile Foo Fighters, ma con vocals al vetriolo. Decisione opinabile la loro, che tuttavia rende difficile anche per il sottoscritto, riuscire a dare una valutazione del tutto chiara, del disco. Mi verrebbe da definire il sound dei nostri come “post grungecore”, voi dategli un ascolto, magari potrà anche piacervi... (Francesco Scarci)

(Spinefarm)
Voto: 55

Vomitory - Terrorize Brutalize Sodomize


Ahia, quando ho letto sul pacchetto Vomitory, ho temuto il peggio per le mie orecchie già malandate di questo periodo. Torna la storica band svedese (in giro ormai dal 1989) con il sesto album, un attacco al fulmicotone costituito dal classico violento sound death a metà strada tra il brutal americano e il feroce death scandinavo. Dieci songs belle compatte, veloci e indiavolate, che costruiscono tonnellate di riffs, lanciate a mille contro l’ascoltatore. Gli ingredienti utilizzati dai Vomitory poi, sono sempre gli stessi: ritmiche efferate, growling catacombali, sfuriate al limite del grind, ma anche rallentamenti sconfinanti nel thrash. Rispetto al precedente “Primal Massacre”, le differenze sono assai poco rilevanti: forse in questo terrificante “Terrorize...”, i pezzi sono più brutali e diretti, contraddistinti comunque, sempre da un’eccellente produzione, pulita e potente, avvenuta presso i Leon Music Studios. Difficile identificare un brano piuttosto che un altro, perchè tutte le dieci tracks sono delle saette in grado di trafiggere il nostro costato. Le influenze dei vari Dismember e dei primi Entombed, nonché delle extreme gore bands americane, sono sempre ben identificabili nel background musicale dei nostri. 17 anni sono passati dal loro esordio, ma nulla è cambiato, il sangue continua a sgorgare a fiotti... Solo per amanti di sonorità estreme! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Ver Sacrum - Tyrrenika


In tutta sincerità mi aspettavo qualcosa di meglio da questa release, da più parti osannata per la scelta del combo toscano di celebrare le gesta di un popolo leggendario quanto mai sfortunato, gli Etruschi. E cosa c’è di meglio del black più feroce e tirato per compiere questa commemorazione? Mah in effetti la scelta dei nostri mi sembra quanto mai discutibile e scontata, ma si sa che quando si parla di orgoglio patriottico, non c’è miglior genere che quello oltranzista del black metal. C’è da dire però che il sound estremo proposto in questo lavoro non si limita ai suoni puramente graffianti del genere suddetto, ma convergono anche sonorità più tipicamente classicheggianti come quelle taglienti del death scandinavo o quelle corpose del thrash mittleuropeo. “Tyrrenika” rappresenta il debut album per questo quintetto senese e un po’ di ingenuità è ancora palese nei 40 minuti scarsi di questo platter. 40 minuti di ritmiche tiratissime sostenute da una batteria che più che uno strumento musicale sembra la contraerea delle notti senza stelle di Baghdad, per la sua spaventosa velocità. Le vocals gracchianti di Filippo "Veltha" Piermattei (evocative e suggestive, nei momenti in cui canta in latino) declamano, nel loro straziante incedere, la storia e le difficoltà incontrate dal popolo etrusco nella loro breve vita. In definitiva, nulla di nuovo all’orizzonte, anche se l’auspicio è che questo concept cd, sia un punto di partenza per i nostri e un punto di svolta per il black pagano italico, fiero dei suoi illustri antenati e della sua memorabile storia. Monolitici! (Francesco Scarci)

(Rock Over Records)
Voto: 65

sabato 12 marzo 2011

Grenouer - Lifelong Days


Ottima prova dei Grenouer, quartetto russo di Perm che con questo “Lifelong Days”, reissue di un album precedente uscito solo in Russia col titolo “Presence With War”, entra nel mercato europeo grazie alla Locomotive Records. Si tratta di un disco che abbraccia l’ascoltatore con un’atmosfera industrial per tutta la sua durata e che saprà soddisfare le esigenze di molti di quei metallari “duri ma non troppo”. Si inizia con la roboante “Indecent Loyalty” che introduce il disco senza troppi convenevoli per preparare lo spazio ai suoni incisivi e sincopati di “Addicted to You”: un piacevole e “diverso” momento, atto a drogare la mente di chi sa ascoltare. Stupenda “With no Concern” dove brevi e ben congegnate iterazioni, invitano la testa del metallaro al più sfrenato headbanging. La successiva “Away From Now” è solo preparatoria alla più congeniata e cattiva “Finding the One” dove la voce, a tratti growl, la distorsione delle chitarre, unitamente ad una buona prova del batterista, invitano al pogo più violento, trascinandoci in un’estasi mistica in cui tutto è concesso. La cattiveria si affievolisce solo debolmente in “Off the Back of Others” per poi essere ancora una volta riabbracciata in “The Unexpected”: una sapiente amalgama di chitarre, batteria e pause ben cadenzate tecnicizza “quanto basta” il pezzo senza scadere in eccessi. Con “Employed Beggar”, invece, il programma cambia: le chitarre diventano dissonanti, abbandonando il sound precedente. Ottima “Re-Active” di cui l’album offre anche il videoclip. A chiudere il disco la lenta, tranquilla e dalla voce questa volta pulita, “Patience” che ci riporta, purtroppo, alla cruda realtà, dalla quale le suadenti melodie di “Lifelong Days” hanno saputo solo momentaneamente strapparci. Coinvolgenti! (Rudi Remelli)

(Locomotive Records)
Voto: 80

Enough to Kill - A Reason for...


Finalmente giungono al debutto sulla lunga distanza i milanesi Enough to Kill, dopo anni di gavetta: basti pensare che il Mcd d’esordio della band è addirittura datato 2000 per capire da quanti anni il combo calca la scena. Noti originariamente come Legion, fautori di un death melodico, i nostri hanno pensato bene di sterzare il tiro e andare verso sonorità, passatemi il termine, più ruffiane, o forse dovrei dire più al passo con i tempi? Si, infatti le dieci tracce contenute in “A Reason for…” pescano un po’ qua e là nel panorama metal internazionale, lasciandosi soprattutto influenzare da sonorità tipiche swedish (In Flames e Soilwork), dal metalcore di stampo americano (As I Lay Dying e Killswitch Engage) ma anche da suoni nu metal. Quindi, niente di nuovo sotto il sole penserete voi; in effetti il disco non brilla certo in fatto di originalità, tuttavia, pur non nutrendo grossa stima nei confronti di questo genere, che altro non è che una forma involuta del death metal svedese melodico, devo dire che ho potuto apprezzare non poco la release in questione. Le chitarre si presentano belle possenti, arrembanti nella loro andatura ma al tempo stesso assai melodiche e ricche di groove, anche con qualche pregevole assolo tipo in “Lost Forever”, dove peraltro ha prestato la sua voce nel ritornello Flegias dei Necrodeth. Altre songs estremamente valide, pur non offrendo granché di nuovo ad un genere per cui più volte ho detto non aver più nulla da dire, risultano essere “Dark Way” e “New Dawn”, due ottimi pezzi che rappresentano la sintesi perfetta di quello che è l’Enough to Kill sound: ritmica incalzante (ma talvolta anche rallentata in una vena vicina a quella dei Meshuggah), ottime linee melodiche, clean and growling vocals, qualche spruzzatina di synths a riempire in modo consistente il sound del quintetto meneghino guidato da GL (bassista tra l’altro dei già citati Necrodeth). In sostanza, pur trattandosi di un disco notevolmente derivativo, devo ammettere che mi è piaciuto parecchio ascoltarlo e riascoltarlo. Magari non rientrerà nella mia top ten dell’anno, tuttavia credo che se i nostri abbandonassero un po’ i cliché tipici del genere, puntando un po’ di più su degli arrangiamenti fantasiosi e sulla creazione di ambientazioni più oscure (come in “Slivers of a Wrong Age”), grazie all’abuso indispensabile dei synth, in un futuro ne sentiremo davvero delle belle da questi ragazzi. Non perdeteli di vista e seguite attentamente la loro evoluzione! (Francesco Scarci)

(Deadsun Records)
Voto: 70

Nakaruga - Nakaruga


Band di giovanissima formazione quella che ho fra le mani: i Nakaruga, band svizzera del Canton Ticino, si è infatti formata solamente nel 2008, rilasciando nello stesso anno questo Mcd omonimo di 5 pezzi. Forti di una solida pregressa esperienza musicale, il sestetto di Lugano ci aggredisce con il loro sound moderno e ficcante, futuristico e industriale, una piccola perla per tutti coloro che amano sonorità cibernetiche vicine ai maestri di sempre Fear Factory o per tutti coloro che amano i suoni ipnotici di scuola “Meshugghiana”. L’ensemble alpino parte subito alla grande con “Nakatomy Warzone”, song che evidenzia subito le eccelse qualità di questi ragazzi: ottime le ritmiche, altrettanto buone le vocals ad opera del duo Thomas e Idris Davide che alternano il cantato growling a quello pulito, interessanti gli inserti di matrice elettro-industrial all’interno di un contesto assai grooveggiante. L’entusiasmo è già alle stelle già dalla prima song, interessante anche per quelle sue ambientazioni oscure di sottofondo. La seconda “Youth in the Matrix” attacca con le sue ritmiche sincopate di chiara matrice svedese, con il cantato che gioca un ruolo primario nella struttura delle song e il finale che evidenzia chitarre ribassate estremamente potenti. “Converter” è decisamente la migliore song del lotto: tempi dispari, melodie psicotiche grazie anche alle ottime orchestrazioni create dalle efficaci partiture tastieristiche (accattivanti anche nella quarta furente traccia) che sul finale del brano minacciano la fine del mondo. Da un punto di vista lirico, i nostri analizzano poi il pattern e i comportamenti dell’uomo nei confronti della vita di tutti i giorni. Questo è un piccolo antipasto di quello che sarà il full lenght schedulato per metà 2010 e già, devo ammettere, ho un po’ di acquolina in bocca… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

domenica 6 marzo 2011

Dark End - Assassine


Tornano i Dark End, con il loro secondo lavoro, dopo il loro discreto debutto, "Damned Woman and a Carcass". Bene, diciamo subito che da quel primo acerbo album, concentrato di black death melodico vampiresco dalle tinte sinfoniche, poche differenze si colgono, se non una certa maturazione nel song writing; per il resto, la proposta del sestetto emiliano, viaggia sulle medesime coordinate stilistiche del precedente cd. L’apertura è affidata ad un inquietantissimo “Pater Noster” un po’ rivisto nella sua recita al limite della satanica litania, che lascia ben presto posto al black sinfonico, perennemente influenzato dalla band di Dani Filth e soci (periodo “Cruelty and the Beast”), di “Mater Terribilis”, song dalle raffinate orchestrazioni e da un uso ben dosato delle tastiere. “A Bizarre Alchemical Practice” cela nel suo interno una lunga parte cantata in italiano che ha rievocato nella mia mente quei 2 pezzi, sempre cantati in italiano, contenuti nell’album di debutto degli Aborym, da brividi. Decisamente i Cradle of Filth rimangono il punto di riferimento della band nostrana, per quella ricerca costante di atmosfere orrorifiche e per quel suo riffing, non certo originalissimo, ma che comunque al giorno d’oggi ben poche band sanno eseguire. Eh si perché, cari amici, il black sinfonico non fa più tendenza come nella metà degli anni ’90 e quindi ascoltare ogni tanto dischi di questo tipo (ricordo che in Italia esistono anche i veronesi Riul Doamnei a cimentarsi in questo genere di sonorità) non fa altro che alleviare la mia sofferenza per la perdita di quello che da sempre è stato il mio genere preferito. I nostri proseguono nel loro cammino, martellando selvaggiamente l’ascoltatore con ritmiche tirate, inframmezzi acustici gotico vampireschi e da qualche pomposa orchestrazione e, udite udite, da assoli di scuola tipicamente heavy. Rispetto al debutto, di sicuro è sparita la componente più progressive lasciando esclusivamente spazio alla malvagità di suoni black, coadiuvate da una produzione pulita e da una componente tecnica medio alta. Se a ciò aggiungiamo anche che le liriche del cd ruotano intorno ad un concept legato agli assassinii compiuti dalle serial killer donne nel corso delle varie epoche storiche, la release in questione acquista ancora più fascino. Altro passo in avanti verso la maturazione, ma ci vuole ancora tempo, sudore, tanto lavoro e pazienza, ma sono convinto che ci sarà chi come me, apprezzerà non poco questa tipologia di proposta musicale. Avanti cosi! (Francesco Scarci)

(Crash & Burn Records)
Voto: 70

Black Sun Aeon - Routa


Torna il buon vecchio Tuomas Saukkonen, già mastermind dei Before the Dawn, con uno dei suoi innumerevoli progetti (Dawn of Solace, Bonegrinder, Rajavyöhyke, Jumalhämärä, The Final Harvest, gli altri). “Routa” rappresenta il secondo capitolo della saga Black Sun Aeon, album particolare perché diviso in 2 cd: il primo “Talviaamu” che significa mattino invernale e il secondo “Talviyö” ossia notte invernale. E proprio su questa alternanza giorno/notte d’inverno, giocano le musiche di questo interessante lavoro di dark death doom. Aiutato da Mikko Heikkila (Sinamore), Janica Lonn (Lunar Path) e forte della presenza in fase di stesura delle liriche, di Sami Lopakka (Sentenced) e Ville Sorvail (Moonsorrow), Tuomas sfodera ancora una volta una prova, all’altezza delle aspettative, che renderà felici tutti i fan delle sue band. Riprendendo in mano il discorso iniziato lo scorso anno con il debut “Darkness Walks Beside Me”, i nostri sono bravi nell’amalgamare suoni malinconici, cupi e gotici, ben orchestrati da melodiche linee di chitarra e da un buon song writing nella prima parte del cd, quella un po’ più calda, capace di dipingere tiepidi paesaggi polari, in cui un lieve manto di neve ricopre le verdeggianti foreste e dove il sole sfiora timido l’orizzonte. “Frozen”, “Sorrowsong” e “Wreath of Ice” sono caratterizzate da suoni decadenti, in cui la componente heavy è comunque sempre ben presente (basti ascoltare la title track per intenderci). La seconda parte del cd abbandona per cosi dire la componente più intimistica del buon Tuomas, per lasciar posto a suoni più glaciali, caratterizzanti la lunga notte delle latitudini polari. Messe da parte le atmosfere plumbee delle prime sette tracce, i nostri si lanciano in songs un po’ più selvagge, dove comunque riescono pur sempre a trovar spazio i dualismi vocali (growl-clean) dei due vocalist e i tipici rallentamenti al limite del doom, del combo finnico. Sinceramente delle due parti ho apprezzato maggiormente la prima, dove tra l’altro in “Dead Sun Aeon”, compare anche la voce angelica di Janica, e dove il sound emozionale dei nostri è in grado di animare maggiormente il nostro spirito romantico… (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 75

sabato 5 marzo 2011

SKW - Numbers


Allora, partiamo subito col dire che il disco non è male. Ecco, magari lo senti una volta e non rimani fulminato, non si scorgono grandi segnali di originalità e alcune canzoni sono più lunghe del dovuto. È, però ben prodotto e ottimamente suonato. L’ultima fatica degli italiani SKW (ex Skywalker), prodotta da Frank Andiver (Labyrinth, Oracle Sun) e registrata in Italia, non ha molto da invidiare ad altri prodotti d’oltreoceano. L’idea generale che si ricava è quella di un disco molto compatto e che segna una successiva evoluzione dello stile della band verso un suono più duro. Le tracce, prese singolarmente, sono apprezzabili, ben suonate e la voce del singer Marco appare sempre pulita. Menzione per l’introduttiva “1Minute2Lie” e “Cow(ard)” che hanno in comune piacevoli inserti di chitarra. Più aggressive “C.U.C.K.”, “Hate3” e “2Muchwords”, anche se quest’ultima parte con una certa velocità per poi rallentare e ha certe parti vocali forse fuori luogo. Tranquilla e sognante “Sleep”, spicca come una piacevole pausa, con sonorità particolari che fanno da contraltare alle altre songs. Le altre canzoni, pur mantenendo il livello, paiono dotate di minor personalità, talvolta dilungandosi o perdendosi troppo: spiace davvero. Da notare anche il remix di chiusura di “Hate3”, che porta un certo sapore elettronico alla canzone originale. Batteria precisa e basso efficace: molto meglio di quello che si sente in giro. Impossibile non citare le chitarre di Simone (colleghi più rinomati dovrebbero sperare in sue lezioni), sempre potenti e con assoli di pregio. Un solo appunto sulla prestazione del frontman: la voce è un po’ troppo lineare, da rivedere in futuro. Niente di stupefacente riguardo ai testi delle canzoni, che seguono l’idea del titolo dell’ellepì. Una parola sull’artwork del CD che personalmente trovo molto ben curato dalla Carosellolab, ma qualcuno li avverta che su iTunes glielo hanno pubblicato a testa in giù… Un lavoro alla fine concreto, che sicuramente piacerà agli amanti del genere, ma se cercate qualcosa di mai sentito o qualche alchimia particolare, potreste anche non trovarla. (Alberto Merlotti)

(AdverseRising)
Voto: 65

Monstrosity - Spiritual Apocalypse


A volte ritornano... stranamente ancora death ferale in casa Metal Blade, che ultimamente ha pensato bene di non assoldare alcuna band metalcore bensì sfornarci grandi gruppi del passato. Gradito ritorno quindi sulle scene, di un altro storico combo death metal americano dei primi anni ’90. Quinto cd per la band di Fort Lauderdale (Florida), che ricordo ancora, aver esordito nel 1992, con il terremotante “Imperial Doom” (con alla voce il mitico George "Corpsegrinder" Fisher), un fulmine a ciel sereno nel panorama death dell’epoca. Dopo 15 anni ci troviamo ancora l’act statunitense in forma strepitosa, capace di produrre musica estremamente brutale, ma al tempo stesso caratterizzata da riff accattivanti, assoli perfetti e una furia inaudita, che già li contraddistinse agli esordi. Registrato presso i mitici Morrisound Studios, “Spiritual Apocalypse” ci consegna un quartetto che, dopo innumerevoli cambi di line-up e problemi vari, ha ancora voglia di suonare, divertirsi e farci divertire, con la loro musica. Il nuovo disco è l’ennesimo assalto sonoro in tipico Monstrosity style: ritmiche devastanti contraddistinte da hyper blast beat, vocals terrificanti del buon Mike Hrubovcak e ineccepibili assoli, opera dell’ascia Mark English; fortunatamente, sporadici mid-tempos ci danno l’opportunità di rifiatare un attimo, giusto per prepararci all’incalzate distruzione. È emozionante notare, come il livello tecnico dei Monstrosity vada sempre migliorando disco dopo disco, e che il vino diventi più buono invecchiando. Da segnalare infine la presenza in veste di guest star di Kelly Shaefer (Atheist), Matt LaPorte (Jon Oliva's Pain, Circle II Circle), John Zahner (Savatage, Crimson Glory), Jason Suecof (Capharnaum), e James Malone (Arsis). Monstrosity, adrenalina allo stato puro, portatori dell’Apocalisse! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 75

Asura - Only Death for my Warriors


In questa mattina grigia, uggiosa e malinconica di fine febbraio, mi appresto ad ascoltare e commentare un mini-cd (ahimè di soli 3 pezzi) autoprodotto, di una band formatasi in quel di Olbia/Sassari nel non troppo lontano 2005. Si tratta degli Asura, act sardo, il cui sound viene definito come “melanchonic black&death metal”. Si può quindi già intuire fin dalla prima traccia “Requiem for My Warriors”, che cosa passa il mio lettore cd: song dall'incedere nostalgico cantata in growling, con ritmi che si alternano tra sferzate veloci (in pieno stile black sinfonico) e frangenti meditativi, grazie all'inserto di struggenti parti orchestrali. Il drumming è veloce e preciso, cosi come il riffing chitarristico (anche se un po' sottotono), quasi a voler equilibrare la calma e pacatezza delle tastiere, vero e proprio elemente predominante di questo lavoro. Giunta alla conclusione di questo brano, sono tornata a riascoltarne l’intro: il “coro” (ma non saprei bene come definirlo) mi ha rievocato i tipici canti popolari sardi, quasi a metter in luce una vena folk dell'ensemble isolano. La seconda traccia “Escape from Death” si apre con un delicato arpeggio, accompagnato da un basso il tutto suonato come se fosse uscito da un album dei vecchi Metallica: semplici lenti accordi che lasciano qualche secondo di silenzio tra una nota e l’altra; il cantato è sempre in growl, mentre le tastiere continuano a caratterizzare con personalità il sound dei nostri, palesando una vena più melodica (e, oserei dire, anche un po’ progressive) di questa giovane band. La conclusiva “Only Hate” si divide in tre parti: la prima è caratterizzata da un ritmo furioso e veloce, la seconda diventa più melodica (vedi brano precedente), mentre la terza riprende il ritmo furioso dell’inizio. E con questa traccia si chiude il demo cd del sestetto sardo: song molto sperimentale ma con una potenzialità nascosta che potrebbe portarli molto lontano, soprattutto se i nostri riescono a dare maggior equilibrio al dualismo chitarra/tastiere (per ora maggiormente spostato verso un utilizzo massiccio ma notevole delle keys di Psycho). Non ci resta che attendere un nuovo lavoro, sperando che sia un po’ più lungo e magari meglio prodotto, in modo da poter dare un giudizio più approfondito. Siamo comunque sulla strada giusta. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

This Weary Hour - No Hand to Comfort You


Debut album per questa band irlandese, in puro stile doom metal che ci riporta ai fasti dei “vecchi” Paradise Lost ("Gothic" e "Draconian Times", tanto per capirci), ricchi di quel pizzico di cattiveria e angoscia che aiuta a rilassare i sensi. L’album si apre con “Algor Mortis”, un brano strumentale che farebbe la sua bella figura come sottofondo per i telefilm in stile “crime” o “medical drama” (ma anche sul fermo immagine di Laura Palmer avvolta nel nylon o sul lettino dell'obitorio). Il brano infatti è composto praticamente da batteria e basso seguenti un ritmo lento e inesorabile, nonché inquietante: in una parola, algido. Lo stesso ritmo si prolunga fino alla seconda traccia, “Frozen”: in cui il cantato è si presenta come un growling comprensibile, roco e disperato; il ritmo continua ad esser lento e greve, il che accompagna perfettamente le tematiche cupe conferendoci quel senso di pesantezza interiore. Sebbene il ritmo permanga indolente, la voce si alterna tra situazioni di pura rabbia a quelle (più pulite) di tristezza: un connubio che rende il tutto ancora più emozionante e cattivo. Con “Harvest” la miscela tristezza/malinconia si fa più accentuata, grazie anche alle tematiche di distruzione di tutto ciò che si ha creato: quasi un inno all'abbandono di ogni speranza. Questo è uno dei brani più duri di tutto l'album (ed il più lungo in assoluto, ben 8.36 minuti di cattiveria!), una sorta di valvola di sfogo per il combo irlandese (ed è anche uno dei miei preferiti, soprattutto in giornate all'insegna del nervosismo). "The Lure of Prominence" è il secondo brano strumentale, incentrato particolarmente sul gioco di chitarra e basso, concentrando poi il proprio sound verso un ambito “dark” (parola di cui ormai si sta abusando, ma che calza a pennello in questo caso), che ci prepara all'ultimo brano dell'album: "The Wordsmith". La lunga traccia conclusiva si snoda in tre parti: la prima (nominata “Master of the Craft”) tratta l'illusione di ricevere dei frutti da ciò che si intende creare, vedendo coi propri occhi che qualcosa c'è; la seconda parte, “Threads Begin to Fray”) è più che altro strumentale, e l'illusione diviene reale e lo sconforto inizia ad impadronirsi di noi. La terza e ultima parte, “The Veil Descends” è il post rovina, dove tutte le buone speranze sono state spazzate via e rimane solo la disperazione, con la tarda consapevolezza che è tardi per qualsiasi altra cosa da poter fare. Cosi come le parole, la musica segue perfettamente i sentimenti, le emozioni e frustrazioni, diventando furiosa nel suo epilogo, accompagnata da un eccellente Eamonn O' Neill che dà sfoggio delle sue eccellenti doti canore. Si conclude così "No Hand to Confort You", senza alcuno strascico o nota dolce, come se tutte le forze ci avessero abbandonato. In conclusione oso dire che, nonostante l'album si componga di sole 5 tracce, ha una potenziale esplosivo dirompente. Da notare che la band, subito dopo l'uscita dell'album, ha cambiato nome in People of the Monolith, quindi se voleste cercare l'album (e vi suggerisco di farlo), è molto più probabile che lo troviate sotto questo nome, piuttosto che This Weary Hour. Tenebrosi! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

A Cold Dead Body - Harvest Years


Della serie "Italians do it better", oggi vi parlo di un gruppo rivelazione 100% italiano. A Cold Dead Body sono quattro ragazzi di Udine e Pordenone che consolidano la formazione e quindi il loro sound nel 2007, trasformando il noise iniziale in una perfetta fusione di doom metal, folk, wave psichedelico che non può lasciare indifferenti. In effetti navigando superficialmente in internet o dando un' occhiata al cd, lo stiling è molto post rock ma per fortuna c'è un' anima profonda che guida questa band e che mi ha colpito particolarmente. "Harvest Years" è l' opera prima dei A Cold Dead Body e c'è proprio tutto, dalla tecnica alla ricerca di suoni per dare un' espressione artistica completa. L' album apre con l' intro "Semen", pezzo breve e abbastanza impersonale che finisce con uno scream breve ma d' impatto. Giocando con l' assenza di pause tra le tracce, subito veniamo catapultati in "The Womb": qui l' ottima voce maschile di Stefano accompagna una costruzione che cresce insieme alle chitarre e al violino che da un tocco folk al tutto. Il terzo brano è "Madre Pt.1", introspettivo e crepuscolare e che conferma la vena ambient e psichedelica dell'act friulano, che per veder prodotto il proprio album ha dovuto volgere lo sguardo a Est, alla russa SlowBurn Records. Il pezzo risulta essere l' intro del successivo "Our Best Years", aggressività pura data dal basso distorto e dolcezza incontaminata data dalla chitarra e dal violino che giocano con la voce, una breve comparsa in questi sei minuti. Da menzionare poi "Madre Pt.2", breve intro dal taglio lirico (incredibile a dirsi) guidata da una voce femminile suadente, il tutto per condurci fino a "Collapse", dove inizialmente la voce del frontman è ingabbiata da un effetto"gregoriano" che si trasforma in puro scream pochi secondi dopo. Devo dire che alla fine delle due tracce, il rischio di rimanere senza fiato è altissimo. "Harvest Years"si chiude con la nona traccia, "Divinity", otto minuti in cui i nostri mostrano tutta la loro maturità artistica, il loro infinito talento e l'altissimo potenziale, raccontando una storia che non lascia per nulla indifferenti. Solo pregi dunque, pochi difetti e tanta sostanza. E se non l'avete capito decisamente consigliatissimi e secondo me ancora meglio in sede live, quindi da non perdere! (Michele Montanari)

(SlowBurn Records)
Voto: 80